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La Mangiatrice di Anime (La Storia degli Elohim #1)
La Mangiatrice di Anime (La Storia degli Elohim #1)
La Mangiatrice di Anime (La Storia degli Elohim #1)
E-book928 pagine11 ore

La Mangiatrice di Anime (La Storia degli Elohim #1)

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Info su questo ebook

Cosa succederebbe se la storia scritta nella Bibbia fosse solamente un espediente alieno per mettere gli uomini uno contro l’altro? Se Dio e Satana fossero solamente comandanti di eserciti in una guerra eterna?

Rebecca è la figlia di Satana. Lei è la punta di diamante dell’esercito dei Daeva, l’unica in grado di proteggere gli esseri umani dagli Amesa, gli alieni immortali dell’esercito di Geova. Conduce una vita all’apparenza normale, cercando di passare inosservata mentre compie la sua sacra missione.

Finché non ritorna Nathaniel.

Nate è travolgente, pericoloso, irresistibile. È tornato per sconvolgere di nuovo la sua vita e trascinarla in una spirale di amore, passione e dolore.

E allora tutto quello che conoscevano è destinato a cambiare: luce e tenebra si mischieranno in un uragano che distruggerà i confini tra il bene e il male, fino a portarli a dover prendere la più straziante delle scelte.

Disponibile il seguito del romanzo, dal titolo Apokalipsa
LinguaItaliano
EditoreLana Venti
Data di uscita20 mar 2014
ISBN9788869091001
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    Anteprima del libro

    La Mangiatrice di Anime (La Storia degli Elohim #1) - Lana Venti

    nuvole.

    Prologo

    A hundred days have made me older,

    since the last time I saw your pretty face.

    A thousand lies have made me colder,

    and I don’t think I can look at this the same

    3 Doors Down, Here without you

    Cento giorni mi hanno reso più vecchio,

    dall’ultima volta che ho visto il tuo bel viso.

    Cento bugie mi hanno reso più freddo,

    e non credo di poterlo guardare allo stesso modo.

    3 Doors Down, Here without you

    Capitolo 1

    «Pronto?», la ragazza rispose assonata al telefono.

    «Salve, sono Marco Isolano. Parlo con la signorina Rebecca Lupo?»

    «Si, sono io. Mi dica.»

    «Ho qui una ragazza che… ha dei problemi, diciamo. Padre Pietro ha detto che lei può aiutarmi.»

    «Dove si trova adesso?»

    «Sono nella chiesa di San Paolo.»

    «Arrivo subito.»

    Chiuse la comunicazione e posò il cellulare sul comodino.

    Si rigirò nel letto, guardando la sveglia. Erano le 4.26 del mattino.

    Sbadigliò, stiracchiando le braccia e le gambe, poi si girò e abbracciò l’uomo che le dormiva accanto, dandole la schiena.

    «Chi era?» mugugnò lui.

    «Lavoro» rispose, baciandogli la schiena nuda, «Devo andare.»

    Lui si voltò per abbracciarla.

    «Perché i tuoi pazienti chiamano sempre la notte?»

    Lei gli baciò la fronte, «Fabio, lo sai che è sempre così.»

    Si liberò dal suo abbraccio, si alzò dal letto, sfilandosi la maglietta che indossava per dormire, e si avviò nel bagno della camera.

    Si sciacquò il viso con l’acqua fredda, per cercare di svegliarsi, poi prese lo spazzolino dal bicchiere sopra il lavello e si lavò i denti, guardando il suo riflesso nello specchio.

    Lunghi capelli castani, mossi sulle punte e morbidi, incorniciavano il viso da bambola: grandi occhi verdi e limpidi, sotto le sopracciglia sottili ed arcuate, naso piccolo e labbra carnose, a forma di cuore.

    Sputò il dentifricio, distogliendo lo sguardo da se stessa, e tornò nella camera da letto.

    Indossò una camicia azzurra, lasciando gli ultimi due bottoni aperti a mostrare la bella scollatura, un paio di shorts di jeans e degli stivaletti bassi marroni di pelle morbida.

    Si rimirò nello specchio sull’anta dell’armadio, aggiustandosi il colletto della camicia, poi uscì dalla stanza.

    Attraversò il corridoio che la separava dalla cucina, oltrepassando la porta del secondo bagno e l’arco di mattoncini che portava al salotto, in stile moderno.

    Arrivò in cucina e prese la borsa marrone che aveva lasciato sulla sedia la sera prima.

    Guardò la moka: aveva voglia di un caffè, ma non ne aveva il tempo.

    Sospirò, passandosi la tracolla della borsa sulla spalla e, aprendo la porta d’ingresso, uscì dall’appartamento.

    Quando mise in moto la sua Seicento rossa, la radio si accese automaticamente, suonando una sdolcinata canzone pop.

    Uscì dal parcheggio e si avviò verso la chiesa.

    San Felice era un grande paese, o una piccola città, a seconda dei punti di vista. Si trovava a cento chilometri dalla Capitale, eppure non c’era niente che facesse pensare di essere così vicini a Roma.

    Aveva grandi polmoni verdi, bambini che giocavano per le strade, un tasso di criminalità quasi inesistente.

    Eppure la gente moriva continuamente.

    Rebecca si chiese come potessero le persone essere così cieche da non vedere quello che accadeva sotto i loro occhi.

    Imboccò la strada principale.

    Non c’era nessuno in giro; i negozi avevano tutti le saracinesche abbassate e solo qualche bar stava iniziando ad aprire.

    Trovò parcheggio proprio di fronte alla chiesa.

    Era un edificio semplice, costruito in mattoni rossi e con una grande scalinata di marmo all’ingresso.

    Rebecca si affrettò a salire e aprì la pesante porta in legno scuro, che cigolò in modo sinistro, echeggiando per la navata vuota.

    Passò tra le due file di panche in legno, dirigendosi verso l’altare di marmo, su cui vegliava un gigantesco Cristo di legno intarsiato. Guardò le panche: erano nuove. Le avevano comprate da poco.

    Si distolse immediatamente da quel pensiero. Era ancora troppo doloroso.

    Mentre camminava, la porta alla sinistra dell’abside si aprì e ne uscirono due uomini. Uno era giovane, sui trent’anni, alto e magro, con una nuvola di riccioli scuri attorno alla testa. Aveva uno sguardo intelligente e dei lineamenti delicati. Indossava un paio di jeans e delle scarpe di vernice; la camicia azzurra sottolineava la sua figura sottile. Era molto attraente.

    L’altro era sulla cinquantina, con una folta chioma bionda e gli occhi castani. Era panciuto e dall’aria allegra.

    «Rebecca» le sorrise il più vecchio, andandole incontro, «Sei sempre velocissima, cara.»

    «Padre Pietro, buongiorno» salutò lei. Si lasciò abbracciare e baciare sulle guance.

    «Lui è Marco Isolano» disse il prete, «È il nostro nuovo collaboratore.»

    Rebecca gli tese la mano: gli occhi scuri del giovane mal celavano la preoccupazione e la paura.

    La stretta di Marco fu molle e la infastidì, ma si sforzò di restare concentrata.

    «Sono contento che sia arrivato questo ragazzo» sorrise Padre Pietro, «Ora farà lui da intermediario tra i fedeli e te.»

    «Cosa è successo?» tagliò corto lei.

    «I genitori l’hanno portata un’oretta fa» sussurrò Marco, «Hanno detto che è posseduta. Dicono che non sanno più cosa fare, sono disperati.»

    «Sintomi?»

    «Niente a livello corporeo. Però parla in strane lingue, dice cose senza senso e ha spesso delle convulsioni.»

    Rebecca annuì, poi chiese:

    «Dov’è?»

    «Mi segua» le disse Marco, attraversando di nuovo la porta accanto l’abside.

    Entrarono nella sagrestia, profumata d’incenso, e proseguirono per uno stretto corridoio fino al dormitorio dei preti.

    «I genitori sono con lei» le disse Marco, prima di aprire la porta.

    La stanza era claustrofobica: una piccola finestra, nella parte più alta della parete, era l’unica apertura.

    Rebecca entrò dopo di lui e vide la ragazzina seduta sul letto, con i genitori accanto. Aveva corti capelli neri e grandi occhi azzurri. Indossava una maglietta azzurra con dei disegni ed un paio di pantaloncini neri.

    I genitori, con il volto stravolto dalla preoccupazione, si alzarono quando gli altri entrarono nella stanza.

    «Come sta?» chiese Marco.

    «È tranquilla» rispose la madre, «Sembra tranquilla.»

    Rebecca posò a terra la borsa, avvicinandosi alla giovane per verificare le sue condizioni.

    Ma non ebbe il tempo di arrivarle accanto, perché lei alzò gli occhi a guardarla. Di colpo, le sue pupille si dilatarono e i suoi occhi divennero pozzi neri. Emise un grido straziante, saltando indietro e rannicchiandosi nell’angolo tra il letto ed il muro.

    I genitori e il ragazzo saltarono all’indietro, terrorizzati.

    La ragazzina rimaneva ferma nell’angolo, ringhiando e scoprendo i denti.

    «Che succede?» chiese il padre, mentre rimaneva inchiodato con le spalle al muro per la paura.

    «Avete ragione» rispose Rebecca, «C’è qualcuno lì dentro.»

    La madre emise un gemito di dolore.

    «Come si chiama?» chiese Rebecca, senza distogliere mai lo sguardo da quello della ragazzina. Lei rimaneva nell’angolo, ringhiava e faceva schioccare la lingua sul palato.

    «Sandra» rispose il padre, mentre abbracciava la moglie piangente.

    «Okay, ora uscite» ordinò Rebecca e poi, «Marco, lei resti con me.»

    I genitori obbedirono, uscendo dalla stanza, mentre Marco farfugliava:

    «Ma... io non devo affrontare…».

    «Le ho detto di rimanere» sibilò lei.

    Marco s’irrigidì a quel tono e chiuse la porta.

    «Chi sei?» chiese Rebecca alla ragazza, che non rispose, gridando di nuovo.

    «Ti ho chiesto chi sei» ripeté, e Sandra, con uno scatto, piegò la testa verso sinistra, in maniera innaturale e spaventosa, gridando di nuovo, ma stavolta più a lungo.

    Era un grido straziante, doloroso, che d’improvviso si tramutò in una risata. Ma non era la voce di una ragazzina quella che usciva da quel corpo. Era una voce che sembrava giungesse dall’oltretomba.

    Anche Rebecca sorrise.

    «Ti stai divertendo?» gli chiese.

    «Mi diverto qui dentro» rispose l’altra.

    Marco si schiacciò contro la porta, come se cercasse di sparire.

    «Chi sei?» chiese ancora lei.

    La ragazza piegò di nuovo la testa.

    «Sono un angelo» la sfotté.

    «Lasciala andare» ordinò Rebecca.

    La voce rise ancora e la ragazzina si alzò in piedi. Il suo volto si stava deformando; la bocca si stava ingrandendo e gli occhi diventavano sempre più neri. La sua pelle si schiariva in fretta e il reticolo azzurro delle sue vene divenne evidente.

    «Vaffanculo.»

    Rebecca sorrise di nuovo, minacciosa. Senza distogliere lo sguardo dal suo, disse:

    «Lascia che ti accarezzi.»

    La ragazzina spalancò gli occhi, gridando. Saltò giù dal letto, correndo lungo la parete e si fermò in un angolo del soffitto. Ruotò la testa da un lato e poi dall’altro, ringhiando.

    Marco tremante, mormorò: «Stia attenta, la prego.»

    «Fai bene a tremare, idiota» rise di nuovo la voce, «Ti ucciderò. Ucciderò te e quella troia.»

    Rebecca camminò fino ad arrivarle sotto, senza mai sganciare gli occhi dai suoi.

    Poi, di colpo, saltò: si spinse così in alto da riuscire ad afferrarle il collo e riportarla a terra.

    Non appena toccò la sua pelle, la ragazzina si agitò e allungò le mani, cercando di graffiarla per liberarsi. Ma Rebecca era più forte: la gettò a terra, le afferrò la testa con entrambe le mani e la costrinse a guardarla negli occhi.

    Quando i pozzi neri di Sandra incontrarono gli occhi verdi di Rebecca, la ragazzina si fermò. Il suo corpo s’irrigidì, teso, e rimase immobile. Il suo rantolo era costante, ma debole.

    Con gli occhi ancorati a suoi, Rebecca sibilò:

    «Vieni da me.»

    Al suono di quelle parole, il corpo della ragazza fu scosso da tremori, sempre più forti.

    «L’ampolla» ordinò Rebecca al ragazzo, senza voltarsi, «Prenda l’ampolla nella mia borsa e la apra.»

    La ragazzina era in preda alle convulsioni e Rebecca la tenne ferma con il proprio peso, fin quando una leggera nebbia uscì dai suoi occhi, addensandosi sopra di loro in una macchia bianca.

    Lentamente, si delineò una figura, dai tratti sempre più netti.

    Aveva le sembianze di un essere umano. Era alto e massiccio, con lunghi capelli scuri lungo le spalle. Il torace scolpito e la pelle candida, come neve.

    Rebecca lo guardò negli occhi e quello la osservò, piegando la testa di lato.

    «Vieni» ordinò lei. I suoi occhi si svuotarono di colpo: aprì le braccia, spalancò le braccia e nel giro di un istante inghiottì quella strana nebbia.

    Marco non vide nulla di quello che accadde: soltanto la ragazzina stesa a terra, immobile e pallida, mentre Rebecca se ne stava in piedi, con le braccia spalancate e gli occhi chiusi.

    E quando la ragazza aprì gli occhi, il giovane fece un passo indietro per lo spavento: erano completamente neri.

    «C’è un coltello nella borsa» disse lei, «Lo prenda.»

    Con mani tremanti, Marco frugò nella sua borsa fin quando trovò il coltello d’argento, con la lama lucida ed affilata.

    Rebecca lo afferrò e, senza un gemito, s'inflisse un lungo taglio sul palmo: subito sgorgò sangue scuro e denso.

    Poi fece cenno al ragazzo di avvicinarle l’ampolla e lui obbedì.

    La strinse in una mano, lasciando che il sangue vi cadesse dentro. Si concentrò sul gocciolio costante, senza distogliere gli occhi, ancora neri.

    Il male che le scorreva nelle vene, come un veleno potente, stava scivolando fuori da lei, con una sensazione liberatoria e piacevole.

    Quando il sangue smise di scorrere, Rebecca scrollò la mano per far cadere le ultime gocce. Poi chiuse gli occhi e si portò la mano al petto, stringendola.

    Sospirò, mentre il ragazzo chiudeva l’ampolla e le porgeva delle bende di lino che aveva visto nella borsa.

    Quando riaprì gli occhi, erano di nuovo verdi e limpidi.

    «Grazie» gli disse, avvolgendosi le bende intorno alla mano, che già non sanguinava più.

    «È andato tutto bene?» le chiese Marco, ancora tremante.

    Rebecca stava per rivoltarsi con fastidio, ma si trattenne. Soltanto lei poteva vederli, perciò era normale che il ragazzo fosse ancora preoccupato.

    «L’Amesa è morto» rispose, «E la ragazzina dovrebbe riprendersi a momenti.»

    Marco annuì e poi sorrise.

    «È stata davvero incredibile. Non ho mai visto nessuno eliminare un Amesa con questa velocità.»

    Rebecca si trattenne dal roteare gli occhi e si voltò a guardare la bambina stesa a terra.

    «Mi alleno per questo da tutta la vita» disse.

    Sandra emise un gemito, muovendosi piano.

    Rebecca si chinò accanto a lei e le sostenne la testa, mentre cercava di alzarsi.

    «Dove sono?» chiese la ragazzina, guardandosi intorno spaesata.

    Rebecca le sorrise.

    «Sei in chiesa» le disse, con tono dolce, «Sei stata male.» Alzò lo sguardo su Marco e disse: «Li faccia rientrare.»

    Quando lui aprì la porta, i genitori si catapultarono nella stanza.

    «Come sta?» chiese il padre.

    «Sicuramente sarà stanca» rispose Rebecca, alzandosi in piedi.

    Vedendo il padre, Sandra scoppiò in lacrime e tese le braccia. Lui la strinse, sorridendo con sollievo.

    Rebecca pensò di lasciare un po’ di privacy alla famiglia e si avviò verso la porta, ma la madre la fermò, afferrandole un braccio.

    «Grazie» le disse, con gli occhi velati, «Grazie per averla salvata.»

    Rebecca sorrise di nuovo.

    «Non deve ringraziarmi. Ho fatto solo il mio lavoro.»

    Capitolo 2

    Sedeva con i gomiti sul tavolo, nella cucina della chiesa, mentre Marco posava la moka sui fornelli.

    «Mi dispiace esserci conosciuti in queste circostanze» disse il ragazzo, appoggiandosi con i fianchi al lavandino per guardarla.

    Rebecca sedeva con le gambe accavallate e una sigaretta tra le dita.

    Aveva appena finito un esorcismo, era stata svegliata nel cuore nella notte, eppure non c’era ombra di stanchezza sul suo viso. Ed era davvero bellissima.

    «Non importa» rispose lei, «È il mio lavoro.»

    «La chiamano spesso nel cuore della notte?» chiese sorridendo.

    «Abbastanza. Ma non darmi del lei.»

    Lui annuì, incrociando un piede sull’altro.

    «Hai scelto un cognome piuttosto banale» disse lei, espirando una nube di fumo, «Quasi tutti quelli che vengono dall’Isola si chiamano Isolano.»

    Marco ridacchiò.

    «Non ho molta fantasia» ammise, «Tu sei stata più brava.»

    Rebecca inarcò le sopracciglia, cercando di non mostrare il fastidio: troppi complimenti gratuiti la innervosivano sempre.

    «Ti piace essere un gladiatore?» le chiese lui.

    Rebecca alzò le spalle.

    «Non è che abbia molta scelta.»

    «E lavori tanto?».

    Rebecca inclinò la testa e gli rivolse un sorriso strafottente.

    «Beh, il male non va mai in ferie.»

    Lui abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe, imbarazzato. Era ovvio che lavorasse tanto.

    Rebecca prese un altro tiro dalla sigaretta e si fece passare il pacchetto tra le dita, lasciandolo cadere sul tavolo.

    Aveva l’obbligo di conoscere il novellino ed era buona educazione prendere un caffè con lui, ma questo non significava che dovesse anche piacerle.

    «Tu…» esordì Marco, cercando di rompere quel silenzio imbarazzante, «Sai di essere una leggenda, vero?»

    Rebecca sbuffò, infastidita.

    «Che esagerazione» disse, «Ci sono uomini che hanno più di mille anni e molte più battaglie di me alle spalle.»

    «Certo, è vero. Ma tu sei l’unica Mangiatrice di anime al mondo.»

    Lei abbassò lo sguardo sul pacchetto di sigarette, infilando l’unghia tra il cartone e la foderina trasparente.

    Già. L’unica al mondo.

    «A volte mi chiedo se sia un dono o una maledizione» mormorò.

    Ma Marco la sentì e il suo viso s’illuminò.

    «Non può essere che un dono» le disse, «Tra i cercatori, non si parla d’altro che di te.»

    Rebecca sospirò, rilassandosi contro lo schienale della sedia.

    Detestava essere al centro dell’attenzione in quel modo.

    «Voi cercatori» gli chiese, volendo cambiare argomento, «Fate una specie di scuola, giusto?».

    Marco annuì.

    «L’accademia è a Barcellona. Lì ci insegnano la storia di Helel, Yahweh, degli Elohim e ci insegnano come aiutare i gladiatori.»

    Rebecca sollevò un sopracciglio.

    «Allora perché mi hanno detto che sei in apprendistato? Dovresti sapere già tutto.»

    Marco sorrise imbarazzato, grattandosi la testa riccioluta.

    «Sì, beh… in realtà è tutta teoria. Non ho mai fatto niente di pratico.»

    Rebecca alzò le spalle, spegnendo la sigaretta nel posacenere sul tavolo.

    «Sei solo inesperto. Non c’è da vergognarsi.»

    «Lo so» disse, mettendosi le mani nelle tasche dei jeans e stringendosi nelle spalle, «Ma lavorare con te… la tua fama mi mette un po’ sotto pressione.»

    Rebecca lo fissò per un momento, prima di scoppiare a ridere.

    «È veramente la cosa più stupida che abbia mai sentito.»

    La moka borbottò, interrompendoli.

    Marco si voltò, togliendola dal fuoco, e versò il caffè in due tazzine.

    «In accademia non si parla d’altro che di te. Tutti sanno che sei speciale.»

    Posò una tazzina di fronte a lei, che la sollevò.

    «Forse a Barcellona lo sanno tutti» disse Rebecca, «Ma qui non lo sa nessuno. Perciò ti prego di mantenere il massimo della riservatezza.»

    Lui aggrottò le sopracciglia, dubbioso.

    «E come giustifichi le chiamate nel cuore della notte?».

    «Credono che io sia una psicologa ecclesiastica, che mi occupi del benessere psicologico dei preti e dei membri della comunità. Anche Padre Pietro sa che facciamo solamente delle sedute psicologiche con i fedeli.»

    Marco sorrise, sollevando la tazzina verso di lei.

    «Così non puoi dire niente perché sei obbligata dal segreto professionale.»

    «Esatto.»

    Rebecca bevve un sorso di caffè bollente, mentre lui chiedeva:

    «Sai, volevo chiederti del cercatore che c’era prima di me.»

    La sua espressione cambiò di colpo: divenne seria, contrita. E Marco se ne accorse.

    «Cosa vuoi sapere?» chiese gelida.

    «Cosa…» esitò, temendo di aver toccato un tasto dolente, «Cosa gli è successo. In accademia mi hanno detto che un Amesa l’ha ucciso, ma… insomma, vedendoti lavorare, mi sembra che tu prenda tutte le precauzioni. Cosa è andato storto?».

    Rebecca si passò la punta della lingua sul labbro superiore, sospirando. Poi alzò gli occhi verdi sul ragazzo e rispose:

    «Non è stato un Amesa qualunque. È stato Yahweh in persona.»

    Marco spalancò gli occhi, sorpreso.

    Rebecca bevve tutto d’un sorso il caffè bollente e posò la tazzina sul tavolo. Poi si alzò, raccogliendo la borsa da terra. «Grazie del caffè, Marco» gli disse.

    Lui annuì, senza sapere cosa dire, ma lei non si aspettava una risposta. Gli voltò le spalle e uscì dalla cucina.

    Capitolo 3

    Sedeva al tavolino di un bar, sotto un gazebo di telo bianco, al centro della piazza.

    A quell’ora, i tavoli intono a lei erano tutti pieni, ma nessuno le badava: era solo una ragazza normale che faceva colazione.

    Con le mani spezzò il croissant, ne prese un pezzo e lo mangiò.

    Il cameriere arrivò in quel momento con il caffè. Lo appoggiò sul tavolino e poi tornò nel bar.

    Rebecca controllò che nessuno la vedesse, prima di raccogliere con un dito i granelli di zucchero sul piattino del croissant e portarseli alle labbra.

    Sua madre era molto severa riguardo la sua educazione in pubblico e l’aveva rimproverata molte volte per quel vizio. Suo padre, allora, non appena erano soli le concedeva ogni libertà.

    Questo, prima che sua madre morisse e suo padre impazzisse, diventando solo un portatore di rabbia e rancore.

    «Io la vendicherò» grida suo padre, mentre Rebecca piange, «Ucciderò tutti quelli intorno a lui. Lo ammazzerò con le mie mani!»

    Scosse la testa a quel ricordo e aprì la bustina di zucchero, versandolo nel caffè.

    Fabio si avvicinò al suo tavolo. Era alto e magro, con i capelli castani rasati quasi a zero e gli occhi azzurri nel bel volto da bravo ragazzo.

    «Ciao, bellissima» le sorrise, chinandosi per stamparle un bacio sulle labbra. Poi si raddrizzò e fece un cenno al cameriere, chiedendo un caffè.

    Aggirò il tavolo, sedendosi accanto a lei.

    «Com’è andata stanotte?» le chiese.

    «Bene.»

    «Mi sei mancata stamattina» disse, allungandosi sulla sedia e baciandola di nuovo.

    «Ti prometto che stasera mi farò perdonare» sussurrò lei sulle sue labbra.

    Il viso pulito di Fabio s’aprì in un sorriso Fabio malizioso.

    «Promette bene» mormorò.

    Rebecca stampò ancora le labbra sulle sue, accarezzandogli la guancia.

    «Prometto sempre bene» ridacchiò, mordendosi il labbro inferiore. Poi lo lasciò andare e lui si risistemò sulla sedia.

    «A che ora tornerai a casa?» gli chiese.

    «Spero di non fare tardi» rispose lui, appoggiandosi contro lo schienale «Mi hanno mandato i nuovi progetti stamattina e non so ancora quali modifiche ci siano da fare.» Sbuffò, «Se continuano a cambiare tutto, chiuderemo il cantiere fra otto mesi invece che quattro. »

    Rebecca posò una mano sulla sua.

    «Sii paziente, tesoro. Più tempo ci metti a costruire, più soldi ti daranno.»

    Lui ridacchiò.

    «Sì, è vero.»

    Il cameriere portò il suo caffè e Fabio vi versò una bustina di zucchero, che miscelò con il cucchiaino.

    Rebecca lo osservò in silenzio: lui girava sempre il caffè in senso antiorario.

    Nonostante fossero insieme da qualche anno, continuava a trovarla una strana abitudine.

    «Ad ogni modo» gli disse, appoggiando la spalla alla sua, «Ti aspetterò a letto.»

    «Mi sembra un’ottima idea» rise lui.

    Rimasero un istante in silenzio, sorseggiando i caffè, poi fu Fabio il primo a parlare.

    «Becca, devo chiederti un favore.»

    Lei inarcò un sopracciglio.

    «Dimmi.»

    «Oggi ho incontrato un mio vecchio amico. È una persona fantastica e non ci vedevamo da un secolo.»

    «Arriva al dunque, per favore» disse lei sospettosa.

    «Non è niente di che. È solo che l’ho invitato a cena per domani sera. Così, mi chiedevo se per te andava bene farlo venire a casa. Altrimenti posso portarlo fuori, al ristorante» le sorrise cercando di ingraziarla.

    Lei inclinò la testa di lato, sorridendo a quel volto pulito e simpatico, dagli occhi azzurri e limpidi. Era un bravo ragazzo e la amava tanto.

    «Va bene» acconsentì, «Portalo a casa»

    Lui sorrise raggiante.

    «Grazie. È davvero importante per me che tu lo conosca.»

    «Davvero?» chiese lei, inarcando le sopracciglia.

    «Certo. È stato il mio coinquilino all’università: ne abbiamo combinate di tutti i colori insieme.»

    «Immagino» disse ironica.

    Fabio non le sembrava davvero un ragazzo che potesse cacciarsi nei guai all’università.

    «Perfetto. Allora gli dico che domani sera viene da noi.»

    Era felice come un ragazzino a Natale, tanto che Rebecca non poté fare a meno di ridere.

    «Sei così contento. Se preferisci posso lasciarvi soli, così lo avrai tutto per te.»

    «Assolutamente no» le disse, abbracciandola, «Voglio che veda quanto è meravigliosa la mia fidanzata.»

    Lei rise ancora.

    Fabio guardò l’orologio sulla torre comunale e sbuffò.

    «Devo scappare» le disse, «Altrimenti faccio tardi. Ci sentiamo dopo okay?»

    «Okay.»

    Scolò il caffè, le diede un bacio sulle labbra e poi si alzò, incamminandosi verso la macchina.

    Rebecca lo guardò andare via. Fabio era così magro ed esile; a volte si chiedeva come facesse a reggersi in piedi.

    Ogni volta che pensava a lui, aveva l’insopprimibile istinto di proteggerlo.

    Non poteva rivelare a nessuno chi fosse davvero e, contro tutte le sue aspettative, Fabio aveva accettato il suo lavoro con i suoi assurdi orari senza fare troppe domande. Era un uomo troppo buono.

    E lei aveva giurato che lo avrebbe protetto per sempre.

    A volte, si chiedeva se lui non avesse intuito qualcosa.

    Ma poi si ricordava che lui era talmente ingenuo e di buon cuore, che credeva davvero alle balle che lei diceva in continuazione. Quelle che diceva per il suo lavoro. Per i lividi. Per il sesso.

    Scosse la testa: non voleva pensare a questo.

    Non quando le cose sembravano andare così bene.

    Si era ripresa. Era uscita da quel tunnel.

    Fabio non era Lui, ma Lui non c’era più da tanto tempo.

    Fabio era tutto il suo mondo ora. E lo sarebbe stato per sempre.

    Capitolo 4

    Entrò nel cimitero quando mancavano solo trenta minuti alla chiusura. Il sole era tramontato e le flebili luci del campo santo illuminavano i viali di ghiaia.

    Percorse la strada che conosceva a memoria, inebetita dal profumo dei fiori che ricoprivano le gigantesche pareti di loculi.

    Si fermò di fronte ad una lapide di marmo chiaro, con un gran bouquet di rose rosa nel vaso.

    Sorrise, guardando la foto della giovane donna che vi era sepolta. Con le dita sfiorò le lettere dorate in rilievo.

    Eva Risoli. Madre e Moglie adorata. Sentiremo la sua mancanza nei secoli a venire.

    Certo, Padre Giulio non aveva avuto molta fantasia quando aveva scritto la lapide di sua madre.

    Quella che lei stava guardando non era la sua vera tomba. Sua madre era sepolta in un luogo pacifico e isolato, sull’Isola dei Daeva.

    Quello era solo un loculo vuoto. Padre Giulio aveva fatto incidere quella lapide solo per lei, perché avesse un posto dove guardare la madre dopo che suo padre l’aveva allontanata dall’Isola.

    Eva era morta quando lei aveva otto anni.

    Da quel momento, suo padre non era più stato lo stesso.

    In lui non c’era più alcuna traccia dell’uomo meraviglioso e del padre amorevole che era stato.

    Rebecca entra in casa. Fuori c’è il sole, è una giornata caldissima.

    La cucina è pervasa da un buon odore di cibo, ma non è uguale al profumo che sentiva quando era la mamma a cucinare. Questo è più forte, più intenso. La signora che aiuta papà non è brava come lo era lei.

    Suo padre è seduto su una sedia, con i gomiti posati sul tavolo apparecchiato per il pranzo.

    Quando lei si avvicina, lui alza il viso a guardarla.

    Ha degli occhi bellissimi: sono viola, come delle ametiste. Prima brillavano di vita e di gioia. Ora invece sono cerchiati di nero e sembrano spenti.

    I capelli neri sono pettinati all’indietro. Il suo torace è ampio, le sue spalle larghe. È un omone grande e forte. Ma da quando sua madre è morta, non sembra più così imponente.

    Le rivolge un sorriso malinconico e dice:

    «Vieni Becky, siediti accanto a me.»

    Lei obbedisce e prende posto alla sua destra. Lui le accarezza una guancia con tenerezza e dice:

    «Sei davvero identica a tua madre, bambina mia.»

    Rebecca gli sorride e chiede:

    «Cosa c’è per pranzo?»

    «Ti va un po’ di pasta?» chiede la donna che sta trafficando di fronte ai fornelli.

    È rubiconda, con i lunghi capelli scuri raccolti in una crocchia dietro la nuca. Indossa un abito azzurro e un grembiule bianco. Nel volto roseo, gli occhi scuri la guardano con dolcezza.

    Rebecca le sorride:

    «Sì, grazie, Anita.»

    «E per lei va bene, signore?» chiede Anita.

    L’uomo annuisce e si rivolge di nuovo alla figlia.

    «Dobbiamo parlare, Becky» le dice serio, «Ci saranno dei cambiamenti, da oggi in poi.»

    Rebecca non risponde, ascoltando con attenzione.

    «Più tardi, Anita ti aiuterà a preparare le valige. Andrai da un mio caro amico: lui ti insegnerà tutto quello che devi sapere. Ti insegnerà a combattere gli Amesa.»

    Segue solo un istante di silenzio e Anita lascia cadere il cucchiaio, sporcando di sugo il pavimento intorno ai suoi piedi.

    «Mio signore» mormora, incredula, «Mi perdoni, ma… è una bambina.»

    L’uomo le rivolge uno sguardo di ghiaccio.

    «Non è una comune bambina. È figlia di un Elohim puro: è più forte di ogni altro essere sulla Terra» dice, con un tono che non ammette repliche, «Rebecca è mia figlia, la figlia di Helel. Lei sarà una guerriera. Diventerà un gladiatore.»

    Anita, però, non demorde.

    «Mio signore» azzarda, «Gli altri guerrieri non vorranno una donna… una bambina tra le loro file.»

    Helel batte un pugno sul tavolo.

    «I gladiatori faranno quello che io gli dirò di fare!» tuona, «Mia figlia combatterà. E vendicherà la morte di sua madre.»

    Pochi giorni dopo, Rebecca era stata portata via dalla sua casa vicino al mare. Era stata allontanata dai suoi amici, dalla sua famiglia, aveva lasciato la sua amata isola.

    Ed era stata portata a San Felice, da Padre Giulio.

    Rebecca entra nella piccola sagrestia. C’è un uomo seduto su una sedia di pelle, dietro una scrivania di legno. È un prete. È un uomo grande, con una lunga barba bianca e gli occhi azzurri. Le piace; sembra Babbo Natale.

    La invita a sedersi sulla sedia vuota davanti alla scrivania e lei obbedisce.

    Anita ha detto che deve obbedire a Padre Giulio. Che lui le insegnerà tante cose e le spiegherà chi ha ucciso la sua mamma.

    «Rebecca, sai perché ti hanno portata qui?»

    Lei annuisce e le trecce castane dondolano sulle sue spalle.

    «Papà ha detto che sarò la prima femmina a essere un gladiatore.»

    Padre Giulio annuisce.

    «Sai cosa fa un gladiatore?»

    Rebecca scuote la testa e lui le spiega:

    «Tu fai parte del popolo dei Daeva, i seguaci di Helel. I gladiatori sono quei Daeva che sono molto più forti di tutti gli altri. Sono dei guerrieri. Combattono contro gli Amesa, i seguaci di Yahweh.»

    La bambina aggrotta le sopracciglia, perplessa.

    «E chi è Yahweh?»

    «Ora non devi preoccuparti di questo», Padre Giulio le sorride, rassicurante, «Fin quando non sarai abbastanza grande per combattere, possiamo studiare insieme, ti va? Così, quando arriverà il momento per te di compiere il tuo dovere, sarai pronta.»

    Da allora, niente più era stato facile.

    Suo padre andava a trovarla solo per verificare che il suo addestramento procedesse secondo i piani e quasi non le rivolgeva la parola.

    Lei si sentiva sola: viveva con Padre Giulio, che la cresceva tra allenamenti e sessioni di studio. Voleva che lei fosse il migliore dei gladiatori.

    Ed era riuscito nel suo intento: a ventiquattro anni, Rebecca era l’unico gladiatore donna che fosse mai esistito. Ed era la più forte: nessun gladiatore al mondo poteva eguagliare le sue capacità.

    Ma il prezzo da pagare era stato un’infanzia difficile, vissuta nelle sale della chiesa, e un costante senso di solitudine.

    Padre Giulio non voleva che gli altri bambini la distraessero dal suo dovere primario: il suo compito era studiare e le era consentito frequentare i ragazzini dell’oratorio due volte a settimana.

    Tutto il resto era proibito. Amiche, abiti femminili, le feste di compleanno, le gite con la scuola.

    Sono nella sala della chiesa che Padre Giulio ha adibito a palestra.

    Ogni giorno la allena alla lotta per almeno sei ore.

    Rebecca ha sedici anni ed è quasi una donna ormai. I lunghi capelli raccolti in una sobria treccia e una croce di legno benedetta appesa al collo.

    Indossa una tuta comoda, è seduta per terra al centro della palestra ed è sudata e stanca.

    Per farle riprendere fiato, Giulio ha deciso di interrogarla.

    «Quando gli Elohim decisero di abbandonare gli esseri umani al loro destino e tornarono sul loro pianeta, Yahweh e Helel, assieme ai loro seguaci, furono gli unici a rimanere sulla terra. Helel perché voleva proteggere gli esseri umani, che gli erano tanto cari, e Yahweh perché voleva distruggerli.

    Nel suo infinito amore per l’umanità, Helel non distinse mai gli Elohim dagli umani, per questo si creò la popolazione mista dei Daeva. Alcuni hanno il dono di essere più forti degli altri e quelli sono i gladiatori. Ogni gladiatore mischia in sé sangue mortale e sangue immortale. Voi gladiatori siete i soli a poter affrontare gli Amesa.» Rebecca ascolta in silenzio e Padre Giulio continua: «Chi sono gli Amesa?»

    «I seguaci di Yahweh» risponde lei prontamente, «Sono tutti Elohim puri. Sono forti e crudeli. Quando vengono uccisi, le loro anime possono incarnarsi nei corpi degli esseri umani morti o incoscienti. Allora possono essere uccisi di nuovo, ma devono essere bruciati vivi, altrimenti le loro anime sono in grado di ricomporsi e incarnarsi in un altro umano.»

    «Cosa succede se si incarnano in un essere umano incosciente?»

    Rebecca sospira. Preferisce allenarsi che subire quelle interrogazioni.

    «Un umano incosciente non ha perso l’anima: è solo momentaneamente sopita. Perciò, quando un Amesa entra dentro di lui, può nascondersi e passare inosservato, oppure, se si esprime, può modificare il corpo ospite rendendolo mostruoso. È per questo motivo che negli esseri umani si è instillata la credenza della possessione demoniaca.»

    «Benissimo» le dice, «Adesso parlami dell’anima.»

    Rebecca si accarezza la treccia distrattamente.

    «Per gli esseri umani l’anima è qualcosa di spirituale. In realtà non è così. Come tutte le cose, l’anima è fatta di molecole. Queste possono essere manipolate. Gli Elohim puri sanno manipolare l’anima, così da non morire mai.»

    Le aveva insegnato a combattere. Aveva ricevuto l’addestramento tipico di ogni gladiatore Daeva.

    Ma quando arrivò al suo primo incontro con un vero Amesa, successe quello che nessuno si sarebbe mai aspettato.

    Rebecca è di fronte all’uomo, che la guarda con crudeltà. I suoi occhi sono rossi, di un terribile color vermiglio. I lunghi capelli biondi attorno al volto bellissimo.

    Le ride in faccia.

    «Un gladiatore donna?» continua a ridere, «Helel è caduto davvero in basso se ora deve far combattere anche le donne. Sei solo una ragazzina! Quanti anni hai? Tredici?»

    «Ne ho sedici» dice Rebecca. Cerca di sembrare forte, fiera. Vuole essere un guerriero, non una ragazzina. Vuole che suo padre sia fiero di lei.

    L’uomo si avvicina velocemente e la afferra per il collo, sollevandola da terra.

    «Non osare rispondermi, ragazzina» le dice, «Posso ucciderti con una sola mano.»

    Rebecca gli dà un calcio nello stomaco, allontanandolo da sé e liberandosi dalla sua presa.

    L’uomo ritorna all’attacco. La colpisce sul viso, tanto forte da farla cadere a terra. Lei si volta sulla schiena per alzarsi, ma lui l’afferra per le caviglie e la tira a sé, facendola passare tra le sue gambe.

    Le stringe le spalle e la inchioda a terra. Si siede sulle sue gambe e le tiene le braccia, schiacciandola contro l’asfalto umido.

    «Sei solo una povera illusa. Tu e quel patetico di Helel! Avreste dovuto schierarvi dalla parte giusta quando ne avevate la possibilità. Voi Daeva finirete tutti come la moglie di Helel: Yahweh darà i vostri resti in pasto ai suoi cani.»

    E Rebecca sente qualcosa montare dentro di sé.

    È qualcosa che è sempre stato lì, ma lei non l’ha mai lasciato uscire. È una strana forza, un’energia che riempie tutto il suo corpo. L’ha sempre sentita ogni volta che voleva rispondere a suo padre ma non lo faceva. Ogni volta che voleva ribattere a Padre Giulio ma non poteva farlo.

    Non l’aveva mai lasciata uscire.

    Ma adesso, mentre l’Amesa incombe su di lei, mentre la paura di morire le attanaglia le viscere, esplode.

    L’uomo avvicina il viso al suo, mormorando: «Sarà un piacere uccidere un altro Daeva. Specie una carina come te.»

    Rebecca, d’improvviso, gli sorride. L’uomo aggrotta le sopracciglia, confuso, e non la vede arrivare.

    Lei gli dà una testata in piena fronte, facendolo inclinare all’indietro, poi lo colpisce al viso con un destro. L’Amesa cade di lato e si rialza: con un calcio nel costato, lo fa rotolare.

    L’uomo geme dal dolore, tossisce sangue.

    Rebecca si avvicina con calma, inondata da una sensazione di potere.

    Lui cerca di sollevarsi, ma è ferito e finisce carponi sull’asfalto. Si volta a guardarla. I suoi occhi rossi non sono più sprezzanti ora. Sono spaventati.

    «Non uccidermi» la supplica, «Ti prego, non uccidermi. Farò tutto quello che vuoi, ma non costringermi ad entrare in un cadavere.»

    «Guardami negli occhi» dice lei, e l’uomo obbedisce. Subito, il suo sguardo si svuota. Rebecca lo afferra per le spalle e lo solleva, mettendolo in ginocchio. Poi gli afferra la testa con le mani e, con un movimento netto, gliela stacca dal collo.

    «Becca no!» grida Giulio dietro di lei, «Così perdi la sua anima!»

    Ma Rebecca non lo ascolta. Dalla testa decapitata, esce una leggera nebbia chiara.

    Lei sa cosa deve fare.

    Si concentra più che può e i suoi occhi diventano vitrei, quasi fosse morta. La nebbia, allora, si accumula attorno alla sua bocca e lei la aspira, inghiottendola.

    Giulio si avvicina in fretta. La afferra per le spalle e la scuote.

    «Becca, che hai?» le chiede, preoccupato, «Dimmi qualcosa.»

    Ma lei immobile, con lo sguardo vacuo e fisso.

    «Becca, parlami!», la scuote più forte.

    D’un tratto, gli occhi di Rebecca s’illuminano di vita, ma sono del tutto neri.

    «È dentro di me» dice, con una voce che non sembra la sua, «L’Amesa è dentro di me.»

    Giulio la lascia andare e indietreggia, sorpreso. Resta pietrificato per qualche istante, prima di riscuotersi. Allora corre verso la borsa che porta sempre con sé. La apre e cerca freneticamente qualcosa. Lo trova. Il coltello è lì.

    Si avvicina di nuovo a Rebecca e le prende la mano. Le incide il palmo con la lama e lascia che il sangue goccioli sull’asfalto umido.

    Molti Elohim avevano un dono.

    Alcuni potevano dominare gli elementi: il fuoco, l’acqua, l’aria o la terra.

    Altri potevano dominare i suoni.

    Tutti i gladiatori sapevano dominare la mente.

    Ma lei era unica al mondo.

    Lei era l’unica in grado di uccidere davvero un Amesa. Non solo di eliminare il suo corpo, ma anche di annientare la sua anima.

    Dopo quell’episodio, Helel la riportò sull’Isola per qualche settimana. La analizzarono, la studiarono come un topo da laboratorio, e scoprirono che il segreto era nel suo sangue.

    Una strana combinazione genetica consentiva al suo sangue di sciogliere le molecole che tenevano insieme le anime. Questo, abbinato alla sua sorprendente capacità di dominare la propria mente, sopendola a suo piacimento così da risultare incosciente, le consentiva di divorare le anime degli Amesa, distruggendole per sempre.

    E in breve tempo, tutti conobbero il suo nome: i Daeva la elogiavano, gli Amesa la temevano.

    Era di nuovo la pupilla degli occhi di suo padre.

    La chiamava molto più spesso, andava a trovarla, ma sempre con una sola, unica domanda: «Quanti ne hai uccisi finora?»

    E lei non voleva essere solo questo. Non voleva vivere nell’ossessione della vendetta di suo padre.

    Non appena compì diciotto anni, i conti che suo padre le aveva intestato si sbloccarono.

    Grazie a quei soldi, aveva potuto abbandonare le stanze della chiesa ed iniziare a vivere per conto proprio.

    Aveva comprato l’appartamento in cui viveva ora con Fabio, aveva iniziato a conoscere altre persone, a vedere la realtà per come era davvero.

    Padre Giulio però non l’aveva presa bene. Non voleva che lei si allontanasse: brava di tenerla sempre sotto controllo, per paura che qualcosa la distraesse dal suo dovere, attirandogli l’ira di Helel.

    Così litigarono, non si parlarono per mesi.

    «Non puoi ribellarti in questo modo!» grida Padre Giulio a Rebecca, che sta sulla porta della sagrestia con le valige accanto ai piedi.

    «Ormai posso andare per la mia strada» dice lei, «Mi hai insegnato tutto quello che dovevo sapere.»

    «Non sei pronta a stare sola! Quando uscirai di qui, il mondo ti divorerà. Non sarai più l’implacabile guerriero che sei adesso: ti corromperanno, in ogni modo. Ed avrai vanificato tutto il mio lavoro.»

    «Io non sono il tuo lavoro, Giulio!» grida Rebecca, «Sono una persona! E voglio vivere la mia vita a modo mio!»

    Rebecca solleva le valige e Giulio batte i pugni sulla scrivania, dicendo:

    «Se esci da quella porta, non osare tornare.»

    E da quel momento si erano incontrati solamente per lavoro. Lui la chiamava quando aveva qualche caso e lei si presentava, puntuale e professionale.

    Non avevano mai più parlato del passato, di come lui fosse stato un padre. Un padre estremamente severo, ma comunque l’unico punto di riferimento di gran parte della sua vita.

    Sospirò, baciandosi le dita ed accarezzando la foto.

    «Mi manchi» disse, «Le cose sarebbero andate diversamente se fossi stata qui.»

    Lasciò il mazzo di margherite bianche sulla mensola di marmo e si voltò, avviandosi verso l’uscita.

    Mentre camminava, sentì un brivido alla base del collo.

    Sapeva cosa significasse quella sensazione.

    Si guardò intorno, ma non vide niente.

    Si fermò.

    «Non ho voglia di giocare. Fatti vedere» ordinò.

    Un ringhio alle sue spalle la fece voltare.

    Davanti a lei c’era un uomo molto alto. Se ne stava in piedi, eretto e fiero. I muscoli spiccavano sotto la camicia aderente, e sulla testa aveva una corona di capelli castani, spettinati.

    Gli occhi sembravano fatti di pietra grigia, profondi e gelidi.

    Nel suo petto, brillava come un medaglione di luce: Rebecca era l’unica a poterlo vedere. Le anime intatte, brillavano in modo accecante, per lei.

    Gli rivolse un sorriso.

    «Un Amesa originario in un cimitero?» lo sfotté, «Non dovresti essere a far strage di umani da qualche parte?»

    «Mi piace il sangue degli umani» disse lui, poi batté i denti e un suono sordo riecheggiò per il cimitero deserto.

    Rebecca decise di attaccare per prima.

    Gli corse incontro cercando di colpirlo nel volto, ma l’uomo la saltò, atterrando dietro di lei.

    Le passò un braccio attorno alle spalle e la afferrò per la gola, stringendola a sé.

    Rebecca cercò di divincolarsi, ma lui era forte. Allora piegò la testa in avanti e poi la gettò all’indietro, colpendolo in piena fronte. Quello la lasciò andare, indietreggiando.

    Rebecca si rigirò e lo colpì nello stomaco. L’Amesa si piegò in due e lei infierì con una gomitata dietro la nuca.

    L’uomo cadde a terra e lei gli piantò un calcio nel costato, rigirandolo. Si mise a cavalcioni su di lui e gli afferrò la testa, puntando gli occhi nei suoi.

    Lui scosse la testa, cercando di rialzarsi, ma Rebecca lo teneva ancorato a terra, spingendo le ginocchia sui suoi gomiti.

    «Adesso guardami» ordinò. Lui, contro la propria volontà, assuefatto al potere della figlia di Helel, smise di muovere la testa e obbedì.

    Rebecca gli strinse la testa e, con un movimento secco, la torse, tirandola verso l’alto e staccandogliela dal collo.

    La gettò a terra, mentre si rialzava, e nel giro di qualche secondo, la nebbiolina iniziò a sollevarsi.

    Allora sospirò e dischiuse le labbra.

    La nebbia entrò nella sua bocca con la violenza di uno schiaffo.

    Rebecca si raddrizzò e chiuse gli occhi, concentrandosi per non lasciarsi sopraffare da quell’anima crudele. Poi camminò fino alla la tomba più vicina e afferrò uno dei lumini rossi. Lo batté con forza contro la lapide in marmo, spaccando la plastica, e usò una delle punte per infliggersi un taglio nel palmo. Ruotò la mano, lasciando che il sangue cadesse sull’erba umida delle aiuole.

    Nel frattempo, il corpo dell’Amesa era svanito: la suo posto, c’era soltanto la pozza d’acqua che restava quando, una volta che l’anima aveva abbandonato l’involucro di carne, i resti degli alieni si liquefacevano.

    Quando il sangue smise di scorrere, lei agitò la mano, facendo cadere le ultime gocce.

    Si guardò intorno controllando che nessuno l’avesse vista.

    Sospirò, sistemandosi la cintura del trench che si era spostata, e si avviò verso l’uscita.

    Capitolo 5

    Entrò nella sala deserta quando era già passato mezzogiorno.

    La palestra di San Felice era molto grande; aveva una piscina olimpionica, cinque sale per le attività di aerobica, danza e arti marziali, e un enorme spazio per il fitness.

    In più c’era una SPA, in cui le signore e gli atleti andavano a rilassarsi, con bagni termali e massaggiatrici diplomate.

    In realtà, Rebecca non avrebbe avuto bisogno di pagare un abbonamento: nella sala della chiesa c’era una palestra costruita appositamente per lei.

    Ma aveva smesso di andarci dopo aver litigato con Padre Giulio aveva smesso di andarci e, dopo la sua morte, non voleva davvero più mettervi piede.

    Scosse la testa, volendo in realtà scuotere la mente.

    Non doveva pensare a Padre Giulio. Non poteva pensarci.

    Altrimenti sarebbe rientrata nel baratro di depressione e sensi di colpa da cui era faticosamente uscita.

    Una fila di sacchi da boxe pendeva dal soffitto e il pavimento era ricoperto di materassini blu. Una parete era specchiata, mentre sull’altra c’erano le spalliere per gli addominali.

    Rebecca strinse le bende di lino bianche che aveva attorno alle mani e raggiunse al sacco da boxe più vicino.

    Aveva vissuto un periodo orribile dopo la morte di Padre Giulio. Continuava a incolpare se stessa, perché, se gli fosse stata accanto, forse non sarebbe successo.

    Sferrò un destro al sacco. Poi un sinistro. Poi ancora un destro.

    «Normalmente non mi scomoderei per un gladiatore» dice Yahweh. È nel corpo di Padre Giulio. Il suo volto è deformato ogni oltre limite: gli occhi sono rossi e lacrimano sangue. Non ha più capelli sul capo e la bocca non è altro che una gigantesca cavità rossa. «Ma volevo conoscere di persona la leggendaria figlia del mio amico Helel.»

    Rebecca sa bene che Yahweh non è morto: lui può abbandonare volontariamente il proprio corpo, prendere possesso di un altro e poi ritornare nel suo involucro originale. Ed ora ha preso Giulio.

    Lei è terrorizzata. Sono nella navata della chiesa e le sue parole riecheggiano nel silenzio.

    «Hai ucciso tanti dei miei ragazzi» continua l’alieno, avvicinandosi e torcendo innaturalmente la testa da un lato e dall’altro. Le sorride, «E adesso io devo uccidere te.»

    La afferra per le spalle, sollevandola da terra, e lei gli posa le mani ai lati della testa. Lo guarda dritto negli occhi e ordina: «Lascialo andare.»

    Yahweh spalanca la bocca e ride. Ride di gusto.

    La scaglia contro le panche di legno, che per l’impatto si spaccano sotto di lei.

    «Sei davvero così stupida?» le chiede, ridendo ancora. «Io sono Yahweh! Sono il Dio degli esseri umani, sono tutti ai miei piedi. Sono il più forte tra gli Elohim della Terra. Secondo te dovrei subire il potere di una ridicola mezzosangue?»

    Rebecca afferra uno dei pezzi di legno sotto di lei. È il pezzo che faceva da sedili alle panche. È largo e pesante, ma lei lo solleva senza fatica.

    Yahweh continua a ridere.

    Lei stringe la presa sul legno, lo solleva in aria come una mazza e, con tutta la forza che ha, colpisce l’alieno in pieno volto.

    Lui viene catapultato sulle panche del lato opposto, spaccando anche quelle.

    Rebecca tiene ancora in mano la sua arma, mentre lui si rialza, ora furioso.

    «Come osi?» ringhia, «Tu non sei niente. Io sono un Dio e tu non sei niente.»

    Rebecca sorride strafottente, ha ritrovato un po’ di coraggio.

    «Pecchi di superbia, Geova» gli dice, usando con insolenza il nome con cui gli umani lo conoscono, «Io sono davanti a te e tu non mi hai ancora ucciso.»

    E prima ancora che lui possa muoversi nella sua direzione, sente un rumore di passi.

    Si voltano entrambi verso l’abside; due uomini si stanno avvicinando.

    Uno è Helel: indossa un completo bianco, con una camicia azzurra sotto la giacca. L’altro ha i capelli neri, indossa dei jeans ed una maglia strappata. Gli occhi sono di un blu intenso, innaturale. Sono entrambi bellissimi.

    «Quante volte ancora devo schiacciarti nella tua lurida caverna, prima che tu ti decida a rimanerci?» chiede suo padre.

    «Helel. Quale onore» ringhia Yahweh furioso, «Vedo che ti sei portato Belly per aiutarti.»

    Belphegor sorride con arroganza.

    «Tu invece? Sei rimasto da solo Yahweh? Dov’è il tuo pericoloso esercito?»

    «Non ho tempo per le tue frecciate inutili», ringhia di nuovo, «Sono un po’ impegnato al momento.»

    «Lo sappiamo» sorride Belphegor. «Vuoi prenderti il nostro miglior gladiatore.»

    Rebecca li guarda; ora sono vicino a lei. La loro bellezza sembra risplendere.

    «Beh» ribatte Yahweh, «Se questa ragazzina è tanto importante da scomodare gli originali Elohim traditori, forse devo ucciderla davvero.»

    «Tu non la ucciderai» sorride Helel, «Torna nella tua caverna, dove ti abbiamo confinato, e resta lì.»

    «Costringimi» sorride l’alieno. Poi si avventa su Rebecca.

    Prima ancora che lei possa muoversi, Belphegor si mette tra loro e, con una mano sul suo petto, spinge via Yahweh, che viene catapultato indietro di qualche metro.

    «Non puoi prendere la ragazzina» intima Belphegor, «Noi siamo qui e c’è un’armata di Daeva che aspetta soltanto un ordine.» Yahweh si rialza, e Belphegor sorride: «Sei solo, Yahweh. Lascia stare.»

    E allora l’alieno grida. Un grido di rabbia e frustrazione. E mente la sua voce rimbomba nella navata, il suo corpo s’infiamma e il fuoco avvolge il corpo del prete.

    «No!» grida Rebecca, «Così lo uccide!»

    Le fiamme attecchiscono alle panche di legno della chiesa, che con una velocità innaturale si infiammano tutte.

    «No!» Rebecca si avvicina a Helel e gli prende la mano, «Salvalo, per favore! Papà, ti prego, salvalo!»

    Ma lui le rivolge uno sguardo di ghiaccio.

    «Non posso» dice soltanto.

    «No!» grida lei. Corre verso il corpo in fiamme, ma Helel la afferra per la vita e la solleva.

    Lei cerca di dibattersi, ma la sua stretta è troppo forte.

    «Lasciami andare!» piange, «Devo salvarlo, lasciami andare!»

    Ma Helel attraversa per la navata, incurante delle fiamme, e la porta fuori dalla chiesa.

    «No!» continua a gridare la ragazza, «Ti prego, no! Posso ancora aiutarlo! Papà, ti prego!»

    Lui, però, non la ascolta. La lascia sui gradini e la chiesa, dietro di lui, brilla per la luce delle fiamme.

    Lei cade in ginocchio, mentre le lacrime le rigano il viso.

    «Potevi aiutarlo» piange, «Perché non l’hai salvato?»

    Helel è in piedi accanto a lei, impassibile.

    «Perché era solo un uomo.»

    Colpì il sacco con un sinistro. Poi un destro.

    La verità le era stata sbattuta in faccia, più violenta di qualunque colpo avesse mai incassato.

    Giulio era solo un uomo.

    Sinistro.

    Lei meritava di essere salvata perché era un gladiatore, perché serviva ai loro scopi.

    Lei era la mangiatrice di anime. Era unica.

    Lei sola era in grado di uccidere davvero un Amesa. Era importante.

    Ma Padre Giulio no. Lui era solo un uomo come tanti. Era sostituibile.

    Sinistro. Destro. Il sacco dondolava violentemente sotto i suoi colpi, mentre la catena che lo teneva al soffitto tintinnava.

    E fu quel giorno che si rese davvero conto di cosa dovesse aspettarsi dalla sua vita.

    Suo padre era completamente uscito di senno: aveva perso di vista il suo obiettivo primario.

    Quella guerra era iniziata perché Helel voleva proteggere gli esseri umani.

    Ora, invece, voleva soltanto vendicarsi.

    E lei era lo strumento col qualche intendeva farlo.

    Non gli importava davvero di lei.

    E aveva lasciato morire l’unico a cui fosse mai importato.

    Destro. Destro. Sinistro. Il sudore le colava lungo la schiena.

    Suo padre era diventato indifferente e arrogante. Era impegnato in quella faida millenaria e aveva accettato che la guerra mietesse delle vittime.

    E lei sapeva che avrebbe dovuto continuare a lottare.

    Sinistro. Destro. Sinistro. Sinistro. La catena ora cigolava.

    Non poteva permettersi neppure un istante di debolezza, non poteva lasciarsi andare al dolore.

    Perché se avesse fallito, suo padre non avrebbe esitato a lasciarla in pasto a Yahweh.

    Capitolo 6

    Rebecca era in cucina. Aveva già apparecchiato la tavola in salotto e stava finendo di sistemare nei piatti le pietanze che aveva comprato alla tavola calda vicino casa.

    Aveva promesso a Fabio che avrebbe cucinato, ma aveva mentito, perciò doveva far sparire gli incarti di quello che aveva comprato.

    Portò in tavola il piatto degli antipasti, poi infornò la lasagna per scaldarla.

    Indossava un paio di shorts neri e dei sandali di pelle col tacco a spillo. Una maglia grigia le scopriva la schiena fino alla base e aveva lasciato sciolti i lunghi capelli castani.

    Si sfilò i guanti da forno e li appoggiò sul lavandino, mettendo in una ciotola le patate al forno, ancora bollenti.

    Sentì la porta d’ingresso aprirsi e la voce di Fabio che diceva:

    «Becca, ci sei?»

    «Sono in cucina!» gridò lei di rimando, mentre sistemava l’arrosto in un piatto piano.

    Sentì due coppie di passi camminare verso la cucina e poi vide Fabio affacciarsi sulla porta, con quel suo sorriso dolce.

    «Ciao, tesoro» la salutò.

    «Ciao» sorrise lei.

    Poi Fabio si fece da parte, lasciando entrare il suo amico.

    Era alto e possente, aveva spalle larghe e forti. Indossava delle sneakers di pelle nera, un paio di jeans e una maglia scura, sotto una camicia a quadri bianca e nera, portata slacciata e con le maniche arrotolate sugli avambracci. Nonostante la maglia fosse morbida, si intuiva chiaramente il suo corpo atletico.

    I capelli erano di un biondo dorato, corti e scompigliati. Un’ombra di barba color miele copriva la linea definita della mascella. Il naso era dritto e le labbra erano carnose, piene.

    E gli occhi erano incredibili.

    Aveva gli occhi gialli, come ambra. Come quelli di un leone.

    Era bello come un Dio greco.

    «Lui è Nate» disse Fabio.

    E lei sentì l’intero mondo crollarle addosso.

    Qualcosa dentro nel suo petto si ruppe, tanto che dovette appoggiarsi con una mano al lavandino per non cadere a terra.

    Non poteva credere che fosse lì.

    Non Lui. Non in quel momento.

    Non quando era finalmente uscita da quel baratro di disperazione in cui Lui l’aveva gettata.

    Quattro anni.

    Quattro anni di dolore, di negazione, di riabilitazione, ma alla fine c’era riuscita. L’aveva superato.

    E ora Lui era lì.

    Lui e le sue spalle meravigliose, Lui e il suo volto d’angelo, Lui e i suoi dannati occhi gialli.

    La gola si era chiusa, le sembrava di non riuscire a respirare.

    La stanza ruotava vorticosamente attorno a Lui.

    Lui che era stato il centro del suo mondo.

    Lui che l’aveva protetta, l’aveva sostenuta e poi l’aveva cacciata.

    Dire il suo nome era impensabile, era sacrilego.

    Lui piegò impercettibilmente la testa di lato, guardandola con una dolcezza che le stritolò il cuore.

    Le sorrise, mostrando i denti bianchissimi, e lei sentì le ginocchia tremare per quanto era bello.

    «Ciao, Rebecca» disse. Aveva una voce calda e profonda.

    Quando pronunciò il suo nome, un brivido le percorse l’intera spina dorsale.

    Non poteva essere vero. Doveva essere un sogno.

    Le era capitato di vederlo, dopo che l’aveva cacciata.

    Aveva cercato il suo volto in ogni uomo, donna, in ogni sconosciuto le fosse passato davanti. Lo vedeva tra la gente, lo vedeva camminare per la strada. Era ovunque. Ma non era con lei.

    L’aveva cacciata via. Le aveva strappato il cuore dal petto e lo aveva frantumato.

    E ora era lì. Nella sua casa, nella sua cucina.

    E lei non era mai stata così felice in vita sua.

    Lo aveva odiato. Ogni notte lo aveva maledetto per averla delusa e distrutta. Ma non aveva mai desiderato nient’altro così intensamente, come aveva desiderato di rivedere Lui.

    E doveva dire qualcosa. Doveva parlare, doveva…

    E l’unica cosa che riuscisse a pensare era: Nate. Nate, Nate, Nate.

    E mentre, con un boato assordate, un muro crollava dentro di lei, spargendo macerie sul suo cuore ferito, che gridava e supplicava, la sua voce emise, in un sussurro:

    «Ciao, Nate.»

    Da Sola

    I won’t suffer, be broken, get tired, or wasted

    surrender to nothing, or give up what I

    started and stopped it, from end to beginning.

    A new day is coming and I am finally free.

    Thirty Seconds to Mars, Attack

    Io non soffrirò, non mi spezzerò, non mi stancherò né mi rovinerò

    non cederò a niente né rinuncerò a ciò che

    avevo iniziato e interrotto, dalla fine all’inizio.

    Un nuovo giorno sta arrivando e sono finalmente libero.

    Thirty Seconds to Mars, Attack

    Capitolo 1

    Rebecca arrivò alla festa dopo le undici, ma non avrebbe avuto senso presentarsi prima.

    Il vento caldo di Giugno le solleticava la pelle, mentre s’incamminava lungo la scalinata di pietra.

    La festa era nel borgo medioevale di San Felice; indossare un decolleté tacco dodici per camminare sui sampietrini non era stata una buona idea, ma ormai era tardi per ripensarci.

    Indossava un ridottissimo abito giallo canarino, aderente al suo corpo giovane come una seconda pelle.

    Aveva lasciato i capelli sciolti che, ondulati e vaporosi, le davano un’aria spettinata ma sexy.

    Aveva messo un gel con i brillantini intorno agli occhi e nella penombra, con le luci discontinue dei vari locali, il suo sguardo risplendeva.

    Era bella e si sentiva sexy.

    Sapeva che non avrebbe dovuto vestirsi così, che in un’occasione del genere avrebbe sicuramente incontrato degli Amesa e avrebbe dovuto lottare, ma aveva solo diciannove anni e viveva da sola solo da nove mesi: voleva divertirsi.

    «Ehi, Becca!» un ragazzo bassino, dai tipici colori mediterranei, uscì da un pub e l’abbracciò; dovette alzarsi in punta di piedi per darle un bacio sulla guancia.

    «Ciao Ricky!» lo salutò.

    Riccardo si allontanò di un passo per guardarla e le sorrise.

    «Stasera sei davvero una gran gnocca!»

    «Grazie» rise lei. Dovette gridare per sovrastare la musica, quando gli chiese: «Hai visto Carlotta?»

    Il borgo medioevale di San Felice aveva un’intera zona destinata solamente ai locali notturni.

    Si trovava nella parte più interna, lungo una scalinata di sampietrini larga tre metri che si arrampicava per un costone roccioso.

    E ai lati della scalinata c’erano solamente pub.

    Ogni locale aveva uno spazio interno di una trentina di metri quadrati, quindi non potevano avere più di tre o quattro tavolini da quattro posti.

    Perciò, una fiumana di ragazzi si riversava sulla scalinata: erano fermi a parlare, a bere, a fumare. E alcuni gruppi si spostavano di locale in locale.

    All’inizio e alla fine dell’estate, veniva organizzata la Festa di San Felice: i locali restavano aperti per tutta la notte e un impianto stereo centralizzato veniva montato all’esterno, così che per tutta la scalinata risuonasse la stessa musica.

    «Si, l’ho vista» rispose Riccardo, «È più su, al Due di Picche

    Rebecca lo ringraziò e si incamminò lungo la scalinata.

    La musica si fermò per qualche minuto e Rebecca sentì i timpani riposarsi.

    I tacchi a spillo si infilavano nelle fughe tra i sampietrini e quasi ad ogni passo sentiva che stava per storcersi una caviglia. In più, doveva farsi largo tra la marea di ragazzi che sostavano di fronte ai locali. Perciò si spostava tenendo un occhio a terra e uno alla gente.

    Ma accadde lo stesso.

    Mise un piede in fallo e sarebbe caduta a faccia avanti, se delle braccia forti non l’avessero afferrata appena in tempo.

    «Grazie mille» disse, alzando gli occhi verso il suo benefattore.

    Era un ragazzo alto, con le spalle larghe e i bicipiti muscolosi. Aveva i capelli biondi, scompigliati, e un viso d’angelo tenebroso in cui brillavano gli occhi incredibili. Gialli, dorati, come il miele.

    «Stai bene?» le chiese, ridacchiando divertito.

    Era bellissimo.

    «Sì, grazie» gli sorrise lei, raddrizzandosi ma senza lasciare le sue braccia.

    «Sicura?» le chiese, «Mi sembrava che avessi preso una storta.»

    Rebecca si guardò la gamba, dubbiosa.

    «No, non mi pare.»

    Il ragazzo si chinò di fronte a lei, posando le mani sulla sua scarpa.

    La sua pelle era caldissima, bollente.

    Premette dolcemente sulla sua pelle, scorrendo dal collo del piede fino al polpaccio.

    Il suo tocco era deciso ma delicato, e quelle mani calde sulla pelle nuda della gamba le inviarono come una scossa alle terminazioni nervose, facendola rabbrividire.

    «Ti fa male?» le chiese, alzando il volto a guardarla. Era meraviglioso. Con le spalle larghe, sotto la t-shirt, e quegli occhi magnetici.

    «No» rispose.

    Quando si rialzò, lei sentì un

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