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Shadow People
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E-book210 pagine2 ore

Shadow People

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Info su questo ebook

Il Waverly Hills Sanatorium di Lousville è un istituto che ospita persone affette da malattie mentali e da disturbi di comportamento.
La diciassettenne Reina vi è stata ricoverata un anno prima, dopo la morte improvvisa della nonna materna a cui era molto legata. Quella prematura scomparsa ha provocato in lei un trauma violento che l’ha portata a contatto con ombre dal tocco gelido e dalle urla spaventose che l’hanno gettata nello sconforto e disperazione.
Il ricovero in istituto è sembrato la soluzione ideale e la presenza costante del dottor Arkham, che l’ha in cura con una diagnosi di schizofrenia, sembra ridarle un graduale ritorno alla normalità.
Ma non è il solo che si prende cura di lei.
Al suo fianco c’è la silenziosa e impalpabile presenza di Luca, un timido dodicenne che la segue ovunque e le da un certo conforto con le presenze che le ruotano attorno.
Perché Luca è un fantasma, ma sembra non sia la sola a vederlo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2022
ISBN9791221368772
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    Anteprima del libro

    Shadow People - Romano Therry

    Shadow People

    Capitolo 1

    Sweet dreams are made of this / Who am I to disagree

    I travel the world and the seven seas

    Everybody's looking for something

    Sweet Dreams (Are Made of This) / Eurithmics

    «Al mio tre!»

    La voce di Reina schiaffeggiò l’aria, rompendo la monotonia di quel pomeriggio di fine estate. Il vento profumava di fiori di ginestra, le cui foglie, strappate ai molti cespugli che crescevano nei dintorni, volteggiavano intorno alla collinetta su cui era seduta.

    I lunghi capelli neri erano raccolti in una crocchia disordinata sopra la testa, avvolti in un nastro di raso viola. Seduta a gambe incrociate sul prato gesticolava indicando la strada sottostante, nascosta in parte dalle larghe fronde degli alberi.

    «Arrivano!» esclamò, puntando un dito. «Macchina gialla.»

    Avvertì il brontolio del suo compagno, ma rise divertita.

    «Se sei lento, non è colpa mia, Luca.»

    Andarono avanti a contare le automobili per un bel pezzo, fino a quando una presenza alle loro spalle interruppe quel momento ludico.

    " C’è qualcuno per te" sussurrò lieve Luca, ritraendosi.

    «Ma non è detto che io voglia parlare con loro» sbuffò annoiata.

    I passi si avvicinarono fino a fermarsi.

    «Miss Bailey, ci sono visite.»

    Continuò a fingersi occupata, tenendo la conta delle auto sulle dita.

    «Reina...»

    Una voce bassa e addolorata si fece strada verso di lei, ma caparbia, continuò a non voltarsi.

    «Dottore, aveva assicurato che si era ripresa» protestò una voce maschile.

    «E lo confermo» fu la decisa risposta.

    «Allora perché non sembra avvertire neanche la nostra presenza? Continua ad avere quell’atteggiamento apatico che...»

    Con un movimento imprevisto la giovane si girò e puntò gli occhi sull’uomo.

    Non era cambiato in quel lungo anno trascorso, con quella arroganza e cattiveria che trasudava da ogni poro. Bramava avere il controllo su tutto e in quel momento il suo obiettivo era lei.

    «La tua presenza mi disturba, Dean. Vattene!» disse scandendo bene le parole.

    L’uomo sussultò, ma arricciò le labbra senza risponderle.

    «Reina, bambina mia!» esclamò la donna che lo seguiva, allungando le braccia verso di lei.

    «Non mi toccare, mamma! Non capisco neanche perché sei venuta» le intimò, incrociando le braccia sul petto.

    La donna si fermò di colpo, sbigottita.

    «Dottor Arkham, avevo espressamente detto che non desideravo visite» protestò Reina all’indirizzo del medico.

    «I suoi genitori hanno il diritto di...» tentò conciliante l’uomo in camice bianco.

    «Non sono i miei genitori!» puntualizzò la ragazza, alzandosi in piedi, rigida.

    «Ma io sono tua madre!» protestò la donna, sbiancando e torcendosi le mani.

    «Te ne ricordi dopo un anno?» la schernì. «Mi avete chiusa in questo posto, dimenticandovi di me.»

    «Non è vero, noi...» tentò Dean, cercando di mascherare la sua irritazione.

    «Dottore, può sbattere fuori quest’uomo? Non è un mio parente e non lo voglio qui» proruppe indignata.

    «Come ti permetti? Sono io che pago le spese di questo ospedale!» interloquì l’uomo, facendo un passo avanti.

    «Dimentichi che lo fai con i miei soldi! O forse è accaduto un miracolo e ti sei messo a lavorare per la prima volta in vita tua?» ghignò ironica.

    L’uomo incassò, livido.

    «Lo sai che abbiamo avuto dei problemi economici» interloquì la donna.

    «Falla finita, mamma! Se siete qui per soldi, non firmerò nulla, ve ne potete andare» brontolò, alzando un braccio in direzione dell’uscita.

    I due si scambiarono un lungo sguardo e il patrigno fece un gesto eloquente nella sua direzione.

    «Ah, comincio a capire! Pensavate di chiedere l’interdizione, con una procura ad amministrare il mio patrimonio» constatò acida, avanzando verso di loro. «Che peccato! Sono lucida e il dottore può testimoniarlo.»

    «Tesoro, siamo felici per te, lo sai. Ma la casa comporta delle spese che noi non possiamo permetterci al momento» la pregò la donna.

    «Lo so, ed è per questo che vi chiedo di andarvene. Trovatevi un altro alloggio o contatto l’avvocato e vi faccio mandare via. La casa è mia, un lascito della nonna, che sapeva bene dove ti avrebbe condotto il matrimonio con questo smidollato acchiappa vedove».

    «Ma, Reina!» s’indignò l’altra, facendo un passo indietro.

    «Piantala di fare l’offesa, mamma, non sei credibile. E ora andatevene, io...»

    Portò una mano al petto, artigliando la leggera maglia di cotone. Spalancò gli occhi e iniziò a tremare, accasciandosi a terra, scossa da forte convulsioni.

    Il medico le fu subito accanto, le prese il polso e fece un cenno a due infermieri che accorsero immediatamente per soccorrerla. La ragazza continuò a dimenarsi, al che recuperarono una barella, assicurando con delle cinghie braccia e gambe, la sollevarono, portandola via.

    Dean ebbe un fuggevole momento del suo sorriso diabolico e una strizzata d’occhio mentre gli passavano accanto, facendogli sfuggire un suono soffocato.

    «Sta fingendo!» protestò arrabbiato.

    «Mister Jenkins, la prego. Avete agitato la paziente per futili motivi provocandole una crisi. Gradirei che non si aggiungessero anche illazioni sulla sua patologia, per la quale riceve, in questo istituto, cure più che adeguate.»

    «Dottore, è sicuro che stia bene? La mia bambina non avrebbe mai risposto in quel modo a una mia legittima richiesta» s’intromise la donna, pensosa. «È sempre stata una ragazza tranquilla, fino a due anni fa, quando ha cominciato a stare male.»

    «Megan, quando capirai che tua figlia ha disturbi seri? Ha allucinazioni, parla da sola, grida come un’ossessa quando si trova in mezzo alla gente... Non capisco perché non sia stata dichiarata pazza sin da subito, invece di ricoverarla qui e tentare una cura. Peraltro costosa, devo dire!» sbottò l’uomo, gesticolando.

    «Vorrei ricordarle che miss Bailey non è pazza, ma ha un disturbo psicotico delirante. Considerata l’ampia ripresa e la quasi dismissione della sintomatologia, ho pensato che incontrare la famiglia l’avrebbe in un certo senso rassicurata. Ma vedo che esistono delle situazioni pregresse per le quali la vostra presenza altera il suo stato emotivo, per cui credo sia meglio che non veniate più a farle visita.»

    «Ma è mia figlia! Come può dire questo?» protestò livida la donna, portandosi una mano al petto.

    «Come ha sottolineato la paziente, in un anno trascorso in questo posto, non siete mai venuti a farle visita. Presumo che un periodo di pari durata non cambi la situazione» constatò serio Arkham, scrollando le spalle.

    «Dottore, lei sta sconfinando in un terreno che non la riguarda. La ragazza è pazza, o psicotica o come diavolo vuole, ma nulla ci impedisce di ricorrere al tribunale e sottrarla alla sua custodia. Reina ha ancora 17 anni, quindi minorenne, e sua madre può richiedere la tutela legale. Sta a lei aiutarci in questo campo o verrà lasciato fuori».

    «Mi sta minacciando?» domandò il medico, alzando un sopracciglio.

    «La sto avvisando, amichevolmente, direi», rispose l’altro con un sorrisetto complice.

    «Mister Jenkins, porti fuori da questo posto i suoi atteggiamenti da gangster e la prego di non tornare, se non desidera che i miei sorveglianti usino maniere più persuasive. Qui abbiamo in cura persone con particolari disturbi che necessitano di tranquillità, cosa che lei non è capace di assicurare. Buona giornata, signori.»

    Fece un cenno con la testa e, con un movimento della mano, indicò l’uscita. Accorsero due uomini imponenti, vestiti di scuro, che li incitarono energicamente a lasciare la struttura.

    Mentre si allontanavano, il medico li seguì con lo sguardo ed entrò nel padiglione est del Waverly Hills Sanatorium, un’imponente struttura costruita all’inizio del 1900 e adattata, negli anni 20, a ospedale per la cura della tubercolosi. In anni recenti l’istituto era stato chiuso a causa di voci su inspiegabili suicidi e presenza di fantasmi, lasciando la struttura cadente e abbandonata.

    Grazie ai fondi raccolti dal dottor Arkham era rinata a una seconda vita e adattata a comunità terapeutica. Ospitava giovani con problemi di dipendenze, o che avevano subito abusi o soffrivano di problematiche psichiatriche, come Reina.

    Era risultata un caso interessante in quanto la ragazza alternava momenti di lucidità e razionalità ad altri di depressione grave, non permettendogli di fare subito una diagnosi certa.

    L’avevano portata da lui un anno prima, in preda a deliri psicotici e autolesionismo. Pur essendo alta più di un metro e settantacinque, la ragazza appariva denutrita e fragile. Aveva sospettato che soffrisse di anoressia, fino a quando la madre non aveva parlato delle sue allucinazioni.

    Aveva raccontato che diversi mesi prima c’erano stati episodi di fobia quando era in mezzo alla gente dove, senza motivo, iniziava a urlare e scacciare invisibili ombre, scappando in più occasioni fino a ritrovarla rannicchiata sotto il letto o in un armadio, terrorizzata. Reina diceva di essere inseguita da ombre fredde il cui tocco le provocava fremiti e urla indefinite nella testa.

    Varie cure di diversi specialisti non avevano dato risultati, fino a quanto non era arrivata al Waverly.

    Dopo qualche mese aveva cominciato a riposare senza sedativi, non tremava più al contatto con altre persone e soprattutto non parlava da sola.

    Aveva ripreso un colorito normale, benché ancora pallido, e un discreto peso. Partecipava alle riunioni della terapia di gruppo, anche se non aveva mai raccontato di lei e dei suoi ospiti. Disegnava diverse tele con paesaggi cupi e occhi nascosti a osservare il mondo, senza mai raccontare ciò che vedeva.

    Solo nell’ultimo periodo aveva ricominciato a fare discorsi logici e a rispondere alle domande, tanto che il medico, su insistenza della famiglia, aveva organizzato l’incontro che era avvenuto.

    Con risultati scadenti, dovette ammettere, sospirando.

    La raggiunse nella sala riposo e si sorprese per la sua serenità.

    Se ne stava distesa, assicurata alla lettiga, con lo sguardo perso sul soffitto. Poteva essere normale dopo una crisi, ma non quella compostezza, quella tranquillità e soprattutto il fatto che bisbigliava.

    «Quello stronzo di Dean se n’è accorto» stava mormorando, quando entrò.

    «Credo tu mi debba una spiegazione, Reina» le disse avvicinandosi.

    La giovane sobbalzò appena, ma dissimulò la sorpresa, sorridendogli.

    «Di cosa, dottore?»

    «Della tua finta crisi.»

    Si guardarono per qualche attimo, poi la giovane sospirò.

    «Mi scusi, ma non se ne sarebbero andati. Era l’unico modo, so che si spaventano se sto male.»

    «Credevo ci fosse un patto di sincerità tra noi» la rimproverò.

    Reina abbassò lo sguardo e annuì.

    «Ho raccolto tutto il coraggio che avevo per fare quel discorso, ma vedere l’avidità nei loro occhi mi ha accecata. Sono come ‘ loro’. Vogliono solo prosciugarmi.»

    «Era di ‘ loro’ che parlavi con Luca

    Reina alzò la testa di scatto e le sue pupille si allargarono, impaurite.

    «C-cosa?» balbettò.

    «Avevo creduto davvero che ti fossi ripresa, che ‘ loro’ ti avessero finalmente lasciata, ma mi sono accorto che facevi quel gioco, quella della macchina gialla. Non è il gioco preferito di Luca?»

    Reina boccheggiò, facendo saettare gli occhi da una parte all’altra della stanza. Era terrorizzata, lo si vedeva e cercava una risposta da dare. Il medico si avvicinò e le prese il polso tra le mani. Il ritmo era sordo e i battiti ravvicinati.

    «Devi fidarti di me, Reina. Voglio solo che tu stia bene» disse, carezzandole la mano. «Non mi aiuti, se non ti confidi».

    La ragazza strinse le labbra, cercando rifugio nel silenzio.

    «Perché non chiedi a Luca cosa ne pensa?»

    Il suggerimento imprevisto la rese attenta e sondò il viso del medico, che sorrise.

    Socchiuse gli occhi e gettò un’occhiata obliqua all’interessato, appeso a testa in giù dal soffitto. Era pallido e il suo viso aggrottato in una smorfia. Scosse le spalle.

    " Forse potrebbe essere un valido aiuto" sussurrò.

    Reina scosse la testa, poco convinta.

    " Ti hanno già detto che sei pazza e ti hanno chiusa in questo posto infernale. Cosa pensi possa capitarti di peggio?"

    Lei chiuse gli occhi e sospirò.

    «Dice di non fidarti?» chiese il medico, lasciandole il polso e andando a prendere una sedia sulla parete opposta.

    La trasportò fino al lettino e si sedette, tornando a studiarla.

    «Come sa di Luca?» chiese con voce stanca.

    «Mi è bastato ascoltarti parlare con lui.»

    Reina sorrise amara.

    «Non è così strano avere un amico immaginario, soprattutto dopo un trauma come il tuo. In psicologia ha una sua spiegazione, è un valido supporto mentale per consolare chi non ha la possibilità di spiegare i suoi problemi nel mondo reale.»

    «Sembra facile…»

    «Lo è, credimi. Puoi parlare con me di tutto quello che dici a Luca e io posso mitigare il tuo disagio.»

    Sorrise incoraggiante.

    Reina aprì gli occhi e lo guardò seria.

    «Dicevo che sembra facile, ma Luca non è un amico immaginario, dottore. È un fantasma e non lo avevo visto fino a quando non sono arrivata in questo posto» confessò seria.

    Il dottor Arkham aggrottò le sopracciglia e si lasciò sfuggire un involontario gemito.

    Capitolo 2

    Don't you feel that our whole worlds collide?

    It's getting harder to breathe

    It hurts deep inside

    Just let me be / Who I am

    Silent Scream - Slayer

    Reina si massaggiò i polsi e si sdraiò sul letto, gettando un’occhiata fuori dal balcone. La serata era buia, il cielo senza stelle rifletteva il suo stato d’animo, mentre si abbandonava al ricordo del giorno precedente.

    Dopo la sua stravagante uscita, il dottore l’aveva slegata e, senza aggiungere una sola parola a ciò che gli aveva rivelato, l’aveva pregata di ritornare nella sua stanza. Stupita, lo aveva osservato per un lungo attimo, ma lui era rimasto muto, così era scesa dalla lettiga e si era incamminata verso l’unico suo rifugio in quel tetro edificio.

    Non riusciva a comprendere se quell’atteggiamento era dovuto al suo scetticismo verso i fantasmi o se stava riflettendo su una terapia più rigida da imporle. Il fatto che avesse candidamente ammesso che vedeva i fantasmi, non la metteva in una situazione piacevole.

    Sospirò, rimproverandosi per quanto fosse stata ingenua.

    «Non uscirò più da questo posto e sarà solo colpa tua!» bofonchiò.

    " Non volevo nuocerti. Ero convinto che potesse capire…" si scusò Luca, assumendo un’aria contrita.

    «È un’autorità e tu hai un debole per i camici bianchi. Forse nella tua era sarebbe stato comprensibile, ma per quelli come me, sono il nemico.»

    Gettò uno sguardo di fuoco all’amico e si sentì subito in colpa. Luca voleva sola aiutarla, ma non conosceva le insidie del suo mondo, era uno spirito semplice.

    " Eppure ti ha lasciata andare."

    «E questo mi preoccupa. Temo stia meditando di rinchiudermi da qualche parte nel blocco D, praticamente l’inferno per quelli che vivono qui.»

    Si

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