Nuova banda organizzata: Dove cominciò un sodalizio criminale
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Nuova banda organizzata narra vicende inventate ma purtroppo verosimiglianti a ciò che spesso ci capita di apprendere dalle cronache nazionali. Gruppi di persone che, per vari motivi, cercano nel crimine un modo per far fronte a quel senso di disperazione, mediocrità e piccolezza che li prende. La trasformazione da uomini qualunque a pericolosi boss mafiosi viene raccontata in modo chiaro e diretto, per mettere in guardia da un percorso al quale spesso anche gli insospettabili possono far ricorso…
Dunque, io voglio far parte di questo gruppo. Ho grandi progetti. Vorrei per esempio creare un braccio armato. Tempo fa ho letto l’inchiesta contro un’organizzazione criminale del Sud America. Sono potenti e organizzati perché si muovono come un esercito.
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Anteprima del libro
Nuova banda organizzata - Riccardo De Santis
http://creoebook.blogspot.com
Riccardo De Santis
NUOVA BANDA ORGANIZZATA
Dove cominciò un sodalizio criminale
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
1.
Era cominciato tutto per scherzo. Circa nove anni prima, una sera d’estate, al colle Gianicolo di Roma, sembrava un discorso fine a se stesso di una combriccola di giovani che volevano ammazzare il tempo. Per quella serata e per tutto quello che ne sarebbe seguito, Maurizio Cristiano si trovava a rispondere al cospetto di un tribunale della Repubblica Italiana.
Il processo, a cui i media avevano dato una risonanza senza precedenti, era ricco di colpi di scena, intercettazioni che spuntavano all’improvviso, telefonate anonime ai commissariati di polizia per indicare dove avrebbero trovato altri indizi, pentiti che ritrattavano per paura di vendette trasversali, stimati politici e illustri ecclesiastici che venivano accusati di concussione. Fin dal principio fu chiaro che questo processo sarebbe stato uno dei più lunghi e complessi della storia giudiziaria italiana.
Nove mesi dopo l’inizio del processo, Maurizio Cristiano mise piede per la prima volta in un tribunale. Fino a quel giorno non aveva mai avuto a che fare con la giustizia italiana, non era mai stato implicato in nulla, le cause giudiziarie le conosceva solo dalla televisione guardando telegiornali oppure film. Il suo primo pensiero varcando la soglia dell’aula fu rivolto alla sua vita quotidiana. Era martedì ed erano quasi le quattro del pomeriggio, orario in cui usciva dal suo luogo di lavoro, passava a casa dove lo attendeva la sua giovane moglie e trascorrevano il resto della giornata da qualche parte in città. Erano sposati da sei anni e Maurizio non ricordava di aver mai saltato un appuntamento: il giorno del processo molto probabilmente sarebbe stato il primo di una lunga serie.
Il principio sancito dalla Costituzione che la legge è uguale per tutti non lasciava dubbi sul fatto che Maurizio dovesse essere condannato qualora fosse stato colpevole. Non bastava semplicemente dichiararsi innocente, la maggior parte si professava innocente, anche se portava sopra i segni delle accuse, era necessario presentare delle prove della propria non colpevolezza.
Maurizio si era affidato a un giovane avvocato, tale Eugenio Mascardi, che era disposto a difenderlo con il gratuito patrocinio. La moglie, credendo fermamente nella sua innocenza, gli aveva proposto di chiedere un prestito ai parenti oppure agli amici più intimi, ma Maurizio si era rifiutato di coinvolgere chiunque. Il suo rifiuto, come confessò al suo avvocato durante il primo colloquio nel carcere dove si trovava in custodia cautelare, era motivato dalla certezza che tutti, in un modo o nell’altro, avrebbero declinato ogni forma di aiuto. Ne aveva già avuto la prova dall’atteggiamento di colleghi, amici e parenti, insomma da chi lo circondava nella vita di tutti i giorni, perché erano letteralmente spariti e gli avevano fatto terra bruciata intorno quando il suo nome era saltato fuori dalle dichiarazioni di un pentito. Maurizio voleva evitare alla moglie di ricevere porte in faccia, di essere umiliata, quindi le aveva detto che non c’era necessità di chiamare altri, dal momento che il suo coinvolgimento al processo sarebbe stata una bolla di sapone. La stampa, invece, vedeva in questa decisione la volontà di comparire estraneo al fiume di soldi, centinaia di milioni di euro, che risaltava da questo processo.
Anche il carcere fu un salto nel vuoto per una persona come Maurizio che non amava i luoghi chiusi, una forma di insofferenza che non gli consentiva di stare troppo tempo nello stesso luogo. Era stato anche in cura da uno psicologo per individuare le cause di questo problema che lo aveva portato più volte ad avere attacchi di panico. Ma neppure il dottore sembrava aver delineato un quadro completo, avanzando la diagnosi che ci fosse stato un trauma da bambino. Eppure in carcere era stato fatto sentire a suo agio immediatamente. Il suo primo giorno in cella, una guardia carceraria si presentò, mise un cesto pieno di prelibatezze e oggetti da passatempo sul letto, quindi disse: Lei ha molti amici qui dentro. Lei è un uomo da rispettare.
Durante l’ora d’aria tutti lo salutavano con rispetto, si avvicinavano per offrire i propri servigi, lo coinvolgevano nelle varie attività ricreative. Un giorno, mentre chiacchierava con alcuni in un angolo del cortile del carcere, vide in lontananza Antonio Vallasca. Il suo carissimo e fedelissimo Antonio, anche lui al colle Gianicolo in quella infausta serata d’estate. Si sorrisero contemporaneamente, si fissarono in lontananza per alcuni minuti, ma non si dissero nulla. Ogni parola sarebbe stata superflua per due persone che si capivano con uno sguardo, che erano cresciuti nello stesso quartiere, che avevano condiviso tutto e di più. Erano quasi sette anni che non si vedevano, non solo perché entrambi avevano cambiato quartiere, ma soprattutto perché avevano preso due strade diverse nella vita. Quella sera, fatalità mentre pensava al suo vecchio amico d’infanzia, Maurizio ricevette un biglietto da Antonio. Anche se non lo compongo da tanti anni mi ricordo il numero telefonico di casa tua
recitava il biglietto. Sfortunatamente quel biglietto fu scoperto da alcune guardie e consegnato al direttore del carcere il quale lo trasmise alla magistratura, specificando che secondo il suo punto di vista era un messaggio in codice.
I rapporti con Antonio Vallasca e quel misterioso messaggio furono più volte oggetto di domande durante il primo interrogatorio al processo. L’avvocato Eugenio Mascardi si rivelò al di sopra di tutte le aspettative, confutando alcune pesanti accuse verso il suo assistito. In quanto a Maurizio, il tono flebile della voce con cui rispondeva alle domande indussero il giudice a chiedergli non poche volte di ripetere. E Maurizio ripeteva con il massimo dell’educazione, aggiungendo spesso signor giudice
alla fine di una frase. Perfino quando dalla gabbia, dove si trovavano circa trenta rumoreggianti persone, arrivavano voci concitate, Maurizio faceva una pausa e ricominciava da capo le