Romanzo mafioso. Il vendicatore
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Romanzo mafioso. Il vendicatore - Vito Bruschini
1
La milizia armata
Il giudice Battaglia era ossessionato dal pensiero della morte dal giorno in cui l’amico Giovanni Pellegrino, la moglie e tre guardie del corpo erano stati massacrati da una carica esplosiva sull’autostrada per Palermo.
Aveva paura di morire. Ma non per la fine in sé: temeva che il tempo non gli bastasse per chiudere le indagini ancora in sospeso. Era consapevole che nella lista nera di Cosa Nostra ci fosse scritto il suo nome. Aveva appena compiuto cinquantadue anni e gli sembrava di essere troppo giovane per morire.
Dal giorno della strage era trascorso poco più di un mese e da quel maledetto 23 maggio non riusciva a dormire più di due o tre ore per notte. Il resto della giornata volava via tra appuntamenti con gli investigatori, interrogatori di pentiti, lo studio dei dossier ereditati da Giovanni, le veline della questura e dei carabinieri.
La sua scrivania, nell’ufficio del tribunale di Palermo, era sommersa da un cumulo di fogli e cartelle. Ma, tra centinaia di fascicoli, gliene era capitato uno che aveva attirato subito la sua attenzione.
Sul frontespizio c’era il logo dei
ROS
, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, nato sulle ceneri del vecchio Nucleo speciale antiterrorismo del generale dei carabinieri ucciso dalla mafia. Era un rapporto regolarmente protocollato, dove si leggeva: «La fonte ha rafforzato l’ipotesi dell’esistenza di un progetto eversivo contro l’ordine costituzionale da attuare attraverso una serie di clamorosi attentati, a opera di una sedicente organizzazione denominata Milizia Armata, mediante materiale bellico proveniente da depositi segreti degli ustascia. In questo progetto Cosa Nostra è alleata con uomini dell’eversione nera e degli ambienti corrotti dei servizi segreti e della massoneria coperta».
La Milizia. Quella sigla lo fece trasalire perché gli era stato riferito che al centralino dell’
ANSA
una voce con accento tedesco, pochi giorni dopo l’eccidio del giudice Pellegrino, ne aveva rivendicato la paternità. Ricordò che due anni prima la Milizia Armata era comparsa per la prima volta all’onore delle cronache per rivendicare l’uccisione di un operatore carcerario.
Decise di esaminare quella pista. Telefonò al quartier generale dei
ROS
e chiese dell’ufficiale che comandava il nucleo speciale, il colonnello Mario Landi. Il nucleo era una sua creatura e sin dall’inizio il reparto si era specializzato in investigazioni sulla criminalità organizzata e il terrorismo. Il Comando generale offrì al colonnello l’opportunità di disporre delle menti più brillanti tra i giovani detective usciti dalle accademie militari. E in breve il Raggruppamento era diventato un vero riferimento di eccellenza, per magistrati e procure generali.
Nel giro di qualche ora, il colonnello Landi raggiunse il giudice Battaglia nel suo ufficio al tribunale. In quei giorni convulsi il magistrato aveva fatto sistemare una poltrona-letto nel vestibolo accanto allo studio e spesso – invece di tornare a casa, stremato dalle lunghe ore di veglia notturna – la utilizzava per concedersi qualche ora di sonno.
Quando s’incontrarono, il giudice aveva la barba lunga, l’aria trasandata di chi è lontano da casa da un po’.
«Allora colonnello, cos’è questa storia della Milizia?», gli domandò il magistrato, facendolo accomodare nell’ufficio.
«Fino a oggi non siamo riusciti a identificare questo gruppo di estremisti», rispose l’ufficiale. «La prima rivendicazione avvenne in occasione della strage dei tre carabinieri di due anni fa. L’azione terroristica fu rivendicata dalla Milizia, ma è sempre stata giudicata inattendibile perché fu comunicata dopo che i giornali pubblicarono la notizia. È tornato a parlarcene in questi giorni Sergio Barbarino, un pentito di Enna. Si è deciso a rompere il suo patto di omertà con la mafia perché dice di essere stato abbandonato da Saro Raìno. Il boss gli aveva chiesto di ammazzare all’Ucciardone un certo Vincenzo Arena di Ciaculli. Un picciotto che aveva avuto il coraggio di criticare il boss perché non aveva sostenuto economicamente la sua famiglia, mentre era in carcere. Barbarino lo aveva fatto fuori nel vano delle docce, con un altro paio di complici, fingendo una rissa. Ma quello stesso pomeriggio Raìno aveva fatto ammazzare in un bosco anche il fratello di Arena. Abbiamo capito così che quello di Vincenzo Arena era un omicidio premeditato e non una lite mortale tra carcerati. Anche Barbarino ha compreso di essere stato usato dal suo boss e per questo ha deciso di voltargli le spalle e di collaborare con la polizia».
«Lo avete interrogato?», lo incalzò Battaglia.
«Ci ha detto che ha presenziato a un incontro in provincia di Enna tra i boss corleonesi e quelli delle province siciliane. È in quest’occasione che ha sentito parlare della Milizia».
«Voglio incontrarmi con lui».
«È stato inserito in un programma di protezione. Si trova in un nostro rifugio».
«Mi ci porti, per favore». Il giudice Battaglia sapeva di dover lottare contro il tempo. Quando iniziava a seguire una pista, voleva subito arrivare fino in fondo. E soprattutto adesso.
Il colonnello organizzò l’incontro per quello stesso pomeriggio. Sergio Barbarino era nascosto in uno degli appartamenti sotto copertura di proprietà dei carabinieri, in un quartiere residenziale a nord di Palermo, dove i palazzoni del centro lasciano spazio a edifici più eleganti, alti non più di quattro piani.
In un grande appartamento, ma arredato con mobili dozzinali, viveva nascosto ormai da più di un mese il nuovo pentito, insieme a tre carabinieri.
Non appena Paolo Battaglia gli disse come si chiamava, notò un impercettibile segno d’insofferenza nel volto del giovane mafioso. Un fatto che lo incuriosì.
«Ci siamo mai visti, noi due?», gli domandò diretto Battaglia.
«No, signor giudice. È la prima volta che c’incontriamo», rispose con rispetto il picciotto.
«Però sai chi sono?»
«Sì, ho sentito parlare di lei».
«In quale occasione?», Battaglia ormai non utilizzava più alcuna strategia con i testimoni. Saltava le schermaglie dialettiche per affrontare direttamente il problema.
«Capobianco, un boss di Bagheria, ha partecipato al vertice in cui Saro Raìno ha deciso la strategia di attacco contro lo Stato. Tutto quello che so, me lo ha confidato lui. Io non c’ero personalmente all’incontro. Però mi ha detto che il prossimo della lista sarebbe stato lei, signor giudice».
Il magistrato attutì il colpo come se non stesse parlando di lui. Con eccezionale sangue freddo, si rivolse al colonnello: «Avete rintracciato questo Capobianco?».
L’ufficiale con aria desolata rispose: «Sì. lo abbiamo trovato… morto ammazzato in casa della sorella. Ipotizziamo che sia stata una vendetta di Saro Raìno per essersi confidato con lui», aggiunse indicando il giovane mafioso.
«Cosa ti ha detto di quella riunione?», tornò a domandargli Battaglia.
«Hanno parlato a lungo delle indagini del giudice Pellegrino… e di lei, dottore», concluse con sguardo a terra.
«Coraggio, non ti far strappare le parole di bocca. Cosa ti ha raccontato di quel vertice?», esclamò spazientito il magistrato.
«Saro disse che dovevate essere eliminati. E che bisognava fare un po’ di confusione. Che bisognava fare la guerra per poi ottenere la pace. Una guerra con vere e proprie azioni terroristiche. La Milizia doveva servire a creare confusione nelle forze dell’ordine per allentare la morsa su Cosa Nostra. Spiegò che la Milizia Armata era una sigla che veniva usata all’occorrenza dai servizi segreti del controspionaggio militare quando c’era bisogno di coprire operazioni di disinformazione o azioni al di fuori dalla legge. Non era una vera e propria struttura militare, ma operavano con i metodi di alcune frange dei sistemi di sicurezza».
«Ti ha detto chi erano i presenti?», continuò Battaglia.
«Alcuni non li conosceva», rispose il pentito. «Ma c’erano imprenditori del nord e alcuni massoni. I nomi però non me li ha detti».
«Sull’attentato al giudice Pellegrino che ti hanno raccontato?»
«Hanno discusso a lungo. Prima volevano farlo fuori a Roma, poi hanno deciso per la Sicilia e di farlo in modo esemplare. L’uomo dei servizi segreti ha suggerito di utilizzare mezza tonnellata di esplosivo che gli avrebbe procurato lui in uno dei depositi nel Kossovo».
Le rivelazioni del pentito erano clamorose. Quello che i due giudici antimafia avevano sempre pensato – al fianco di Cosa Nostra si muovevano misteriosi personaggi delle istituzioni, della massoneria e dei servizi segreti – trovava ora una prima, incredibile conferma.
Con quei nuovi elementi d’indagine Paolo Battaglia capì che non poteva più ragionare con il vecchio schema: la mafia uccide, lotta alla mafia. Adesso, con la certezza che si era insinuata una variabile del tutto nuova nello schema strategico della Cupola, doveva scandagliare altre piste, anche più pericolose, che stavolta lo avrebbero portato direttamente all’interno delle stanze del potere istituzionale eversivo. Non solo mafia, dunque. Il braccio di ferro, che Giovanni e lui avevano intrapreso da decenni contro Cosa Nostra, non giustificava la decisione di disfarsi di loro in modo tanto eclatante. Sicuramente l’amico Giovanni, nelle sue investigazioni, doveva aver toccato qualche nervo scoperto e per questo aveva pagato con la vita.
Il giudice Battaglia decise allora di ripercorrere le ultime indagini dell’amico. Forse avrebbe trovato il capo di quell’intricata matassa, ma soprattutto il motivo di quell’improvviso salto di qualità da parte della mafia nella sua storica lotta contro lo Stato.
2
La morte al citofono
Ripercorrendo gli appuntamenti delle ultime settimane di Giovanni Pellegrino, il giudice Battaglia scoprì che l’amico aveva abbandonato la pista dei traffici internazionali di droga, per dedicarsi ai grandi appalti. In un faldone comparivano i nomi delle aziende più importanti su scala nazionale. Ne spiccava una su tutte, una
SPA
legata alla holding del Gruppo Areni, anche questa impegnata, per conto di un