Come educare alla creatività
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Come educare alla creatività - Maurizio Mazzotta
Maurizio Mazzotta
COME EDUCARE ALLA CREATIVITÀ
La situazione pigmalionica
prefazione di Mauro Laeng
edizione riscritta e aggiornata per un e book presso
2014
Illustrazioni di Mauro Talarico
per gentile concessione dell’editore GIUNTI all’autore
Prima edizione 1990 - Seconda edizione 1993
pubblicate da
GIUNTI E LISCIANI EDITORI
Oggi GIUNTI EDITORE S.p.A. Firenze-Milano
SOMMARIO
Prefazione di Mauro Laeng
Capitolo primo – La creatività, cosa, perché
1 – Un comportamento, più comportamenti
2 – Perché la creatività
Capitolo secondo – Il comportamento creativo
3 – La psicometria
4 – La personalità del creativo
5 – Le origini
Capitolo terzo – La ricerca
6 – La creatività deve essere stimolata
7 – Ma la creatività a scuola è mortificata
8 – E invece la scuola può stimolarla
Capitolo quarto – Programmare per la creatività
9 – Fare acquisire un metodo
10 – Motivare
Capitolo quinto – Insegnare per la creatività
11 – Docenti di ieri, docenti di domani
12 – La formazione degli insegnanti
Capitolo sesto – La situazione pigmalionica
13 – Modificazioni indotte nell’individuo
14 – Modificazioni indotte in situazione di gruppo
15 – I modi gentili di Pigmalione
APPENDICE
A – Fasi dell’apprendimento e metodo A.CRE
B – Il problema: come affrontarlo
C – Giochi per la creatività verbale
NOTE e APPROFONDIMENTI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
BIBLIOGRAFIA AGGIORNATA IN LINGUA ITALIANA
PREFAZIONE
L’inganno e l’arte
Pigmalione è nato sotto il segno dell’ambiguità. Artista impareggiabile, foggiava statue alle quali non mancava che infondere la vita: e la leggenda racconta che egli avrebbe infranto la sacra soglia, riuscendo nell’impresa ed emulando il creatore.
Di statue vive, o di vivi ridotti a statue, è piena del resto la tradizione letteraria. Più tardi, un aneddoto riferì che Michelangelo Buonarroti, dopo aver realizzato il Mosé, gli avrebbe scagliato contro un martello gridando «parla»!
Nel 1912 George Bernard Shaw riprendeva in chiave satirica lo stesso tema, immaginando che il glottologo Higgins riuscisse a trasformare una popolana in signora insegnandole una perfetta pronuncia e le buone maniere. Ne sono stati tratti anche una gradevole commedia musicale e un film di successo col titolo «My fair lady».
In pedagogia il mitico scultore è diventato di moda dopo un libro di Rosenthal e Jacobson, che ha divulgato l’interpretazione dell’effetto Pigmalione come un esempio di «profezia autorealizzata»; gli insegnanti che suppongono e «predicono» il successo o l’insuccesso dei loro allievi, tendono poi effettivamente a far sì che le cose vadano in tal senso e favoriscono le affermazioni dei presunti migliori, mentre ribadiscono o aggravano i fallimenti dei presunti peggiori.
A questo punto, ci dobbiamo chiedere: ma Pigmalione è «buono» o «cattivo»? Non si vuol fare del moralismo, ma solo stabilire se il progetto di costruzione di una creatura ideale sia o no conforme alla migliore attuazione dei «valori», il primo dei quali è la persona umana medesima.
In fondo, dinanzi al «pedagogo», all’aio o precettore, al catechista, all’istruttore, abbiamo una mal confessata paura: che sia in definitiva un «pedante» (vicenda delle parole!) che mira all’addestramento, al puro dressage, più attento alla «legalità» esteriore e tartufesca che alla vera «moralità» interiore; oppure, in altra edizione, un «persuasore occulto» che mira al plagio, alla captazione sottile del consenso. Molti grandi maestri e profeti del passato hanno ottenuto la devozione illimitata dei loro seguaci fino al fanatismo. Gli stessi grandi scrittori antichi che ritenevano la «historia magistra vitae» facevano professione di parenetica e di protrettica come arti persuasive ed esortative. Di qui una fondata diffidenza verso termini che pure hanno avuto una certa fortuna: come il «plasmare» anime e il «forgiare» personalità.
Forse per questo il maggior fascino è stato esercitato da educatori che, pur svolgendo una forte influenza, hanno cercato tuttavia di impiegarla più per destare le virtù autonome dei discepoli che per imporre i propri modelli: come Socrate, o Rousseau; ai nostri tempi, come Tolstoij o Tagore, come Geheeb o Neill. Ma rimane sull’altra sponda la testimonianza di educatori che hanno invece impresso una forte direzionalità (se non direttività) al loro insegnamento, come don Bosco o Makarenko: è pur necessario esser testimoni di ideali, se non si vogliono lasciare smarrire gli allievi vittime di forze divergenti.
La soluzione, in questo come in altri casi, non sta tanto nel «giusto mezzo» quanto nella capacità di coniugare l’altezza della ispirazione con la modestia degli strumenti, la sovrana libertà dello spirito con il rispetto dei meccanismi naturali. Non è incollando assieme pezzi eterogenei che si salda l’unità: ma riconoscendo che non si consegue una cosa senza l’altra o contro l’altra.
L’autore del libro lo sa bene: e capovolgendo arditamente il mito di Pigmalione, ce lo presenta non solo come fabbricante di statue animate, ma come evocatore di risorse sopite. Pigmalione chiama alla vita: vuol elevare la sua creatura a sé e non viceversa. L’educatore compie il lavoro più difficile e rischioso; lavora, intensamente, ma per rendersi inutile: è il maestro che vuol trasfondere in altri la sua maestria.
Perciò il libro unisce due aspetti che troppo spesso vanno disgiunti: la conoscenza e l’uso delle «tecniche» più determinate e precise con l’appello inesauribile alla «creatività». Solo gli sciocchi credono che la seconda dispensi dalle prime, mentre ne è una delle più esigenti utilizzatrici. Lo sanno gli inventori e scopritori, i grandi scienziati e i grandi artisti: che superano d’un balzo le costrizioni delle scuole e dei discepolati solo perché hanno saputo impadronirsene fino in fondo e trionfarne: ma a prezzo di duro lavoro e di lungo tirocinio. Il «tormento e l’estasi» di un Michelangelo e di un Beethoven, la «ispirazione più traspirazione» di un Bach o di un Einstein rivelano l’importanza di piegarsi all’acquisizione paziente per poter finalmente giungere ad esprimere il meglio di se stessi.
La scuola corre sempre il pericolo di avvitarsi su se stessa, di afflosciarsi nella ripetizione sempre più stanca: ma questo non per eccesso di tecnica, bensì per cattiva utilizzazione di essa. Ogni tanto se ne scuote, anche per il richiamo di libri come questo.
Mauro Laeng
CAPITOLO PRIMO
La creatività: cosa, perché
Creatività è come risolvi il tuo problema: alzare una serranda rotta perché ti occorre il sole, cercare la rima che ti serve o il colore per gli occhi che dipingi.
Creatività è nel modo in cui rubi il bacio alla tua amica, nel gioco dei bambini, nella voglia dei vecchi di continuare a vivere.
Creatività è l’avventura: vuoi saperne qualcosa?
1 - Un comportamento, più comportamenti
L'etimologia della parola «creatività» ci riporta alla parola «keré» di origine indoeuropea che significa: crescere. La parola «cereale» avrebbe la stessa origine: l’atto creativo è e permette una crescita, come la forza del grano.
Cosa s’intende comunemente quando ci si esprime con frasi quali: mio figlio ha molta creatività; quel ragazzo è creativo; quella persona ha eccezionali capacità creative?
Quando il genitore parla del figlio, per spiegare che ha molta creatività dice che ha fantasia, che riesce a divertirsi con niente, che ha sempre qualcosa da fare e deve fare sempre come dice lui. L’insegnante, a proposito di un alunno creativo, dice che è estroso, originale, dà risposte inattese e convincenti; che è discontinuo: a volte partecipa attivamente, a volte si distrae con facilità. Di un amico adulto diciamo che è molto intelligente, non si scoraggia di fronte alle situazioni difficili, trova molte soluzioni; che è instancabile e pieno di interessi.
Tentiamo di comprendere il significato di altre parole: alcune saranno veri e propri sinonimi della parola creatività, altre porranno l’accento su particolari aspetti della creatività; tutte, forse, consentiranno di impadronirci del concetto.
Se si pensa all’atto creativo viene in mente che l’individuo che crea, immagina una realtà, esistente o no; oppure che intuisce il problema, nel senso che lo imposta in modo diverso e in modo diverso lo risolve; o ancora che inventa qualcosa di nuovo.
«Immaginare» è la raffigurazione mentale di qualcosa che è al di fuori dell'esperienza e che può essere possibile o impossibile. Io posso immaginare cosa dirà un dirigente che non conosco all’impiegato ritardatario; e Calvino può immaginare «il suo cavaliere inesistente». L’immaginazione parte sempre da dati reali: il dirigente, le frasi che dice, l’armatura vuota, il cavaliere, e implica necessariamente che si vada oltre.
L’immaginazione è un «andare oltre» le informazioni che si posseggono.
«Intuire» è arrivare alla soluzione senza fare uso dell’algoritmo opportuno, cioè di quella sequenza logica di operazioni che porterebbe alla soluzione prevedibile. Si può arrivare (se non si sbaglia!) anche ad altre soluzioni, perché in realtà il problema è «visto in modo diverso» (intuire: vedere dentro) e nella nuova ottica si imposta un nuovo algoritmo. Gauss, che a sei anni è già un matematico!..., vede «dentro» al problema che il maestro pone alla classe. Si tratta di operare una serie di addizioni: 1+2+3+4+5+6+7+8+9+10 e lui scopre una «struttura»: cinque coppie di numeri che sommati dànno sempre 11 e cioè: 1 + 10; 2+9; 3 + 8; 4 + 7; 5 + 6; e arriva a dire 55 in pochi secondi!
«Inventare» significa «trovare qualcosa di nuovo»; la produzione di idee originali è tipica dell'atto creativo. L’individuo che, in qualunque campo, esprime capacità creative è un innovatore: può rinnovare uno stile, può scoprire in un oggetto una nuova funzione, può trovare tecniche e metodi per soluzioni diverse, può scoprire leggi e principi. Cade una mela e Newton trova una legge.
Ma la creatività investe tutti gli aspetti della personalità dell’individuo. Mi riferisco alla sfera affettiva.
Chi immagina o intuisce soluzioni o inventa nuovi schemi e linguaggi lo fa perché, in un certo senso, non sopporta più le soluzioni date e i vecchi schemi.
Sottolineo con questo non tanto l’intolleranza quanto la curiosità, il desiderio di indagare e di scoprire il nuovo, che sono espressione di una caratteristica affettiva positiva verso tutta la realtà, soprattutto... quella che non si conosce!
La creatività è un comportarsi affettivo-intellettivo in relazione con gli oggetti della nostra esperienza; dunque permette un particolare modo di rapportarsi con gli altri, con le persone che amiamo per esempio.
Intendo, per creatività, la fantasia che accende fantasia: da una parte, l'immaginazione fervida, comunque sincera, autentica e perciò convincente, dall’altra, la capacità di ricevere il racconto e di viverlo in modo empatico, cioè «come se» fosse la propria storia, ossia la capacità di dimostrare a chi racconta di «prendere parte». Così accade al lettore o allo spettatore di una fiaba che venga rapito dai fatti che affiorano dalle pagine o dallo schermo e invadono il suo campo psicologico (si pensi a La storia infinita di M. Ende, 1986). E allora è creativo non soltanto chi stimola, ma anche chi risponde agli stimoli in un determinato modo.
Dalla creatività come atto affettivo-cognitivo del singolo verso l’oggetto, cioé verso tutto ciò che è fuori di noi: persona, evento, idea, oggetto concreto, alla creatività come atteggiamento di curiosità intensa, carica di affettività, che rivela la capacità di ascolto e di partecipazione: la creatività come insieme di tratti di personalità. Se ti racconto una favola in modo autentico e tu «ti lasci entrare» nella mia favola, siamo creativi entrambi. La creatività è un’interazione e si assume per contagio. Per molte indagini genitori creativi stimolano creatività.
Voglio precisare questo concetto di interazione.
Si interagisce con gli oggetti e con le idee in essi contenute nonché con le persone. Si è già visto che per creatività s’intende la capacità di porsi di fronte ai problemi in modo diverso e di fronte alle cose ricercando il problema. Il creativo produce idee nuove e insolite, inventa procedure e leggi, utilizza tutto questo e realizza oggetti; ma pone anche nuovi problemi che altri affronteranno: una interazione mediata dal tempo tra l’individuo che pone problemi e colui che li affronterà ponendone altri... e così via in un processo culturale continuo.
Creativo si dice di un individuo che contribuisce alla vita culturale del gruppo e crea modelli di comportamento: dall’artista allo scienziato, che diffondono e fanno sorgere idee; dall’inventore, che con nuovi oggetti cambia i costumi, al politico, che accende illusioni; dal manager, che sveglia bisogni, all’amante, che dice «ti amo» in mille modi e stimola comportamenti analoghi nel partner.
Tra gli animali superiori, come le scimmie, si trovano individui creativi. Una scimmia scoprì il sistema per mondare il riso dal fango. Immerse un giorno le mani colme di chicchi e terra nell’acqua, che si portò via la sabbia fine lasciando i grani bianchi nelle palme. Fu innovazione culturale: quel comportamento, relativo al metodo di pulitura dei grani di riso, fu imitato da tutti i membri del gruppo.
In una visione diacronica, attraverso il tempo, la creatività ha permesso la storia con il suo intreccio di eventi variamente agganciati.
Riferisco ciò che dicono alcuni studiosi.
Per il Guilford (1950), che per primo ha studiato in modo sistematico la creatività, essa «è un insieme di fluidità di pensiero, rapidità ideazionale, sensibilità ai problemi, novità ideativa; flessibilità della mente; abilità sintetiche, analitiche, valutative, capacità di riorganizzare e ridefinire strutture concettuali complesse».
Per Getzels e Jackson (1962) è la «combinazione di elementi considerati comunemente indipendenti e dissimili»; così come per Mednick (1962), per il quale «è la capacità di mettere insieme in modo utile idee di solito lontane l’una dall’altra».
Per Getzels e Csikzentmihalyi (1964) il pensiero creativo «è la proposizione di un problema non meno che il tentativo di risolverlo» e per la Wason (1968) è «un modo di operare cognito, estetico e emotivo che enuclea i problemi presenti in una situazione o in un materiale e tenta di risolverli».
Metto in evidenza alcuni concetti utili per una definizione:
- un insieme di tratti di personalità;
- un comportarsi affettivo-cognitivo con ciò che ci circonda;
- la capacità di associare concetti remoti.
Si deve definire la creatività sotto ogni aspetto, in tal modo si comprenderà quanto è complesso studiarla.
Propongo questa definizione analitica.
La creatività è un’interazione, diacronica e sincronica, con oggetti, problemi e persone. Si manifesta, a livello affettivo, con atteggiamenti di accettazione, curiosità e interesse; si esprime, a livello cognitivo e psicomotorio, con la produzione di idee e di azioni: produzione guidata da una particolare sensibilità, ossia la ricerca di problemi da affrontare sia associando concetti remoti sia valutandone costantemente gli effetti. Questo insieme di comportamenti tende a soddisfare l’esigenza dell'individuo di realizzare se stesso; parte da e/o può arrivare a un’autentica accettazione di sé.
2 - Perché oggi la creatività
Da qualche decennio nelle società tecnologicamente avanzate industriali, manager, dirigenti e parallelamente pedagogisti e psicologi, spinti da motivi diversi ma non necessariamente opposti, anzi molto spesso complementari, hanno rivolto l'attenzione al processo e al prodotto creativi.
Lo sviluppo della tecnica, che per tutta la storia dell’uomo è proceduto in modo sempre più veloce fino ad assumere carattere di cambiamento repentino, ha nel Duemila carattere di esplosione!
Quello che prima era sviluppo oggi è esplosione tecnologica: la tecnologia segue di pari passo il progresso scientifico e molto spesso lo precede e lo permette.
Questa continua trasformazione impegna l’individuo costringendolo a incessanti e stressanti modifiche comportamentali.
È la strada intrapresa dall’uomo, la cui prima invenzione, la ruota, fu anche indicatrice precisa del futuro: la velocità con cui l’uomo si muove oggi