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La perla nel Tempio
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E-book176 pagine2 ore

La perla nel Tempio

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Info su questo ebook

A volte, la vita ci priva di qualcuno o di qualche cosa che conta molto per noi. A volte, tale perdita è compensata con un dono di diversa specie o natura, a volte questa compensazione non avviene. A volte, quello che abbiamo lo sentiamo come un peso, ma non vorremmo perderlo per nulla al mondo. A volte, il caso ci viene incontro, riportandoci ciò che abbiamo perso. A volte la perdita è irreparabile e il senso di privazione dura per sempre. E qui c’è la sottile linea di confine che separa la perdita dalla sconfitta. A volte, tardiamo a renderci conto di ciò di cui siamo rimasti deprivati. Oppure, il senso di perdita precede addirittura la perdita. Ce lo portiamo dentro da sempre, non solo come individui, ma come genere umano. Da sempre l’uomo sente di aver perso l’Eden, uno stato di beatitudine primigenia in cui aveva tutto e non mancava di nulla. Sente di aver perso tutto questo per una colpa commessa. Ecco, da questo senso di perdita che ci accumuna tutti, dal senso di stupore che ci pervade quando ci rendiamo conto di partecipare tutti a questo sentimento, nascono i racconti raccolti in questo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2012
ISBN9788866189596
La perla nel Tempio

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    Anteprima del libro

    La perla nel Tempio - Alessandra Pontecorvo

    genitori.

    Conto alla rovescia

    La fine dell'anno scorso è stata un po' particolare, un po' carica di tensioni. Le cose erano iniziate a precipitare i primi di novembre. Un giorno, prima dell'ora di pranzo, Gunnar, mio marito, mi aveva chiamato al cellulare e, dopo il solito: «Pronto, cara? Come stai?», aveva esclamato, con voce concitata: «Ascolta, è successa una cosa incredibile… »

    «Che è successo? Non farmi stare in ansia!» l'avevo interrotto subito io, immaginando di tutto.

    «È morto Terni!» aveva risposto immediatamente Gunnar, andando dritto al sodo.

    «Ma porca miseria, non è possibile!» avevo esclamato io, dopo qualche secondo di silenzio, sinceramente colpita.

    Caspita, quella sì che era una notizia. Era veramente successo qualcosa.

    Si trattava del proprietario della ditta per cui mio marito lavorava da quasi vent'anni. Da quanto ne sapevo, non era anziano.

    «Ma che è successo? Com’è morto?» ho chiesto allora, incuriosita.

    «Si è sentito male durante una cena» ha risposto Gunnar.

    «Un amico medico ha cercato di prestargli i primi soccorsi, poi lo hanno portato all’ospedale ma non sono riusciti a salvarlo. È morto d’arresto cardiaco», ha concluso.

    «Santo cielo! Ma … Era malato di cuore? » ho insistito io.

    «Non che io sappia», ha ammesso Gunnar. «No. Se era malato, nessuno ne sapeva niente. Erano tutti esterrefatti, in ufficio. Questa mattina, quando mi hanno chiamato per dirmelo, sono rimasto di sasso. »

    Beh, perbacco: fa strani scherzi la vita.

    Io il signor Terni lo avevo conosciuto circa quindici anni prima, quando ero andata a trovare Gunnar in uno dei vari Paesi del Golfo in cui lavorava a quell'epoca.

    Un pomeriggio di un luglio degli anni ' 90, ero scesa dalla scaletta dell'aereo della Gulf Air che mi aveva portato da Roma a Manama, capitale del Bahrein, previo affidamento delle mie figliole al campeggio della YMCA. Ero rimasta tramortita dalla temperatura dell'aria. Non è una temperatura che si può descrivere, bisogna provarla. È come venire avvolti da un vento di vapore, quello - per capirci - che esce dal ferro da stiro o dal Vaporetto, solo che quello del Vaporetto è una zaffata circoscritta: l'aria del Golfo non è circoscritta. Non c'è modo di riprendere fiato: il senso di soffocamento è totale, l'unica salvezza è l'aria condizionata.

    Dopo i baci, gli abbracci e i punti esclamativi e interrogativi («Dio, Gunnar che caldo boia!! Ma come si fa a respirare?»), mio marito ed io ci siamo diretti verso il parcheggio dell'aeroporto.

    Ad attenderci c'era Terni, il quale - prima di salire sullo stesso aereo che mi aveva portata fin lì e che si accingeva a ripartire per Roma - ci aveva consegnato le chiavi della sua Crown Victoria, che dovevamo riportare in ufficio. Ce le ha consegnate con pochissime parole, senza neanche guardarci in faccia. Io ero intimidita, preoccupata da questa mancanza di empatia. Poi però mio marito, salito su quella pesante macchina americana totalmente inadatta al clima, aveva acceso l'aria condizionata; subito si era messo in moto il lettore delle cassette, da cui erano uscite le note di Estate di Bruno Martino:

    Estate,

    sei calda come i baci che ho perduto,

    sei piena di un amore che è passato

    e il cuore mio vorrebbe cancellar …

    Un colpo da maestro, quello di mio marito. Era riuscito a creare un'atmosfera a dir poco magica. Mentre guardavo scorrere dietro il finestrino un paesaggio assolutamente mai visto prima, fatto di deserto, mare verde, minareti di tutte le altezze, uomini vestiti di tuniche bianche e pochissime donne, completamente coperte di veli neri, gli ho chiesto: «Ma che ne sai tu di Estate di Bruno Martino, tu che sei cresciuto in Norvegia?»

    Così Gunnar aveva cominciato a spiegare che era entrato a far parte di tutta una compagnia di giro di pseudo cantanti napoletani che cantavano dal vivo in pseudo ristoranti italiani sparsi per il Golfo…

    Uno in particolare, un certo Ciro, che non sapeva neanche cantare e suonare tanto bene, aveva sposato una ragazza di origine persiana che viveva lì; era dovuto diventare mussulmano per questo; lei si era innamorata di lui sentendolo cantare, non sapeva nulla di lui, non sapeva neanche che era pure bigamo (perché, essendo scappato in tutta fretta da Napoli non so per quale motivo, aveva abbandonato moglie e figli, senza neanche il tempo di divorziare)…

    Insomma, mentre mio marito raccontava, io mi ero messa di nuovo a pensare a quell'uomo fugacemente incontrato mentre se ne tornava a Roma con l'aereo da cui io ero scesa qualche minuto prima e pensavo che, però, non era mica male, era piuttosto belloccio Terni, una via di mezzo tra Bryan Ferry e Lando Fiorini, ma senza la classe inarrivabile del primo né la simpatia del secondo. Un uomo molto imbronciato, molto insicuro, molto palestrato. Uno che non solo non ti guarda mai negli occhi e non ti sorride neanche per sbaglio, ma fa di tutto per farti capire che di te non gliene frega niente. Un vero parvenu.

    Non so. Avrei dovuto essergli grata per esser stato l'unico ad aver dato un lavoro a mio marito in quegli anni difficili. Ma pensavo che lo pagasse poco, lo gratificasse ancora meno e, cosa più grave, per una miope politica aziendale, lo tenesse ossessivamente lontano dalla famiglia, così non si distraeva. Come facevano gli antichi romani con gli schiavi, tale e quale. E a Gunnar non faceva bene essere lasciato solo e indifeso ad affrontare il caos organizzativo più totale. E infatti io, a Terni, non gli ero grata per niente. Insomma: non mi andava giù che il signor Terni avesse dato a mio marito, con la scusa del lavoro - indispensabile per mantenere la famiglia - la possibilità di svignarsela all'estero lasciandomi sola con tre bambine da crescere da sola.

    Per molti anni avevo ingaggiato con un braccio di ferro - di cui sapevo solo io - col povero signor Terni, perché volevo riprendermi Gunnar. Ogni tanto mettevo il broncio e pretendevo che scrivesse il suo curriculum e lo mandasse in giro per il mondo. Lo mandasse a chiunque, pur di darsi la possibilità di lavorare per qualcuno che dimostrasse maggior rispetto per lui e per me e gli desse una certezza per il futuro. Gli dicevo: «Accidenti, tuo padre è stato uno dei più grandi storici e filosofi dell'architettura, famoso in tutto il mondo… Ci sarà bene qualcuno dei suoi vecchi amici (Robert Venturi, Leon Krier, Mario Botta, un accidente che vi spacca a tutti quanti) che ti darà lavoro per rispetto a quello che ha dato alla cultura!?» e Gunnar di rimando: «Ma tanto che ti credi, pure se trovo un altro lavoro, mi sbattono lo stesso chissà dove, magari in Thailandia; Olav Pallen, dopo anni di Usa, costruisce solo in Asia … che ti credi, qui in Europa non costruisce più nessuno, lavora solo Renzo Piano! »

    Ma io, sempre più incazzata, insistevo: «Sai perché lavora solo Renzo Piano, e qualche volta Richard Meier? Perché tuo padre è morto, ecco perché! Lui sì che l'avrebbe impedito!»

    Mio suocero: uomini come lui non ne nasceranno mai più. Lui sì che era appartenuto a un'élite che si era fatta il mazzo al momento giusto, quando ancora le lauree valevano qualcosa, e aveva ottenuto enormi risultati. Invece Gunnar, nonostante il 110 e lode, se n'era dovuto andare in giro per il mondo a montare gli stucchi dipinti di celeste madreperlato per i figli degli sceicchi. O per le seconde e terze e quarte mogli degli emiri. Solo perché è nato nella generazione sbagliata. Non so come non mi sia ancora scoppiato il fegato.

    Gunnar sapeva benissimo che avevo ragione da vendere, ma non gli andava di ricominciare da capo da un'altra parte con qualcun altro, perché tanto quello sarebbe successo: lavoro a Roma per lui non se ne trovava. Per un periodo ero persino riuscita a farlo assumere da un conoscente di mio padre, ma era stato peggio. Quello, a un certo punto, aveva sparato la cannonata: se Gunnar voleva continuare a lavorare per la sua ditta, ce ne dovevamo comprare la metà. Naturalmente, il prezzo della metà della sua ditta lo stabiliva lui. E toccava accollarsi il vecchio fratello scemo, il giovane figlio scemo, il nipote scemo di mezza età, ecc. Tutti gli scemi della famiglia. E così Gunnar era tornato a bussare da Terni - che se l'era ovviamente ripreso - ed era ripartito per il Golfo. E io avevo dovuto fare finta di rassegnarmi.

    A un certo punto, non riuscendo a distogliere Gunnar dal lavorare per Terni, ne avevo pensata un'altra. Ero venuta a sapere che il Capo era alla ricerca di una segretaria personale; così, ho chiesto di sostenere il colloquio per l'assunzione. Se avessi potuto lavorare anch'io per lui, avrei visto e sentito Gunnar più spesso. Perché non solo i ritorni a casa erano troppo rari per essere tollerabili, ma anche le telefonate erano razionate, infatti ce le dovevamo pagare da soli. E funzionava così: Gunnar chiamava la domenica, stava un'ora a lamentarsi di tutto e di più; poi, quando arrivava il mio turno di lamentarmi, la telefonata doveva finire perché sennò costava troppo.

    Ma Terni aveva frustrato anche la mia speranza di avere quel lavoro e questa non gliel'avevo mai perdonata. Nel corso dell’intervista, oltre a farmi capire che di una segretaria con la laurea non sapeva che farsene, aveva avuto la sfacciataggine di chiedermi: «Senta, signora, mi tolga una curiosità, lo sa fare il caffè?»

    Nell'udire quella domanda stupida ero rimasta senza fiato, perdendo l’occasione per fare la battuta: «Guardi, signor Terni, non solo so fare il caffè, ma conosco anche i tutti i nomi delle renne di Babbo Natale: Dasher, Dancer, Prancer, Vixen, Comet, Cupid, Dunder e Blixen!». Come Katherine Hepburn in The Desk Set, mitico film che racconta di un gruppo di segretarie impiegate per rispondere telefonicamente a qualunque domanda che lottano per non essere sostituite dal computer. Invece ero rimasta muta a guardarlo, sbalordita. Quella richiesta incomprensibile, in un contesto in cui non aveva alcun senso fare dello spirito perché era in gioco il benessere della mia famiglia, me l'ero legata al dito. E gli accidenti che già gli mandavo in cuor mio ogni giorno, si erano considerevolmente intensificati.

    Così abbiamo passato gli anni, io a implorare mio marito di redigere un curriculum da mandare in giro per il mondo (a chiunque, purché smettesse di lavorare per Terni), lui a trovare qualunque scusa per non fare mai una cosa del genere. A un certo punto, dai e dai, mi sono rassegnata alla sua assenza, mi sono messa in grado di avere ugualmente una vita sociale accettabile. Ho capito che nessun aereo sul quale Gunnar viaggiava sarebbe mai precipitato e quindi la mia ansia parossistica si era pian piano calmata, consentendomi di tenere relativamente sotto controllo le crisi depressive.

    Ma poi, passati altri anni, era diventato comunque necessario fare qualcosa perché Gunnar - che nel frattempo si era trasferito per lavoro in Costa Azzurra - aveva cominciato ad aver problemi di salute. Insomma, a metà settembre dello scorso anno, mio marito Gunnar si era ridotto una specie di rottame. Non faceva che bere, fumare, ingrassare, al punto che non riusciva neanche più a fare due passi o due bracciate a nuoto senza ansimare. Lui, che un tempo nuotava che sembrava una foca, adesso se ne stava lì nell’acqua, fermo a galleggiare come una boa disperata. E la mia ansia parossistica, dal terrore che precipitasse con l'aeroplano, si era spostata sul terrore che crepasse per uninfarto o gli venisse un ictus e restasse paralizzato su una sedia a rotelle e quindi disoccupato, o quant'altro, ecc. ecc. Erano mesi che Gunnar viveva relegato vicino al Principato da Operetta, uno dei più grandi bluff della storia, in cui se vai da McDonald's alle otto di sera hanno già finito le patatine fritte.

    Prima aveva abitato per circa tre anni a Mosca… L'avevo appena intravista Mosca, ero riuscita ad andarci solo due volte. M'erano rimaste mille domande senza risposte, non ero riuscita a parlare praticamente con nessuno, non ero riuscita a entrare in nessuna casa, non avevo trovato nessuno che parlasse decentemente un'altra lingua che non fosse il russo e la guida che ci aveva accompagnati a visitare il Cremlino non aveva risposto a nessuna delle mie domande. L'unica notizia non richiesta che ci aveva dato era stato indicarci in quali stanze del Cremlino veniva ospitato Berlusconi ogni volta che andava ospite del suo amico Putin. Nei due anni che Gunnar aveva lavorato lì, m'era presa pure la paranoia che se la spassasse con le russe. Quelle che passano i loro lunghi inverni a ballonzolare nella neve sui tacchi a spillo. Gli amici soffiavano sul fuoco, dicendo: ma certo, che vuoi, niente di più facile per Gunnar che prendersi una studentessa russa in casa, a quelle gli basta avere un tetto sulla testa e il frigorifero pieno… E io a maledire la mia sorte. Altra circostanza rovinosa era che il signore russo per cui lavorava Gunnar, magnate dei succhi di pompelmo, l'aveva preso in simpatia e lo convocava tutte le mattine nella cucina della nuova casa per fare colazione insieme. Gli metteva davanti non un cappuccino con la brioche, non un cartoccio di succo di pompelmo di quelli che produceva lui - che la mattina fa acido - ma una bottiglia di vodka bella piena. E giù a parlare di lavoro e a tracannare per il resto della mattinata… Era per colpa della vodka che Gunnar si era gonfiato come un pallone.

    Insomma, era dura, era veramente dura.

    Io sopportavo perché le mie tre figlie bisognava pure che mangiassero. E poi, in realtà, un uomo migliore di Gunnar e che mi piacesse più di lui, in tanti anni - con mio grande stupore, ma era un fatto incontrovertibile - non lo avevo mai incontrato.

    Tuttavia ero perennemente sul piede di guerra e io non sono una da sottovalutare.

    Mi ero confidata con mio cognato, un uomo

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