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Il mio cuore è rimasto a Berlino
Il mio cuore è rimasto a Berlino
Il mio cuore è rimasto a Berlino
E-book195 pagine2 ore

Il mio cuore è rimasto a Berlino

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Info su questo ebook

Dagli anni novanta anche in Italia è costantemente cresciuto l’interesse per l’ipnosi regressiva, una tecnica psicoterapeutica che permette di accedere in stato di trance alla memoria inconscia, facendo emergere alla coscienza quelli che soggettivamente sembrano essere i ricordi di esistenze precedenti, vissute in altri tempi e in altri luoghi. Mentre però la maggior parte dei libri in que­stione sono scritti da psicoterapeuti più o meno famosi, o comunque da “addetti ai lavori”, questo invece presenta il resoconto di una terapia regressiva narrato da un “profano” che a questa terapia si è sottoposto per più di un anno e mezzo ed essendo uno scrittore, a costo di violare la propria privacy ha deciso di mettere la propria esperienza a disposizione di chi abbia interesse ad ascoltarla, magari come stimolo per iniziare a sua volta una terapia regressiva o come confronto con un proprio analogo percorso. O più semplicemente per pura curiosità.
LinguaItaliano
EditoreMomi Zanda
Data di uscita15 feb 2014
ISBN9788868858490
Il mio cuore è rimasto a Berlino

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    Anteprima del libro

    Il mio cuore è rimasto a Berlino - Momi Zanda

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    IL MIO CUORE È RIMASTO A BERLINO

    Memorie di vite passate

    © 2014 Momi Zanda

    1° ediz. cartacea: 2009

    1° ediz. e-book: 2014

    http://momizandablog.altervista.org/

    http://www.momizanda.altervista.org/

    Immagine di copertina: Legame (collage dell’autore)

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    MOMI ZANDA

    IL MIO CUORE

    È RIMASTO

    A BERLINO

    - memorie di vite passate -

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    PREFAZIONE

    Dagli anni novanta anche in Italia è costantemente cresciuto l’interesse per l’ipnosi regressiva, una tecnica psicoterapeutica che permette di accedere in stato di trance alla memoria inconscia, facendo emergere alla coscienza quelli che soggettivamente sembrano essere i ricordi di esistenze precedenti, vissute in altri tempi e in altri luoghi.

    Questo interesse è testimoniato dai numerosi libri sulla terapia regressiva pubblicati negli ultimi due decenni, a partire da quelli dello psichiatra americano Brian Weiss, probabilmente i più popolari.

    Un ulteriore testo sull’argomento potrebbe dunque apparire superfluo.

    Mentre però la maggior parte dei libri in questione sono scritti da psicoterapeuti più o meno famosi, o comunque da addetti ai lavori, questo invece presenta il resoconto di una terapia regressiva narrato da un profano che a questa terapia si è sottoposto per più di un anno e mezzo ed essendo uno scrittore, a costo di violare la propria privacy, ha deciso di mettere la propria esperienza a disposizione di chi abbia interesse ad ascoltarla, magari come stimolo per iniziare a sua volta una terapia regressiva o come confronto con un proprio analogo percorso. O più semplicemente per pura curiosità.

    Per esigenze narrative la cronologia di alcuni avvenimenti è stata leggermente modificata, e talvolta materiali e contenuti emersi nell’arco di diverse sedute sono stati riuniti nel resoconto di un’unica seduta. Per ovvii motivi di riservatezza, sono stati anche eliminati o deformati tutti i riferimenti e le problematiche relative a persone attualmente esistenti.

    A parte questi dettagli, il resoconto è assolutamente veritiero. Non, ovviamente, nel senso che i ricordi emersinel corso delle mie sedute corrispondano necessariamente a eventi da me oggettivamente vissuti in qualche vita precedente, cosa che in linea di massima è assolutamente inverificabile, e quindi al di là di qualunque giudizio di verità o di falsità, ma in quanto riporta il più esattamente possibile e senza alcuna invenzione l’esperienza soggettiva da me vissuta durante questo difficile ma affascinante cammino.

    Sono tante le persone che vorrei ringraziare per l’aiuto e il sostegno che mi hanno dato nel corso della mia avventura, e per motivi di spazio non posso citarle tutte. Ma è doveroso ricordare almeno la dottoressa Mirella Tavernise e la dottoressa Elisabetta Corberi, discrete e amorevoli accompagnatrici che mi hanno guidato con correttezza e professionalità nei meandri del mio inconscio e della mia memoria.

    Il viaggio negli stati alternativi di coscienza iniziato con loro è proseguito negli anni successivi anche dopo la fine della mia terapia, portandomi ad accedere a dimensioni della mia coscienza delle quali non sospettavo neanche lontanamente l’esistenza.

    Da allora la mia vita è radicalmente cambiata, sia interiormente che esteriormente.

    Dopo una formazione in una scuola di counselling a orientamento ipnologico, quella che inizialmente era stata una ricerca puramente personale è diventata per me una professione, e adesso sono io ad accompagnare gli altri nell’esplorazione della loro memoria e della loro interiorità.

    Per quanto ancora molto breve, la mia esperienza professionale ha ulteriormente confermato la mia convinzione che l’ipnosi regressiva possa essere un ottimo punto di partenza per ampliare la consapevolezza di sé stessi e accedere a quelle dimensioni transpersonali della coscienza che permettono all’essere umano di risvegliarsi alla propria natura di essere cosmico.

    Cagliari, 11 gennaio 2008

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    Fino a che punto i ricordi fossero esatti e fino a che punto inventati non lo sappiamo, ma questo non lo potremo mai sapere di nessun ricordo, neppure della descrizione a caldo di un incidente, di un aggressione o dell’avvistamento di un disco volante appena avvenuti. La memoria è sempre in primo luogo immaginazione, connotata in via sussidiaria dal tempo.

    James Hillman, La forza del carattere

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    STATI ALTERATI DI COSCIENZA

    AZZURRO COSMICO

    «Vada a prendere un respiro profondo … e poi continui a respirare normalmente … senza modificare il suo respiro … senza modificare il ritmo del suo respiro …respiri normalmente, liberamente … quando espira, lasci andare l’energia negativa … si liberi dalle tensioni e dallo stress … quando inspira, si carichi di energia positiva, della meravigliosa energia positiva che la circonda … e continui a respirare normalmente, osservando il suo respiro … sì … testimone del suo respiro … senta il ritmo del respiro che va e che viene … lasci che ogni respiro la porti sempre più profondamente in uno stato di piacevole rilassamento …»

    La voce della terapeuta è piana e suadente. In sottofondo, una musica evocatrice contribuisce a indurre quello stato iniziale di rilassamento che dovrebbe gradualmente tradursi in una vera e propria trance. Io mi sono armato di buona volontà, sono desideroso di collaborare e sono deciso a mettere a tacere qualunque interferenza della mia prepotente razionalità che possa impedirmi di far funzionare l’ipnosi.

    Purtroppo, non ho la minima idea di quel che dovrei fare per agevolare il processo.

    La terapeuta va avanti suggerendomi di sentire il mio respiro che attraversa l’una dopo l’altra, a partire dai piedi, le diverse parti del mio corpo, rilassando i muscoli al suo passaggio. Ma io non riesco a percepire alcun respiro nelle gambe o nel bacino. Per me il respiro è qualcosa che va dal naso o dalla bocca fino ai polmoni, interessando al massimo, per i movimenti che lo accompagnano, il diaframma e i muscoli addominali. Non capisco cosa mi si chiede di fare. Se la terapeuta mi suggerisse di levitare di alcuni centimetri sopra il lettino sul quale sono sdraiato per me sarebbe la stessa cosa. Comunque, ho deciso di essere (almeno per le prime sedute) un paziente disponibile e volonteroso, e perciò freno l’impulso di dirle che non capisco quello che mi sta dicendo di fare, che io respiro col naso e non con le gambe, e diligentemente mi sforzo invece se non altro di concentrare la mia attenzione sulle varie parti del corpo che mano a mano nomina. In questo modo riesco a rilassarmi almeno in parte, e quando lei inizia a contare alla rovescia («Adesso conterò alla rovescia da dieci a uno … lasci che ad ogni numero il suo stato di rilassamento aumenti e diventi sempre più profondo …») riesco quasi a entrare nel gioco.

    «Sta per succedere qualcosa» penso, con un misto di aspettativa e di timore.

    «Ora vada indietro nel tempo, di dieci anni, di cento anni, di mille anni, di diecimila anni. Il tempo non esiste. Immagini di avere una porta davanti a sé. Su questa porta c’è scritto: Il mio passato. Vada a scoprire cosa c’è dietro questa porta.»

    Come mi aspettavo, non riesco a visualizzare alcuna porta. Davanti al mio schermo visivo continuo a vedere soltanto ciò che vedo normalmente quando tengo gli occhi chiusi in una stanza buia o in penombra: uno sfondo nero attraversato da fosfeni (punti e linee luminescenti più o meno intense, di diversa forma e dimensione). Credo di essere abbastanza immaginativo e osservatore, i miei sogni (quando li ricordo) sono vividi e colorati e ricchi di paesaggi e di visioni, anche molto nitide, ma la mia capacità di visualizzare intenzionalmente oggetti o situazioni reali o immaginarie è pressoché nulla. La frustrazione di non riuscire a visualizzare la porta attenua il mio rilassamento, aprendo un varco alla mia coscienza razionale che non vede l’ora di riprendere il pieno controllo della situazione. Per di più, sono disturbato da una miriade di piccoli fastidi fisici: micropruriti, piccoli colpi di tosse, il contatto dei vestiti sulla pelle o delle ossa delle scapole contro la superficie del letto, l’impossibilità di trovare una posizione comoda per le braccia e le mani, che muovo spesso.

    «Cosa vede?» mi chiede la terapeuta dopo alcuni minuti di silenzio.

    «Non vedo nulla» rispondo con un certo fastidio nella voce. Ormai la mia razionalità ha ripreso il sopravvento. Anche se in fondo la situazione mi diverte, inizio a sentirmi un po’ ridicolo, sdraiato su quel lettino in una stanza in penombra ad ascoltare, col sottofondo di musiche vagamente new age, la voce suadente della terapeuta che si aspetta da me chissà quali visioni, mentre io cerco con sempre minor convinzione di far finta di essere in trance. Si affaccia il pensiero finallora tenuto a bada che l’ipnosi con me non funzionerà, e che quindi ho speso inutilmente un mucchio di soldi (l’aereo Cagliari-Roma, una settimana in albergo, cinque sedute già prenotate).

    «Mi descriva questo nulla» insiste la dottoressa T.

    «È uno schermo nero, con dei punti luminosi.»

    «Cerchi di entrare dentro questo schermo, di sentire le emozioni che le suscita.»

    In quel momento (forse la mia trance è più profonda di quanto creda, o forse si tratta solo di una banale suggestione visiva causata dall’avere tenuto gli occhi chiusi ormai a lungo) nello schermo nero appare un foro luminoso che si allarga fino a diventare un piccolo cerchio all’interno del quale intravedo una figura indistinta. Il cerchio scompare quasi subito, ma riesco a intuire che dentro il cerchio c’è un bambino, o un feto.

    «Chi è quel bambino?»

    «Credo di essere io. Credo di essere dentro l’utero.»

    A quel punto le mie mani, che ho poggiato incrociate sulla pancia, sembrano saldarsi assieme formando una specie di guaina, dandomi la sensazione fisica di essere davvero dentro un involucro.

    «Che emozioni prova in questa condizione?»

    «Mi sento protetto. Non ho voglia di uscire. Non so cosa mi aspetta fuori. Mi sembra di non avere voglia di nascere.»

    Le mie parole, che in un primo istante erano uscite dalla mia bocca spontaneamente, senza alcun intervento della mia volontà, iniziano subito a suonarmi artificiose, costruite. Mi torna in mente che alcuni mesi fa in un mio racconto parzialmente autobiografico avevo inserito un immaginario sogno regressivo in cui mi trovavo dentro l’utero prima della mia nascita e non volevo uscire. Probabilmente sto solo recuperando dalla mia memoria recente dei materiali con cui cercare di produrre una finta regressione a un passato lontano.

    Il mio stato di coscienza è altalenante. Passo da momenti in cui mi sento completamente sveglio ad altri in cui la mia razionalità è ridotta al ruolo di osservatrice e almeno una piccola parte di me naviga in una leggera trance dalla quale emergono sporadiche immagini. Una di queste è una mano dalle dita adunche che si richiudono. La associo subito allo stereotipo dello strozzino ebreo raffigurato nei manifesti della propaganda nazista, e mi balena l’ipotesi che possa collegarsi alla mia convinzione di essere stato, nella mia vita precedente, un ebreo ai tempi del nazismo.

    Ma queste rare immagini sono talmente evanescenti che non ho neppure il tempo di descriverle verbalmente alla terapeuta.

    A tratti, quando riesco a lasciarmi andare maggiormente, lo sfondo nero dietro le mie palpebre chiuse assume dei colori: delle macchie aranciate, cupe e cangianti, che dal centro si dilatano e per un istante sembra che stiano assumendo una forma, e poi un azzurro cupo che tende a schiarire come il cielo prima dell’alba e si trasforma in una sorta di spazio cosmico nel quale tento senza successo di immergermi ma che mi trasmette comunque un senso di leggerezza e di libertà.

    Poi vedo un violino, o meglio, più che vederlo ne intuisco la presenza.

    «Mi sembra che dietro questa immagine ci sia un significato importante» spiego, contento di avere trovato finalmente qualcosa a cui appigliarmi. «Questo violino ha una storia da raccontare.»

    «Mi parli di un violino che ha fatto parte della sua vita, la prima cosa che le viene in mente» mi incoraggia la terapeuta.

    «È un violino che stava nel salone della casa di mia nonna. È un grande salone con molti specchi e i soffitti affrescati. Finché mia nonna era viva, nel salone c’era anche un pianoforte a coda.»

    «Sì, vada avanti. Di chi è il violino?»

    «Apparteneva a una mia zia, la sorella minore di mia madre, che lo suonava da ragazza. Poi mia zia si è fatta suora, e il violino è rimasto in quel salone, inutilizzato. Non l’ho mai sentito suonare.»

    Dal tono di quest’ultima frase traspare un acuto rimpianto.

    Non posso fare a meno di collegare l’immagine del violino alla sensualità, e penso che probabilmente la zia suora, alla quale ero molto affezionato ma che non ha avuto una parte di grande rilievo nella mia vita, rappresenta l’assenza della sessualità, uno dei temi di fondo della mia attuale esistenza e forse la motivazione principale che mi ha spinto a intraprendere la terapia regressiva.

    «Che sensazioni le suscita questo violino? Era importante per lei?»

    La voce della terapeuta interrompe le mie divagazioni.

    Racconto che da bambino ero affascinato dal violino e dal pianoforte. Mi sarebbe piaciuto imparare a suonare uno strumento, ma i miei genitori non me ne avevano offerto la possibilità, senza motivi particolari, forse solo perché non avevo mai espresso chiaramente questo desiderio, che del resto era svanito molto presto. Mi sarebbe piaciuto anche diventare un danzatore. Spiego che la musica e la danza sono due arti che sento più collegate al corpo e all’inconscio, mentre la scrittura, che è diventato il mio mezzo espressivo di elezione, più facilmente cade sotto il controllo della mente razionale.

    A questo punto mi rendo conto che sto semplicemente parlando di me stesso, raccontando un pezzo della mia storia come potrei farlo con chiunque nel corso di una normale conversazione. Sono ormai del tutto sveglio e cosciente, e inizio ad irritarmi per le domande che la terapeuta continua a pormi con quel particolare tono di voce che presuppone un mio stato di trance che, se mai c’è stato, è definitivamente svanito. Per quanto mi riguarda il gioco è terminato. La terapeuta

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