Le avventure di zia alina
Di Natan Bates
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Info su questo ebook
Altre invece perdono completamente il loro calore se inizi a farlo.
Questa storia è un po’ emozionante solo perché provo a condividerla.
Nella realtà essa mi appare pressoché priva di slanci.
In un gran numero d’occasioni ho avuto questa sensazione, ed ogniqualvolta mi fosse chiesto di raccontarmi, già nel medesimo istante in cui tratteggiavo il mio universo, ero cosciente che esso sarebbe stato interessante poiché da me evocato.
Raccontandolo a voi, questo piccolo universo, spero assuma colore, almeno un
poco.
"Le avventure di zia Alina" è la semplice storia di una zia, dei suoi nipoti, del
richiamo alle origini insistente ed invadente. E' il desiderio di capire l´inizio di una
vita.
E‘ il bisogno di sognare giorni di riscossa, identificandoli come felici,
negando tuttavia a quelli già vissuti, la valenza di felicità.
"Le avventure di zia Alina" è soprattutto il tentativo di trasformare una latente e
perversa malinconia in qualcos’altro.
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Anteprima del libro
Le avventure di zia alina - Natan Bates
qualcos’altro.
CAPITOLO PRIMO
- Zia Alina 2005 –
Il mio nome è Alina e ho trentaquattro anni. Né tanti, né pochi. Per la precisione sono nata il 17 marzo, nel tardo pomeriggio, del 1971. Il mio peso era tre chili e ottocento grammi.
In famiglia c’era già un fratello maggiore - Roberto - ed una sorella maggiore - Martina - e qualche anno dopo ci sarebbe stato un fratello minore - Marco -.
Cronologicamente io sono la terza nata, la seconda delle figlie femmine. Quattro fratelli insomma, due maschi e due femmine, ed ovviamente mamma e papà. Una famiglia numerosa come tante altre.
Ho sempre vissuto in una vecchia casa distante pochi passi dalla spiaggia, di un paese non lontano da Venezia. Spiaggia molto frequentata in estate e romantica fuori stagione; essa è stata per trent’anni fonte di lavoro per Gaetano, mio padre, e successivamente anche per me e i miei fratelli.
Figlio di pescatore e pescatore a sua volta, mio padre Gaetano negli anni seppe trarre guadagno da un’attività parallela alla pesca, quella del noleggio imbarcazioni a pedali, i pedalò - o pattini o mosconi - di gran moda in Italia agli inizi degli anni ‘70.
Dopo trenta estati, tuttavia, egli fu costretto a cedere la licenza della concessione dei pedalò per la resa economica sempre più scarsa e per le spese di gestione sempre più elevate cui l’ingranaggio burocratico la sottometteva.
Mio padre Gaetano costatò amaramente che la moda dei pedalò era decaduta e mai più si sarebbe ripresentata.
Durante la bella stagione, il lavoro in spiaggia teneva unita tutta la nostra famiglia intorno a quel focolare immaginario rappresentato dall’ombrellone in riva al mare; nonché dal vecchio ed arrugginito tavolino d’appoggio, dal tabellone informativo con prezzi e regolamento, dalle numerose sedie a sdraio, l’una diversa dall’altra, ma ben note alle nostre vertebre.
E’ incredibile come una sedia a sdraio possa essere confortevole per taluni e scomoda per altri. Essa si plasma lentamente e si piega al nostro dorso diventando una cosa sola. Trovavo che quella di mia sorella Martina, ad esempio, fosse troppo tesa per il mio filo spinale e quella di mio fratello Marco, invece, ne fosse l’esatto contrario.
Per consuetudine nessuno occupava il posto altrui, non per generosità, ma per evitare mal di schiena gratuiti.
Il problema era esterno alla nostra buona norma, e si poneva puntualmente durante la fine della settimana quando, gli avventizi domenicali (in maggioranza parenti da parte di mia madre Matilde), si sistemavano asciugamani e borse vicino al nostro nido lavorativo, affrontando interi pomeriggi sotto al sole cocente.
Non essendo completamente abituati a quei roventi pomeriggi, i parenti di mia madre Matilde a metà pomeriggio, dopo aver fatto il bagno e la merenda, vagheggiavano per un po’ d’ombra e soprattutto per una comoda sedia a sdraio, atta ad affrontare l’ondata improvvisa di sonno tipica di quell’ora, dopo una bella nuotata e un sostanzioso spuntino.
Era in quei pomeriggi assolati che, le nostre sedie a sdraio, venivano sovvertite dalla loro dichiarata destinazione d’uso e venivano investite da corpi estranei, da pesi che non riconoscevano e posture che ne tracciavano altre.
Si creava, così, una promiscuità fra la mia sedia a sdraio, dal telo giallo a righe azzurre verticali, e le spalle di zia Chiara, sorella di mia madre Matilde.
Fra quella di mia sorella Martina, dal telo uguale al mio, e il fondoschiena di zio Piero, marito di zia Chiara.
Fra quella di mio fratello Marco, di cui non ricordo bene il colore e il dorso di zia Adele, altra sorella di mia madre Matilde.
Nessuno occupava mai il posto di mio padre Gaetano o quello di mio fratello Roberto, forse per rispetto.
Non bastava, tuttavia, la pennichella settimanale dei parenti di mia madre Matilde, per confondere gli antichissimi tracciati ossei dei teli delle nostre sedie a sdraio.
Non appena arrivava il mattino del lunedì, le nostre sedie a sdraio ci individuavano e ci accoglievano raggianti, come un fedele cagnolino al rientro del proprio padrone.
Solo una volta la mia sedia a sdraio ha faticato a riconoscermi, ma in quel caso era colpa mia. Mi ero ammalata