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Suspense
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E-book317 pagine4 ore

Suspense

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Info su questo ebook

«La suspense durerà per sempre», scrive introducendo il romanzo Richard Curle, l’amico fedele degli ultimi anni di Conrad, commentando l’appropriatezza e l’involontaria ironia del titolo. Non si riferisce alla suspense – che pure è presente in tutta l’opera – che gravava sull’Europa nell’imminenza dei “cento giorni”, ma a quella che alla fine del romanzo lascia ancora irrisolti i destini dei suoi personaggi.

Il principale, Cosmo Latham, è un giovane inglese che giunge a Genova nel corso del suo grand tour e rivede dopo anni la figlia di un nobile francese, conosciuta da bimba, ora sposata a un ricco e cinico parvenu. Nello scenario di intrighi e di complotti che era la Genova di quei giorni, nasce l’attrazione fra i due, ma gli eventi porteranno Cosmo a unirsi quasi senza volerlo a un gruppo di cospiratori sul punto di partire per una misteriosa missione.

Questa nuova traduzione curata da Francesco Francis fa parte degli ebook dei Dragomanni (www.dragomanni.it)

(Circa 480.000 caratteri )
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2013
ISBN9788867555277
Suspense
Autore

Joseph Conrad

Joseph Conrad (1857-1924) was a Polish-British writer, regarded as one of the greatest novelists in the English language. Though he was not fluent in English until the age of twenty, Conrad mastered the language and was known for his exceptional command of stylistic prose. Inspiring a reoccurring nautical setting, Conrad’s literary work was heavily influenced by his experience as a ship’s apprentice. Conrad’s style and practice of creating anti-heroic protagonists is admired and often imitated by other authors and artists, immortalizing his innovation and genius.

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    Anteprima del libro

    Suspense - Joseph Conrad

    testo

    Introduzione

    A questo romanzo di "political intrigue and human passion Conrad lavorò, con qualche interruzione, per quasi cinque anni, dall’estate del 1920 al giorno della morte. Doveva essere il suo romanzo mediterraneo, costruito intorno alla figura di Napoleone, e progettava di scriverlo fin dal 1907. Ma la crisi che lo portò alla morte lo colse quando la storia era ancora sospesa fra le tenebre e l’alba"¹.

    Nella sua introduzione al romanzo, rimasto quindi incompiuto alla morte dello scrittore, l’amico Richard Curle scrisse che proprio la sua incompletezza aggiunge spessore all’atmosfera di mistero che ne avvolge le pagine, e dona a questo importante frammento un senso di solennità maggiore di quello che avrebbe potuto trovarsi nella tersa bellezza di un’opera d’arte compiuta². Non sapremo mai cosa Conrad avesse in mente, ma quello che ci ha lasciato è forse il finale più adatto, il più coerente con il titolo e con l’atmosfera di incertezza e di mistero che pervade le pagine del romanzo.

    Può essere utile un breve cenno al contesto storico: siamo nel 1815, Napoleone è all’Elba e a Vienna sta per concludersi il Congresso. Genova, la città in cui si sviluppa la vicenda, era già stata annessa l’anno prima al Piemonte nonostante gli strenui tentativi dei suoi diplomatici per conservarle l’indipendenza. Questo aveva generato scontento in tutto il Genovesato. «Posso dirvelo io stesso, Monseigneur, cosa pensa quella gente», dice a un certo punto uno dei personaggi del romanzo. «Pensano che se non possono più essere genovesi come prima, preferiscono essere francesi piuttosto che piemontesi. Questo, monseigneur, è il sentimento generale, perfino fra le classi più elevate dei cittadini».

    Il non sopito desiderio d’indipendenza, la presenza di Napoleone all’Elba, le voci di complotti: tutto contribuiva a creare in città, come del resto in tutta l’area del Mediterraneo, un’atmosfera di sospensione, di attesa per qualcosa che poteva succedere, che sarebbe successa, e che si sentiva avrebbe avuto Napoleone come protagonista. In questo quadro si muovono i protagonisti di Suspense.

    Oltre che per l’efficace resa dell’atmosfera di attesa e di incertezza che incombe sulla città e per la sapiente rappresentazione di ambienti sociali e ritratti psicologici, il romanzo si fa apprezzare per la grande varietà dei personaggi. Alcuni sono storicamente esistiti. Quanto agli altri, procedendo nella vicenda il lettore sente che ciascuno di essi potrebbe riservare qualche sorpresa, rivelarsi altro da quello che sembra, e ciò aggiunge altra suspense a quella che, come una nube di confuse aspettative, già incombe sulla città.

    Il traduttore desidera ringraziare Roberta Scarabelli, che ha letto la prima stesura di questa traduzione e ha contribuito a migliorarla con preziosi suggerimenti.

    Fonti e fortuna critica del romanzo

    Ingiustamente ignorato dalla critica per molti anni, Suspense è certamente uno dei lavori meno noti di Conrad, e questo nonostante il romanzo sia molto più lungo di altri suoi lavori compiuti. Quanto al finale, come fa osservare Gene M. Moore, nonostante il romanzo sia incompiuto, esso è drammaturgicamente perfetto, e sembra davvero il finale del libro primo di un lavoro molto più lungo, la cui continuazione avrebbe richiesto una nuova cornice e l’aggiunta di nuovi personaggi³.

    All’amico Curle Conrad aveva confidato, pochi giorni prima della morte, di sentirsi pieno di energie, di essere impaziente di terminare il romanzo e di avere in mente cinque o sei diverse possibilità di evoluzione⁴.

    Nel 1925 la Saturday Review of Literature, che aveva pubblicato Suspense in dodici puntate, indisse un concorso a premio fra i lettori per il miglior progetto di conclusione del romanzo, e qualche anno più tardi Ford Madox Ford, che al concorso non aveva partecipato, pubblicò A Little Less Than Gods (1928) un vero e proprio sequel che riprende la storia interrotta di Conrad, facendolo precedere da una lettera che collega esplicitamente il suo romanzo a Suspense. La lettera lascia anche intendere che inizialmente quel romanzo doveva essere una collaborazione fra lui e un altro scrittore (Conrad), ma che poi, trascorsi anni, l’altro scrittore aveva scritto la storia da solo⁵.

    Suspense fu anche oggetto di polemiche al tempo della sua pubblicazione, questo perché Conrad fu accusato di avere attinto a piene mani all’opera di una certa Mme de Boigne (le cui Mémoires⁶ erano state pubblicate a Parigi nel 1907) per compensare un presunto declino delle sue capacità creative. In effetti, molti aspetti della trama di Suspense ricalcano quasi alla lettera quelli delle memorie di Mme de Boigne, ma in modo a volte talmente vistoso e scoperto (per esempio, la protagonista nelle Mémoires, Adèle d’Osmond, diventa Adèle d’Armand nel romanzo di Conrad) da far pensare che Conrad non avesse affatto intenzione di nascondere il suo debito verso Mme de Boigne e che, se avesse potuto terminare il romanzo, avrebbe probabilmente riconosciuto quel debito in una nota come già aveva fatto in altre occasioni, per esempio nell’introduzione a Nostromo.

    Lo stesso Marcel Proust, che aveva recensito le Mémoires di Mme de Boigne su Le Figaro, si era appropriato della contessa de Boigne per il personaggio di Madame de Villeparisis nella Recherche, e non si vede perché, come osservano Hans Van Marle e Gene M. Moore in un loro saggio su Suspense⁷, l’appropriazione di Proust non sia stata mai criticata, mentre quella di Conrad è stata attaccata fin dall’inizio, giudicandola un deplorevole segno di pigrizia, una conferma che lo scrittore era ormai al termine delle sue energie creative.

    Conrad, del resto, come osservato da Yves Hervouet nel suo saggio The French Face of Joseph Conrad⁸, si era servito di spunti offerti da altri autori lungo tutta la sua carriera di romanziere: basti pensare, per esempio, all’utilizzo di interi paragrafi tratti da Forte come la morte di Maupassant⁹ nel suo Vittoria.

    In Suspense, oltre alle Memorie citate, numerosi paralleli si possono trarre anche con il Ritratto di Signora di Henry James, autore molto amato da Conrad. Il ritratto della Adèle di Suspense deve molto al personaggio di Isabel Archer del capolavoro di James.

    Suspense

    Nota: tutte le parole in italiano nel testo originale sono evidenziate in corsivo.

    PARTE I

    I

    Un intenso bagliore cremisi accendeva le facciate di marmo dei palazzi aggrappati al pendio di una montagna brulla, i cui nudi contorni tracciavano, alti nel cielo che si scuriva, uno spettrale e baluginante profilo. Il sole invernale tramontava sul golfo di Genova. Dietro la costa possente, verso levante, il cielo era come un vetro che si oscurava. Anche il mare aperto aveva un’apparenza vetrosa, con uno sfolgorio di porpora dove la luce della sera si attardava come se si aggrappasse alle onde. Le vele delle rare feluche, immobili nell’oscurità crescente, erano di un colore rosato e allegro. Avevano tutte la prua rivolta verso la Città Superba. All’interno del lungo molo, in fondo al quale c’era una tozza torre rotonda, le acque del porto erano ormai nere. Una nave più grande, con le vele quadrate, fermata mentre usciva dal porto dall’improvvisa caduta del vento, fronteggiava il disco rosso del sole. La sua bandiera pendeva inerte e i colori non erano riconoscibili; ma un uomo, un tipo allampanato con un logoro giaccone da marinaio e uno strano berretto ornato da una nappa, appoggiato con le braccia alla culatta nera di un enorme cannone che con tre dei suoi mostruosi compagni era sulla piattaforma della torre, pareva non avere dubbi sulla sua nazionalità; perché alla domanda di un giovanotto in abiti civili, con soprabito e stivaletti alla tedesca e un viso dall’espressione fanciullesca e ingenua che sbucava dalle pieghe di un fazzoletto da collo bianco, rispose brusco, levandosi di bocca una corta pipa, ma senza voltarsi: «È dell’Elba».

    Rimise in bocca la pipa e mantenne un’aria scontrosa. Il giovane elegante dalla piacevole fisionomia, che era Cosmo, figlio di Sir Charles Latham, di Latham Hall, nello Yorkshire, ripeté sotto voce «... Dell’Elba», e rimase immerso nell’immobile contemplazione della nave abbonacciata, con il suo irriconoscibile vessillo.

    Fu solo quando il sole affondò nelle acque del Mediterraneo e l’indistinguibile bandiera fu ammainata sulla nave immobile, che il giovane si riscosse e girò lo sguardo verso il porto. Il più vicino oggetto di una qualche rilevanza era l’imponente sagoma di una nave da guerra inglese ancorata verso occidente, non lontana dal molo. La sua alta alberatura sovrastava i tetti delle case, e il vessillo inglese sul pennone era appena stato ammainato e sostituito con una lanterna, che pareva incongrua nel chiarore del crepuscolo. Le sagome delle navi che si affollavano in fondo al porto si confondevano le une con le altre. Cosmo lasciò vagare lo sguardo sulla piattaforma circolare della torre. L’uomo appoggiato al cannone continuava a fumare con indifferenza.

    «Siete il guardiano di questa torre?» chiese il giovane.

    L’altro lo guardò di sottecchi e rispose senza cambiare atteggiamento, come parlando a sé stesso: «Questo posto è incustodito, ormai. Le guerre sono finite».

    «Chiudono la porta da basso, di notte?» chiese ancora Cosmo.

    «Questa sì che è una informazione importante, specie per quelli come voi, per esempio, che hanno un letto soffice per passarci la notte.»

    Il giovane chinò la testa da un lato e guardò il suo interlocutore con un sorriso appena accennato. «Sembra che la cosa non vi preoccupi», disse poi. «Per cui non vedo perché dovrei preoccuparmene io. Finché siete tranquillo voi a star qui, mi sento sicuro. Vi ho seguito su per le scale, sapete.»

    L’uomo con la pipa si rizzò di colpo. «Mi avete seguito fin qui? Perché lo avete fatto, in nome di tutti i santi?»

    Il giovane rise, come a una buona battuta. «Perché camminavate davanti a me. Non c’era nessun altro in vista vicino al molo. Improvvisamente siete scomparso. Allora ho notato la porta aperta alla base della torre e ho salito le scale fino a questa piattaforma. E sarei stato davvero sorpreso se non vi ci avessi trovato.»

    L’uomo con lo strano berretto con la nappa si era tolta la pipa di bocca per ascoltare. «Tutto qui?»

    «Sì, tutto qui.»

    «Solo un inglese poteva farlo», commentò l’altro fra sé e sé, mentre un’ombra di apprensione gli passava sul viso. «Siete un popolo di eccentrici.»

    «Non vedo niente di eccentrico in quello che ho fatto. Volevo solo uscire dalla città. Il molo era un posto buono come un altro. Qui è molto piacevole.»

    Una leggera brezza sfiorò il viso dei due uomini, che rimasero a guardarsi in silenzio.

    «Sono solo un ozioso viaggiatore», continuò poi Cosmo con naturalezza. «Sono arrivato stamane per via di terra. E sono contento di avere avuto l’idea di venire qui ad ammirare la vostra città che si accende al tramonto, e di poter vedere una nave che viene dall’Elba. Non possono essercene molte. Ma voi, amico mio...»

    «Io ho tutto il diritto di star qui a oziare, come un qualsiasi viaggiatore inglese!» si affrettò a interromperlo l’uomo in tono irritato.

    «È davvero piacevole, quassù», ripeté il giovane viaggiatore guardando fisso il crepuscolo che aveva ormai invaso la piattaforma della torre.

    «Piacevole?» ripeté l’altro. «Sì, forse. L’ultima volta che sono stato qui avevo solo dieci anni. C’era una palla da cannone, piena e rotonda, che girava e sbatteva come impazzita su questo pavimento di pietra. Faceva uno sconquasso incredibile, sembrava una cosa viva, piena di furia.»

    «Una palla da cannone piena», esclamò Cosmo, esaminando le lisce lastre di pietra come aspettandosi di vedere le tracce di quella visita. «Da dove arrivava?»

    «Arrivava da un brigantino inglese della flotta di Lord Keith. Era piuttosto vicino e ha aperto il fuoco su di noi... Dio solo sa perché. La temerarietà della vostra gente! Un colpo solo di uno di questi signori», continuò battendo con la mano sulla gigantesca culatta del cannone al suo fianco, «sarebbe stato più che sufficiente per affondarlo come un sasso.»

    «Non ho difficoltà a crederlo. Ma l’audacia dei nostri marinai ha cessato da molto tempo di sorprendere il mondo», mormorò il giovane viaggiatore.

    «Di gente coraggiosa al mondo ce n’è tanta, ma la fortuna è meglio del coraggio. Quel brigantino è ripartito illeso. Sì, la fortuna è meglio del coraggio. Più sicura della saggezza, più forte della giustizia. Gran cosa, la fortuna. L’unica cosa che valga la pena di avere dalla propria parte. E voi ne avete sempre avuta. Sì, signore, voi appartenete a una nazione fortunata, altrimenti ora non sareste qui, su questa piattaforma, a guardare verso quella briciola di terra che è l’ultimo rifugio del vostro più gran nemico.»

    Cosmo si appoggiò al parapetto di pietra accanto alla feritoia del cannone, dall’altra parte del quale l’uomo con la corta pipa in mano fece un gesto vagamente enfatico.

    «Mi chiedo quali pensieri vi stiano passando per il capo» continuò in tono calmo, distaccato. «O forse siete ancora troppo giovane per averne, di pensieri in testa. Scusate la libertà che mi prendo, ma ho sempre sentito dire che con gli inglesi si può parlar chiaro; e, da come vi esprimete, non può esservi dubbio che siate di quella nazione.»

    «Posso solo assicurarvi che non sono pensieri di odio... Guardate, la nave dell’Elba si sta allontanando. O è solo l’oscurità che lo fa sembrare?»

    «L’aria notturna è pesante. Sull’acqua c’è più vento che non quassù dove siamo noi; ma non penso che si sia allontanata. Vi interessa quella nave dell’Elba, signore

    «Tutto ciò che riguarda quell’isola ha un certo fascino, oggi», ammise candidamente il viaggiatore. «Avete appena detto che sono troppo giovane per pensare. Voi non sembrate molto più vecchio di me. Mi chiedo quali siano i vostri, di pensieri.»

    «Sono i pensieri di un uomo comune; pensieri che non possono certo interessare un milord inglese», rispose l’altro in un cupo tono deprecatorio.

    «Pensate che tutti gli inglesi siano dei lord?» chiese Cosmo con una risata.

    «Non penso niente. Mi sono basato sul vostro aspetto. Ricordo di aver sentito una volta da un vecchio che siete una nazione di gentiluomini.»

    «Davvero!» esclamò il giovane, e rise ancora in una nota bassa, piacevole. «Io ricordo di aver sentito un vecchio definirci una nazione di mercanti.»

    «Nazione di mercanti», ripeté l’uomo lentamente. «Bene, può essere vero anche questo. Uomini diversi, saggezze diverse.»

    «A questa non avevo pensato», disse Cosmo saltando a sedere sul parapetto di pietra della torre. Poggiò un piede sul massiccio affusto del cannone e fissò lo sguardo limpido sulla striscia rosso-scura lasciata dal sole calante sul cielo verso occidente, simile a un lungo sfregio inferto al corpo sofferente dell’universo... «Uomini diversi, saggezze diverse», ripeté, assorto. «Penso che sia proprio così. Le vite delle persone sono così diverse... E di che tipo era la saggezza del vostro vecchio?»

    «La saggezza di una grande pianura, piatta quasi quanto il mare», rispose l’altro gravemente. «La sua voce mi aveva colto di sorpresa quando la sentii, come la vostra, signore. Le ombre della sera mi avevano avvolto subito dopo aver visto verso occidente, al bordo estremo del mondo, per così dire, un giaguaro mancare il suo attacco a un cervo in pieno balzo. Erano poi corsi via verso il bagliore del tramonto ed erano scomparsi entrambi. Come se li avessi sognati. Quando mi girai c’era quel vecchio dietro di me, non più lontano della metà di questa piattaforma. Quando vide la mia espressione sorpresa si limitò a sorridere. I suoi lunghi capelli d’argento erano mossi dalla brezza. Era rimasto a osservarmi, pare, per quasi mezza giornata da anfratti del terreno e dal folto dei canneti, chiedendosi che cosa mai stessi facendo. Io ero sceso a terra per camminare nella pianura. A me piace stare da solo, ogni tanto. La mia nave era ancorata in un’insenatura di quella costa deserta, lontana parecchie miglia, troppe perché uno straniero come me potesse tornarci a piedi col buio. Così passai la notte a casa del vecchio, una capanna d’erba e di canne accanto a un piccolo stagno popolato da un’infinità di uccelli. Mi trattò come se fossi suo figlio. Parlammo fino all’alba, e quando il sole si alzò non tornai alla mia nave. Ciò che di mio avevo a bordo non aveva gran valore e sulla nave non c’era certo nessuno che mi chiamasse Figlio mio con quel tono particolare... Capite cosa intendo dire, signore

    «Non lo so... ma credo di poterlo immaginare», fu la risposta, la cui franchezza, allegra e seria al tempo stesso, suonò singolarmente fanciullesca e strappò un sorriso all’uomo più maturo, che ora, calmo, aveva sul viso un’espressione grave. Dopo una pausa l’inglese continuò: «Avete abbandonato la vostra nave per vivere in un deserto con un eremita, solo perché il tono della sua voce vi aveva preso il cuore? È questo che intendete?».

    «Avete indovinato, signorino. Forse c’era anche qualcos’altro, ma quel che è certo è che ho abbandonato la nave».

    «E dove è successo?»

    «Lungo la costa del Sudamerica», rispose l’uomo dall’altro lato del cannone con un tono improvvisamente brusco. «Bene, ora però è venuto il momento di separarci.»

    Ma nessuno dei due si mosse, e per qualche tempo rimasero in silenzio. Ciascuno diventava per l’altro un’ombra sempre più indistinta su quella torre massiccia, essa stessa un’ombra grigia nella notte che avanzava su quel mare scuro e fermo.

    «Quanto tempo siete rimasto nel deserto con l’eremita?» chiese Cosmo. «E come mai lo avete lasciato?»

    «È stato lui a lasciare me, signore. Dopo aver seppellito il suo corpo, non avevo più niente da fare in quel posto. Ma avevo imparato molto in quell’anno.»

    «Cosa avevate imparato, amico mio? Mi piacerebbe saperlo.»

    «La sua saggezza, signore, non era come quella degli altri uomini, e qui su questa torre e a quest’ora tarda sarebbe troppo lungo spiegarvelo. Come essere paziente, per esempio... Non pensate, signore, che alla locanda i vostri amici e i servitori saranno in pensiero per la vostra assenza?»

    «Vi ripeto che sono in questa città da non più di due ore e che non ho parlato con nessuno finché non ho incontrato voi, salvo, naturalmente, la gente della locanda.»

    «Potrebbero cominciare a cercarvi.»

    «Perché dovrebbero prendersi il disturbo? Non è ancora tardi. E perché poi dovrebbero aver notato la mia assenza?»

    «Perché?... Semplicemente perché a quest’ora la vostra cena sarà pronta», ribatté l’uomo con impazienza.

    «Può essere, ma non ho ancora fame» rispose noncurante il giovane. «Lasciate che mi cerchino per tutta la città, se ne hanno voglia.» Poi in tono di interesse, chiese: «Pensate che verrebbero a cercarmi qui?» chiese.

    «No. Questo è l’ultimo posto al quale penserebbero», borbottò l’altro come parlando a sé stesso. Poi alzò decisamente la voce. «Comunque, ripeto, ora dobbiamo separarci. Buonanotte, signore

    «Buonanotte.»

    L’uomo col giaccone da marinaio lo guardò fisso per un momento, poi con un movimento brusco spinse il berretto con la strana nappa più di lato sulla testa. «Io di qui non me ne vado» disse.

    «Pensavo che voleste andarvene. Perché, allora, mi avete dato la buonanotte?»

    «Perché dobbiamo separarci.»

    «Penso proprio che lo faremo, prima o poi» concordò Cosmo in tono amichevole. «Vorrei rivedervi ancora.»

    «Dobbiamo separarci subito, in questo momento, su questa torre.»

    «Perché?»

    «Perché voglio restare solo», rispose l’altro dopo una pausa appena avvertibile.

    «Oh, andiamo! Perché diavolo vorreste restare solo? Cosa mai potreste fare, qui?» protestò l’altro giovialmente. Poi, come colpito da un pensiero divertente, continuò in tono leggero: «A meno che, e perché no, non vogliate esercitarvi in qualche magia, e forse chiamare il Maligno al vostro fianco.» Fece una pausa. «C’è gente, sapete, che pensa sia possibile» aggiunse in tono canzonatorio.

    «Non si sbagliano poi di troppo», fu l’inquietante risposta dell’altro. «Ciascuno di noi ha un demone accanto a sé. Ma ora basta con le discussioni, signore, non fate venir fuori il mio, di demone! Vi conviene non dire altro e andarvene di qui in santa pace.»

    Il giovane viaggiatore non modificò il suo atteggiamento noncurante. L’uomo col berretto lo udì dire quietamente, come se stesse meditando: «Preferisco restare in santa pace qui».

    C’era davvero una pace meravigliosa. Il suono delle loro voci sommesse non sembrava minimamente alterarla. Aveva una sua enorme, schiacciante grandiosità che sembrava – questa era l’impressione dell’uomo col berretto – volersi schierare con la calma ostinazione dell’inglese e contro la sua crescente irritazione. Non poté trattenere un impulsivo gesto di minaccia in direzione di quel compagno esasperante, ma il gesto si spense da solo trasformandosi in imbarazzo. Spinse ancor di più di lato il berretto e si grattò semplicemente la testa.

    «Siete uno di quelli abituati ad averla sempre vinta. Bene, questa volta non ci riuscirete. Vi ho chiesto con le buone di lasciarmi solo su questa torre. Ve l’ho chiesto da uomo a uomo. Ma se non volete essere ragionevole io...»

    Poggiando la palma delle mani sul bordo del parapetto, Cosmo saltò con leggerezza al centro della piattaforma e atterrò senza vacillare. La sua voce era perfettamente tranquilla. «La mia sola guida è la ragione», dichiarò. «E la vostra richiesta mi sembra solo un capriccio. Cosa diavolo potreste fare, qui? Gli uccelli marini sono andati a dormire, ormai, e io ho lo stesso diritto che avete voi di stare quassù a godermi l’aria fresca. Per cui...»

    Un pensiero improvviso sembrò colpirlo.

    «Non ditemi che avete un appuntamento», commentò in un tono diverso, nel quale affiorava una certa simpatia. Ma fu bloccato dalla risata breve, sprezzante dell’altro, e mormorò fra sé e sé riflettendo: «No, no. Non è adatto come posto... con tutti questi sinistri cannoni». Alzò la voce. «Quello che posso fare è lasciare a voi tutto lo spazio.» Indietreggiò dal centro della piattaforma e si appoggiò questa volta alla poderosa culatta di un pezzo da sessanta. «Avanti con le vostre magie», disse poi, rivolto alla sagoma alta e indistinta, la cui immobilità apparve per un momento indifesa.

    L’uomo allora ruppe il breve silenzio e disse, soppesando bene le parole: «Penso che vi sarete reso conto che in ogni momento, da quando abbiamo cominciato a parlare e voi eravate seduto su quel parapetto, avrei potuto saltarvi addosso di sorpresa e scaraventarvi giù da questa torre?». Fece una pausa, poi in un tono più grave aggiunse: «Potete negarlo?».

    «No, non lo nego», fu la risposta noncurante. «Non pensavo neppure a stare in guardia. Comunque so nuotare.»

    «Non sapete che qui sotto c’è una barriera di grossi blocchi di pietra? Sarebbe stata una morte orribile... E adesso il signore farà quello che gli chiedo e se ne tornerà alla sua locanda, che è un posto molto più sicuro di questa piattaforma?»

    «La sicurezza non è poi un grande incentivo; e comunque non credo che abbiate mai, neppure per un attimo, pensato di attaccarmi a tradimento.»

    «Bene», ammise con riluttanza l’alta ombra indistinta coronata dalla sagoma dello strano berretto. «D’accordo, se la mettete così, signore, non ci ho pensato.»

    «Vedete! Credo che siate una brava persona. Per cui, stando così le cose, non vedo perché dovrei darvi retta.»

    «Siete furbo, voi», sbottò l’uomo con violenza. «Ce l’avete nel sangue. Come si fa a discutere con gente come voi?»

    «Potete sempre provare a cacciarmi via», suggerì l’altro.

    Non vi fu risposta per un certo tempo, poi la figura più alta mormorò fra sé e sé, riflettendo: «In fin dei conti... è un inglese».

    «Non penso di essere invincibile per questo», osservò Cosmo con calma.

    «Lo so. Ho combattuto contro soldati inglesi a Buenos Ayres. Pensavo solo, per riconoscere i giusti meriti, che gli uomini della vostra nazione non sono soliti associarsi con le spie, né amano i tiranni... Ditemi, è vero che siete in questa città solo da due ore?»

    «Verissimo.»

    «... e però non c’è tiranno in questo mondo che non sia vostro alleato», continuò l’ombra indistinta dell’uomo, seguendo a mezza voce il corso dei suoi pensieri.

    Pacatamente, il viaggiatore, non meno indistinto nella notte che si addensava fece osservare: «Non potete sapere chi siano i miei amici».

    «E infatti non lo so, ma non vi vedo a fare spiate agli agenti austriaci, né a frequentare gli sbirri piemontesi. Quanto ai preti, che ficcano il naso dappertutto, io...»

    «Non conosco un’anima, in Italia», lo interruppe l’altro.

    «Ma ne conoscerete ben presto. Persone come voi fanno amicizie dappertutto. E quello che temo

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