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Cuori Sotto Tiro
Cuori Sotto Tiro
Cuori Sotto Tiro
E-book282 pagine2 ore

Cuori Sotto Tiro

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Info su questo ebook

Jenny è una bella e giovane imprenditrice. Il suo bisogno di indipendenza la rende una ragazza forte, ma l’innata diffidenza le crea qualche problema con gli altri. Poi un giorno incontra l’amore. Più che un incontro, uno scontro. Un frontale, proprio. Per lei tutto cambia, anche perché il suo cuore non sarà l’unico bersaglio di Eros…
Le indagini di polizia su alcuni loschi eventi che rallentano la costruzione di un nuovo grande albergo in città, le stravolgeranno ancor di più la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2014
ISBN9786050328455
Cuori Sotto Tiro

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    Anteprima del libro

    Cuori Sotto Tiro - Antonio Scotto Di Carlo

    1. My Way

    Meches scure ai suoi capelli biondi lunghi e mossi. Ecco ciò che voleva Jenny.

    A quest’ora, di clienti non ne dovrei trovare.

    Ci pensava da qualche settimana, ma per un motivo o per un altro, non aveva ancora apportato questo cambiamento al suo look. Ora, invece, si sentiva ispirata come succede nei giorni speciali.

    Questo il suo stato d’animo, probabilmente dovuto alla telefonata del giorno prima al signor Marzarotti…

    Uscendo di casa, in blue jeans e camicetta rosa, una fresca brezza le accarezzò il bel viso. Alzò gli occhi al cielo: un lenzuolo azzurro a tinta unica era il soffitto di quella soleggiata mattina di luglio.

    A trent’anni, Jenny era una donna d’affari di successo, con un corpo mozzafiato di cui andava fiera. Riuscendo a seguire un’alimentazione sana anche perché era quasi immune alla golosità, e andando in palestra due volte a settimana per i corsi di aerobica, era poco meno di due chili al di sopra del peso forma. In passato si era liberata di questo superfluo, ma il verdetto dello specchio l’aveva delusa. Ci aveva guadagnato in atletismo, ma perso in femminilità. Le curve che facevano del suo tracciato la quintessenza del brivido si erano attenuate, trasformandolo in un comune circuito. Aveva dunque rimesso chili e curve al loro posto, tornando a essere uno schianto di sensualità.

    Quando arrivò dal parrucchiere, l’aiutante stava ancora spazzando la sala. Avevano appena aperto.

    Mentre aspettava che fossero pronti per lei, prese il cellulare.

    «Jenny, buongiorno.»

    «Ciao, Marti. Senti, ti volevo avvisare che arrivo verso le dieci.»

    «Come mai? Tutto bene?»

    «Sì, non ti preoccupare. Capirai quando mi vedrai.»

    «Fai sempre la misteriosa tu, eh?»

    Jenny rise.

    «Okay. Fai le tue cose. Io intanto finisco di lavare le vetrine.»

    «Allora a dopo, Marti.»

    «Ciao.»

    Alle dieci e un quarto, entusiasta della nuova acconciatura, Jenny lasciò il salone. Direzione, lo Youth – così aveva battezzato il negozio di abbigliamento per giovani di cui era titolare.

    Si trattava di cinque minuti di cammino per il centro storico della cittadina turistica dove viveva. Nulla di nuovo, anche se non faceva spessissimo quel vicoletto, essendo dalla parte opposta rispetto al piccolo appartamento in cui abitava da quasi sette anni.

    I vecchi palazzi che costeggiavano quella stradina, così come il tappeto in lastricato, serbavano nell’aria quel sapore di antico. Jenny amava passeggiarci quando capitava. Amava seguire e scansare, a seconda delle loro direzioni, i branchi di turisti che si muovevano come il più disordinato dei greggi. Donne che si fermavano su stock di borse o pashmine, uomini a scegliere una cintura per i pantaloni o stufi ad aspettare che le compagne si decidessero, altri che vagavano incantati nei negozi di ceramiche alla ricerca di souvenir, commessi intenti a sistemare le merci sugli espositori o a trattare coi clienti, tutto in un caratteristico zibaldone di voci e rumori. Fu per questo che il suono di un violino riuscì facilmente a filtrare fino alle sue orecchie.

    E il passo dalle orecchie al cuore fu istantaneo.

    Un suono celestiale che pigmentò di brividi la sua pelle chiara.

    «My way» mormorò, ammaliata.

    L’aveva riconosciuta subito. Adorava quella canzone. Non tanto per la voce di Sinatra o per il testo. Era proprio la melodia. Quelle quattro note danzavano da un accordo all’altro con la leggerezza e la leggiadria delle ballerine classiche, mantenendo la complicata semplicità di un petalo in balia del vento. Poi, senza preavviso, puntavano il cuore e lo schiantavano.

    Jenny non sentiva più niente. Solo il violino, quella voce soave che, zittiti tutti e tutto, la convocava.

    Ipnotizzata di meraviglia, si lasciò attirare.

    Man mano che si avvicinava, l’emozione prodotta da quelle note le rammentava quanto dolce potesse essere il sapore di una lacrima di gioia.

    Passo dopo passo, teneva gli occhi puntati nella direzione da cui pareva provenire quel richiamo divino.

    Tra le schiene e le facce di passanti incomprensibilmente indifferenti, a ridosso del muro tra una tabaccheria e una gelateria, sbucò alla sua vista la sagoma di un uomo. Alto e biondo, qualche capello bianco, calzoncini bermuda, polo blu e una pancia a mappamondo, era lui che stava suonando il violino. Un sottofondo orchestrale che veniva fuori da due piccole casse, accanto alla custodia aperta ai suoi piedi con dentro alcune monete, lo accompagnava nella sua performance da solista.

    Jenny si era fermata ad ascoltarlo, ma solo pochi secondi dopo realizzò di non essere la sola. Con la coda dell’occhio scorgeva una figura quattro o cinque metri alla sua destra, anch’essa statica e rivolta verso l’artista di strada.

    Sogguardò con un fugace movimento delle iridi. Adone era evaso dal mito per materializzarsi accanto a lei.

    Un tonfo interiore. Il cuore iniziò a palpitare in maniera assurda.

    Dipendeva dalla canzone o da quanto affascinante fosse quell’uomo? Forse la musica stava amplificando lo stordimento che le aveva provocato il vederlo.

    Stava lì, imbambolata. Controllare il respiro, un’impresa.

    Anche lui era immobile. Lo percepiva così, sullo sfondo del viavai di gente intorno a loro.

    Bramava di guardarlo un’altra volta, ma temeva di incocciare nel suo sguardo. Temeva? Perché lo temeva?

    Mosse rapida e furtiva gli occhi.

    Lui era concentrato sull’artista. Sulla trentina, fisico asciutto, in pantaloni scuri e camicia bianca a maniche lunghe – curioso, visto il gran caldo – aveva una mano in tasca e l’altra a reggere per il colletto la giacca che gli scivolava oltre la spalla fin sulle reni.

    Lo stava fissando. Decisamente. E magari lui se n’era pure accorto. Forse fingeva di essere interessato alla canzone.

    Badando a muovere la testa il meno possibile per non attirare la sua attenzione, tornò sull’artista.

    La voce angelica dello strumento continuava a cantare l’amore nella sua lingua universale. Quelle note malinconiche disegnavano il viso glabro dell’uomo nella sua mente. I capelli castano chiaro, corti e scompigliati ad arte, facevano pensare a un tipo ribelle. Gli zigomi, poco accentuati, conferivano alla sua espressione seria una gran dose di sicurezza.

    Che tortura quella musica! Seguitava a sedurla per indurla a dissetare di nuovo gli occhi aridi di quell’immagine afrodisiaca.

    Sbirciò.

    I lineamenti del suo viso parevano esser stati tratteggiati da un Caravaggio che ambiva a stregare qualunque donna lo avesse guardato. E gli occhi… quelli li vide bene. Infatti, li aveva appena mossi verso di lei.

    Il contatto diretto con quel verde granito su manti di neve la gelò di beatitudine.

    Le sorrise. Un sorriso gentile. Lei ricambiò, come il simultaneo contrappunto dell’oboe al violino.

    I loro sguardi si stavano baciando sulla struggente frase musicale prima del refrain.

    Jenny fremeva. Dovette interrompere. Si aggrappò di nuovo all’artista. I brividi che le scorticavano la schiena esigevano che lacrimasse.

    Che sto facendo? Perché non me ne vado da qui?

    Il violino era tornato a sussurrare in modo nostalgico la bellezza di quella melodia.

    Immobile da un minuto, eppure ansimava come avesse appena corso.

    Il suo sguardo, perso. Rivedeva ancora e ancora quell’uomo con gli occhi della mente. I primi bottoni aperti della camicia svelavano una catenina d’oro e qualche traccia liscia e definita dei pettorali. Doveva essere un metro e ottanta. Forse non ci arrivava, ma per pochissimo.

    La foto mnemonica andava sbiadendo e un cambio di accordo, subito assecondato dal violino, la spinse a guardarlo ancora. Beccato! Non era stato tempestivo a reindirizzare gli occhi sull’artista. Temendo di essere a sua volta pizzicata a rubare fotogrammi del suo volto, tornò anche lei sull’artista.

    La nota finale la svegliò. I rumori della strada dissolsero gli ultimi echi di magia.

    Cercò nel suo borsellino, ottimo diversivo per dissimulare lo sconvolgimento interiore. E poi, doveva premiare quell’artista per l’impagabile emozione che le aveva donato.

    Trovò tre euro e fece quei due passi che la separavano dalla custodia. Si chinò. Nello stesso istante l’uomo si accostò anche lui. Lei lasciò cadere dentro le monete e si rialzò, ma non poté non notare che lui aveva in mano un biglietto da cinque.

    «Crazie mille, zignora» disse l’artista, felice.

    Lei gli sorrise, ma era rimasta a fissare la mano dell’uomo.

    Potevo metterne cinque anch’io! Che figura.

    Lui, con la giacca ripiegata sull’avambraccio, sedette sui talloni. Indugiava con la banconota in mano.

    Lei provava un principio di vergogna. E un po’ di rabbia.

    Lui si girò all’improvviso e le rivolse un sorriso colmo di dolcezza. Tornò alla custodia.

    Lo vide adagiare lì dentro il biglietto da cinque, prendere una moneta da due euro e alzare gli occhi verso l’artista.

    «Posso?» gli domandò, mostrandogliela – tra le diverse che c’erano nella custodia, aveva scelto proprio quella appartenuta a lei.

    «Zì, zignore. Crazie mille.»

    La strinse nel pugno e si risollevò.

    Aveva pronunciato una parola soltanto, ma era bastata affinché quella voce calda e profonda le timbrasse il cuore.

    Era a un passo. Con gli occhi gli arrivava al mento segnato da una fossetta solo a questa distanza percettibile. Odorava di colonia. Il profumo le s’infiltrò su per il naso e attaccò i suoi sensi dall’interno, mentre, dall’esterno, lui la guardava con lo stesso disarmante sorriso di poco prima. Un assedio.

    Stavolta non riuscì a ricambiare il sorriso. Non poté. Anzi, s’incamminò.

    My way continuava a suonare nella sua testa attraverso il sublime sibilo del violino. Sapeva perché si stava allontanando in maniera così scortese. L’eco silenziosa della canzone inchiodò l’intento e la fece lacrimare sul serio.

    Posso?

    Avrebbe voluto voltarsi indietro per scoprire se lui la stesse seguendo. Almeno con lo sguardo.

    E se fosse così? No. Meglio dimenticare.

    Questo verbo trasformò le semplici lacrime in pianto vero. Il sapore era acre. Quello della recriminazione.

    Posso?

    Non stava proseguendo del suo passo. Se ne accorgeva. Andava più veloce. Voleva distanziarsi quanto prima da un sogno che non sarebbe potuto essere. E più pensava in questo modo, più i suoi occhi versavano tristezza.

    No, Jenny. È solo la canzone. È solo quella cazzo di canzone. Dai! Tra due ore sarà tutto passato e manco ti rico…

    Non poté concludere il pensiero. Dei singhiozzi glielo impedirono.

    2. Me la dai?

    «Due contadini chiacchierano appoggiati a una staccionata. Un terzo contadino passa davanti a loro tirando una corda a cui è legata la sua mucca. Il primo contadino gli fa Ehi! Gran bella mucca. Grazie risponde quello, lusingato. Me la dai? gli chiede. Il terzo contadino fa una smorfia e si allontana senza rispondergli. Allora il secondo contadino si rivolge al primo: E tu, credevi veramente che ti avrebbe dato la sua mucca? No. Ma se me la dava?»

    «E con questa storiella, che vuoi dire?» s’incuriosì Martina.

    «Aspetta che arrivi Marzarotti e vedrai» disse Jenny, sforzandosi di zittire My Way nella sua testa e concentrandosi sull’imminente appuntamento.

    «Sta venendo qui?»

    «A-ah.»

    «Allora la barzelletta ha a che fare con quello?» chiese Martina, indicando il soffitto – sopra al negozio c’era un monolocale di cui Marzarotti era il proprietario.

    «E brava la cuginetta» sorrise Jenny. «Ho un grande piano in proposito.»

    Se da una parte l’ubicazione del negozio garantiva alle sue vetrine un larghissimo flusso di passanti, dall’altra costituiva un problema per lo stoccaggio delle merci. Rimpinzare quei trenta metri quadri di articoli era escluso: avrebbe dato ai clienti un senso d’oppressione. Si sarebbero sentiti asfissiati là dentro, tenendo anche conto dei soli tre metri di altezza. Invece, un ambiente gradevole e ‘arioso’ li avrebbe attirati, invogliati a curiosare e, perché no, messi del giusto umore per fare dello shopping.

    Per tali ragioni, lo Youth doveva prima di tutto essere un luogo accogliente. Il sistema di illuminazione a incasso, oltre a valorizzare le qualità degli indumenti in vendita, garantiva una luminosità che il condizionatore non rendeva molesta. I due tavoli su cui venivano esposte magliette, camicie e polo ripiegate in pile ordinate, erano disposti in modo da lasciare abbastanza spazio per girare comodamente nel negozio; mentre gli espositori con giacche, jeans e altri capi appesi alle grucce, fungevano in pratica da variopinte pareti mobili. In più, aveva sempre la radio in sottofondo, una stazione che trasmetteva solo musica pop e rock.

    «Non ci credo» s’entusiasmò Martina. «Non mi dire che stai pensando di affittare il monolocale!»

    «Più o meno.»

    «Quindi niente più avanti e indietro?»

    «A-ah. Non potrei farlo un giorno di più.»

    Per risolvere il problema dello stoccaggio, Jenny usava il garage di suo padre come magazzino. Ma era una soluzione tutt’altro che comoda.

    I suoi genitori abitavano nel paese vicino, a cinque chilometri. I fornitori depositavano lì le merci e lei doveva fare la spola ogni volta per rifornire il negozio: andare dai suoi, aprire il garage, caricare in macchina i capi che le occorrevano, guidare fino alle porte del centro, parcheggiare – era zona pedonale – riempire il carrellino e spingerlo fino allo Youth. Questa routine andava avanti da quattro anni e aveva sfiancato sia lei che Martina, la quale se ne occupava quando Jenny era troppo stanca.

    A volte era tentata dall’idea di sfruttare meglio lo spazio del negozio, ma non se la sentiva di sacrificare la bellezza della sua ‘creatura’ per mera comodità. Lo trovava delittuoso, oltre che dannoso per gli affari.

    «Allora hai saldato con tuo padre?» le domandò Martina.

    «Ci siamo quasi» rispose Jenny, con l’orgoglio che le brillava negli occhi.

    Mantenere la propria indipendenza era vitale per lei. Ecco perché non aveva mai affittato un magazzino sino ad allora…

    Il suo primissimo piano era stato di rivolgersi a una banca, poiché coi propri fondi bancari copriva solo due terzi della somma necessaria per acquistare il negozio. Avrebbe usato il negozio stesso a garanzia per il mutuo.

    Perché vuoi buttare via tanti soldi in interessi? si era infuriato il padre. Fammi essere la tua banca. Mi restituirai a rate fino all’ultimo centesimo, ma con calma e a tasso zero.

    Lei non avrebbe voluto. Detestava sentirsi in debito. Il suo bisogno di indipendenza le aveva fatto giurare che non si sarebbe mai appoggiata a nessuno. E qual era il primo mattone della sua attività? ‘Papi, ce lo metti tu il resto per comprare il negozio?’. Intollerabile. Tuttavia, la possibilità di risparmiare gli interessi si era rivelata una buona argomentazione – gran cosa l’idealismo, ma stringendo stringendo…

    Non lasciare che il tuo legittimo orgoglio si tramuti in superbia l’aveva infine convinta sua madre.

    Gli affari erano partiti alla grande, e non ritrovarsi il cappio del mutuo intorno al collo l’aveva aiutata a respirare meglio. Quando il volume d’affari si era incrementato, il retro del negozio era risultato inadeguato per lo stoccaggio della merce. Aveva bisogno di più spazio, ma affittando un locale apposta, avrebbe dovuto ridurre l’ammontare delle rate mensili che versava al padre. Ciò significava diluire nel tempo la sgradevole sensazione di essere stata aiutata, quando lei non vedeva l’ora di sbarazzarsene. L’utilizzo del garage le permetteva dunque di risolvere il problema di stoccaggio e, al contempo, di usare il maggior guadagno per saldare più in fretta il debito.

    «Perché continui a fissarmi?» fece Jenny, lusingata dall’espressione ammirata di Martina.

    «Sei così diversa con questa nuova acconciatura. Voglio dire, stai benissimo. Sei favolosa! Solo che… ti riconosco a malapena.»

    «Intendi che prima facevo schifo?»

    «No, che c’entra.»

    «Ahah. Era una battuta. Credo ci debba solo fare l’occhio.»

    «Probabile. Comunque, cara cugina, devo dire che sono sbalordita. Sei una donna straordinaria. Veramente! Spero che alla tua età avrò creato anch’io qualcosa di mio.»

    «Grazie, Marti. Ma sai che senza il tuo aiuto non ci sarei mai riuscita.»

    «Sei carina a dirlo, ma sappiamo che io non ho fatto niente.»

    «Scherzi? Quando arrivasti, fu un sollievo esagerato per me» esclamò Jenny, seria. «Ancora lo ricordo lo stress dei miei primi mesi. Passavo tutto il tempo qua dentro. E quando finalmente la sera chiudevo, dopo aver rifornito il negozio per il giorno dopo… beh, dormire restava la mia unica aspirazione.»

    «Sì, me lo dicevi spesso che stavi perdendo il controllo della tua vita.»

    «Infatti. Voglio diventare una donna d’affari di successo, ma non a quel prezzo.»

    Jenny ripensò a quei giorni, a quanto stressante era stato prendere la decisione…

    Era consapevole che la sua connaturata diffidenza rappresentasse un problema grosso – più grosso di quanto non ammettesse, poiché se tutti odiano essere presi in giro, a lei bastava sentirsi a quel modo per mettere sotto inchiesta il prossimo.

    Quando sospettava di qualcuno, uno strano meccanismo si azionava dentro di lei. Perdeva naturalezza. Il dubbio inquinava tutte le azioni dell’imputato di turno. Passate e presenti. E se il dubbio persisteva anche dopo ‘indagini segrete’, non aveva remore a confrontarsi direttamente con l’interessato.

    Agiva così per dimostrare al potenziale ingannatore di non essere una tonta. Non sopportava l’idea che qualcuno la pensasse tale: che l’inganno fosse reale o meno passava in

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