Il dio sordo - 10 Estratti: Biografia Romanzata di Ludwig van Beethoven
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Il dio sordo
La Musica è il destriero cavalcato dall'Anima per viaggiare nel Tempo. L'anima di un giovane del XXI secolo viene risucchiata indietro nel Tempo dall'irresistibile potere della Musica, finendo nel corpo di un coetaneo della Vienna del 1808. Qui il protagonista assiste al leggendario concerto in cui Beethoven presenta la sua Quinta, entrando poi nelle sue grazie fino a diventare il suo servitore. Attraverso di lui, sullo sfondo storico fine-epoca-napoleonica/Restaurazione, viviamo le vicende di Beethoven: l'amore segreto, una donna che ha rapito il suo cuore ma che è ella stessa prigioniera di convenzioni e legami familiari; la passione per la Musica, dall’ispirazione che egli trova nella sua cara Natura, allo scrittoio dove forgia melodie e orchestrazioni, ai teatri dove a volte viene acclamato e altre deve fronteggiare la perplessità di un pubblico disorientato da una musica troppo precorritrice; l'inesorabile decorso della malattia, con improvvise speranze di guarigione e puntuali delusioni, fino alla struggente rassegnazione; i travagliati rapporti con la famiglia, tra gli attriti coi fratelli, l’odio “immotivato” per la cognata e l’amore incondizionato per il nipote, passando attraverso faide private e legali; e infine le sue paure di uomo, l’impotenza di fronte al Destino, la voglia di combatterlo e la speranza di vincerlo.
I lettori:
“Credo che nessuno di noi che abbiamo acquistato e letto il libro, ascolterà un brano di Beethoven come lo ascoltava prima. Ora ci verranno in mente le inquietudini del maestro, le sue emozioni...
“Bello fino alle lacrime, capace di irretirti, di rendere ore di lettura apparentemente minuti. I dialoghi poi... i dialoghi sono un capolavoro di precisione, magnifici.”
“Stupendo! E' come se Proust incontrasse Beethoven”
"Romanzo epico e solenne, come l'esistenza e la persona che ne sono indiscusse e superbe protagoniste"
"Più che la degna conclusione del viaggio intrapreso nel "Dio Sordo - Mia immortale amata" oserei chiamare questo libro la sublimazione dell'opera stessa"
"Cosa non si è inventato questo autore per renderci vicini il tempo e il mondo di Beethoven!"
"L'unica pecca è che al termine vi mancheranno tremendamente quelle pagine e tutti i personaggi"
"Beethoven non poteva trovarsi in mani migliori! Beethoven, il grande, Beethoven il genio, è diventato anche il "mio Beethoven"
"le emozioni che ho avuto sono state talmente forti che..solo ora sono riuscito a scrivere uno straccio di recensione. Scusatemi e grazie"
"I preparativi, le prove, l'esecuzione, l'esito: tutto torna e si confà alla perfezione ad un'anima come quella beethoveniana, "grande e infelice", come nobilmente la intendeva Leopardi."
"Sono un professionista della musica, concertista con molti anni di attività e nel repertorio che eseguo Beethoven è il compositore principe, anzi Imperatore. Ma, mentre il mio amore per la Sua musica può essere considerato sottinteso, quella vera Passione travolgente che viene fuori ad ogni pagina del romanzo "Il dio sordo" di Antonio Scotto Di Carlo risulta essere una sorpresa che appartiene allla categoria del "miracolo"
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Il dio sordo - 10 Estratti - Antonio Scotto Di Carlo
Legge
Estratto 1 – 1995, il viaggio nel Tempo
Il diciannovenne Narratore assiste all’esecuzione del Quartetto delle Arpe di Beethoven.
Un incipiente crepitio mi distolse dal mio raccoglimento: erano gli applausi liberatori che accoglievano i musicisti. Si apriva con Beethoven, e dalla nota sul programma appresi che quel quartetto era denominato Delle arpe per gli ostinati pizzicati del primo movimento. Conoscevo quell’opera e ne apprezzavo tantissimo il terzo tempo tumultuoso. Non vedevo l’ora di ascoltarlo. Riposi il programma nella tasca dei jeans, l’immancabile ritardatario prese posto, le luci si abbassarono e la musica ebbe inizio.
Man mano che il pezzo fluiva dagli strumenti alla mia anima, venivo sopraffatto sempre di più da quel primo movimento che m’irretiva con le sue melodie flautate, smorzando l’attesa per il terzo. Dopo l’esposizione e lo sviluppo dei due temi, si arrivò alla ripresa (ossia l’ultima delle tre parti in cui è suddiviso il primo movimento di un quartetto). Non me ne capacitavo eppure, nonostante mi fosse passata per le orecchie decine di volte, mai avevo colto la grandiosità della coda finale.
La magia stava tutta nella simultaneità dei suoni. Il primo violino era partito con delle note rapidissime e simmetriche, senza una sola pausa che le intervallasse; nel frattempo la viola intonava una frase malinconica, di una dolcezza disarmante, che prima di ripetersi su un altro accordo lasciava l’ultima nota protrarsi per un’intera battuta; nel frattempo il secondo violino riproduceva l’identica frase della viola proprio sulla battuta in cui la viola si soffermava sulla nota prolungata, e quando il secondo violino giungeva anch’esso su quest’ultima nota, la viola ricominciava il sublime dialogo; nel frattempo il violoncello s’intestardiva in pizzicati che da gravi diventavano gradualmente acuti, ripartivano dalle note basse e tornavano su. In pratica il passaggio durava meno di un minuto, ma in esso risuonavano centinaia di note, ognuna delle quali conservava posto e funzione in un’architettura trascendentale.
Con gli occhi ammaliati e allibiti sul primo violinista, eretto, asciutto e brizzolato, che in controluce assumeva un’austerità divina in quell’impetuoso e inarrestabile incesso virtuosistico, provavo a distinguere il canto di ciascuno strumento nel formidabile ordito musicale. Era come se Otello (I violino), Giulietta (II violino), Romeo (viola) e Amleto (violoncello) declamassero all’unisono le loro battute, ma anziché un caotico vocio, si udiva un’armonia in cui si discernevano chiari i versi, e l’ascoltatore riusciva a cogliere l’ira del Moro intrecciata ai dubbi del Principe nel medesimo istante in cui gli acerbi amanti si giuravano amore eterno, mantenendo la coscienza che ciascuno di essi viveva la sua storia correndo incontro al proprio rovinoso destino. Tutti e quattro recitavano nella stessa tragedia, come se per incanto si fossero ritrovati insieme in un giardino dopo esser fuggiti dalle romantiche prigioni in cui il Bardo li aveva rinchiusi. Questo era ciò che quella magnifica coda sembrava descrivere.
Scombussolato dall’inattesa e violenta implosione di sentimenti innescata da questa musica eccezionale, levai lo sguardo stravolto verso il cielo. Si era offuscato. Un vento mefitico prese a opprimermi l’olfatto e le braccia s’intirizzirono, mentre brividi mi battevano nelle reni come sferzate. La terra ribolliva sotto i piedi come la lava in un cratere. Volevo alzarmi e filarmela, ma le ginocchia si erano ossidate come paralizzato restava l’intento dinanzi alla compostezza di tutti gli altri.
‘Ma questi non si accorgono di niente?’ pensai tra me quando il suolo parve scuotersi.
Ma che vi prende, non vedete?
sbraitai, rizzandomi a fatica, Il terremoto!
Un devastante dolore dalle viscere al torace mi piegò in due, come se l’intestino fosse scoppiato. La saliva mi colava dalla bocca, con sudore e gemiti che si fondevano nei miei tremiti di paura. L’affanno non mi consentiva di raddrizzarmi. Ogni respiro, una fitta. Una larga crepa si aprì tra me e il palco: sgranai gli occhi e, perdendo l’equilibrio, vi caddi dentro come attirato da una forza incontrastabile.
Poi, silenzio.
Quando i sensi stettero per tornare, avvertii subito di trovarmi supino per terra.
Aprendo gli occhi non vidi alcunché. Era tutto buio.
Lentamente cominciai a percepire lo spazio intorno a me. Su di me. Adesso distinguevo il cielo, un cielo spoglio di stelle, ma piantonato da grossi e statici banchi di nubi. Dall’inconfondibile odore, dovevo languire nell’erba bagnata. Però non stava piovendo. Mi sollevai e, coi denti che battevano frenetici come il cuore, presi a guardarmi in tondo, trepidante e terrorizzato nell’ignoto. Di nuovo vedevo tutto nero.
Dove diavolo ero capitato? Dove mi avevano portato?
Con le mani rattrappite dal freddo e le gambe che traballavano per l’apprensione, iniziai a rendermi conto del luogo non appena le pupille si adattarono all’oscurità.
Camminavo incerto e circospetto, con piacevole e insolita leggerezza, attento più a non venir sorpreso da un presunto aggressore alle spalle o ai fianchi che a curarmi di dove stessi andando. Cercai l’ancora d’oro, palparla con le labbra mi avrebbe aiutato a sopportare la tensione. Non c’era. E la catenina, me l’avevano rubata. Subito la mano corse al portafoglio. Sparito anch’esso.
In quel silenzio che le tenebre esasperavano, trovavo sostegno solo nel calpestio dei miei passi, anche se ogni tanto gli orribili versi di chissà quali mostruose creature e il terrore – là dove udivo rumori tipo il grattare – che qualche topo di campagna mi morsicasse i piedi, mi stringevano i polmoni in un cappio.
Cominciò a piovere. Sperai che i lampi mi ridessero la vista, ma si trattava di un semplice acquazzone. Almeno in principio, dato che dopo pochi minuti dei bagliori rischiararono l’aria e colorarono l’ambiente; tuttavia non potei soffermarmi a ‘fotografarlo’ poiché tuoni spaventosi, rimbombandomi nello stomaco come arance gettate in un pozzo, mutavano in tremito ogni abbozzo di pensiero.
Mi ci volle un po’ per riavermi.
Un forte vento iniziò a soffiare e ai flash dei lampi si unì la luce della Luna. Potei capire di trovarmi in una radura, sebbene l’anima seguitasse a dibattersi nel panico come i piedi nell’acquitrino.
Corsi fino alla boscaglia che intravedevo a intermittenza sulla destra e mi ci addentrai.
La tempesta non accennava a placarsi, così trovai opportuno ripararmi sotto un rovere che pareva offrirmi quel senso di protezione che dà un fratello maggiore.
Lì, sentendo gelo e fifa penetrarmi le ossa, stabilii di aspettare il sereno e il giorno.
Estratto 2 – Il Narratore incontra Beethoven
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Quel martedì mattina era prestissimo quando, con estrema circospezione, uscii dalla locanda: per prima cosa bisognava evitare il padrone. Inoltre, non potendo prendere il carro, dovevo anticiparmi in quanto di strada da fare ce n’era.
Un freddo tremendo – anche quella notte aveva nevicato – congelò le mie ambizioni per tutto il tragitto.
Giunto alla casa di Beethoven, il mio piano subì gli influssi delle sensazioni, e ciò che prima era terso, adesso lo vedevo appannato. L’ingegnere che aveva studiato con accuratezza ogni variante non si presentò all’appuntamento e mi lasciò coi suoi appunti enigmatici, con in più un nuovo cruccio.
‘E se non fosse la casa di Beethoven?’
In fin dei conti avevo tratto questa conclusione senza aver visto in faccia l’uomo che vi era entrato.
Mentre facevo appello al coraggio che mi ero sempre vantato di possedere, il portoncino si dischiuse e l’uomo uscì. Io esitavo, nascosto dall’altro lato della via. Lo vidi frontalmente solo per pochi secondi, andando egli dalla parte opposta: con feltro e cappotto scuro, a testa bassa e a mani giunte dietro la schiena, camminava come chi è – o vuole apparire – preoccupato.
‘Ma sarà davvero Beethoven?’
Non mi rendevo conto se la mia incertezza scaturisse dall’eminenza del personaggio o dall’indagine alquanto approssimativa (avevo tallonato quel tizio basandomi sul gestaccio della guardia balbuziente), ma essa si propagava in me come il cupo rimbombo dell’arancia nel pozzo, e l’idea che stessi portando avanti un progetto senza capo né coda iniziò a configurarsi nel sospetto che il mio contatto con la realtà fosse troppo poco credibile.
‘Dove andrà a quest’ora?’ m’interrogai quando sparì dalla mia visuale.
Non lo seguii, sia per l’incapacità di muovere un passo, che per non essere notato.
‘Dovrà pur tornare’ pensai, ed era meglio non allontanarsi dall’unico posto in cui avrei potuto attuare il mio disegno.
La strada si ravvivava della fioca luce che a