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Il dio sordo - IX
Il dio sordo - IX
Il dio sordo - IX
E-book483 pagine6 ore

Il dio sordo - IX

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Info su questo ebook

Il volume precedente si concludeva con l’addio all’immortale amata. Ora tutte le vicende che Beethoven e il narratore hanno vissuto durante quel lungo viaggio trovano compimento in un testamento musicale che consacra l’uomo-compositore. Il maestro traduce in note gli auspici, i segreti, i pensieri, i sentimenti, i ricordi e la passione che lo hanno accompagnato nella silenziosa solitudine dei suoi ultimi anni, raccogliendoli tutti nella più grande sinfonia di sempre. La IX.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2015
ISBN9788892511422
Il dio sordo - IX

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    Anteprima del libro

    Il dio sordo - IX - Antonio Scotto Di Carlo

    PARTE V

    Capitolo uno

    Da quel giorno, il giorno in cui per l’ultima volta aveva veduto la sua immortale amata, Beethoven non aveva più messo piede fuori di casa.

    Le ultime parole che gli avevo udito pronunciare concernevano la volontà di non presenziare al rito funebre e di informare i fratelli del decesso, pregandoli di non fargli visita; poi mi aveva affidato una lettera da recapitare a Schindler la notte stessa. Quando l’indomani mi ero recato da lui onde offrirgli la mia disponibilità per qualsiasi evenienza…

    Buongiorno! esclamai, sorpreso di trovare lì Schindler a quell’ora del mattino, E tu cosa fai qui?

    Buongiorno. Vieni dentro e mi fece strada in cucina.

    Dov’è Ludwig?

    Credo stia riposando. Hai già fatto colazione? aggiunse servendosi del caffè.

    Sì, ma… che succede?

    La lettera di stanotte.

    Ebbene?

    Il maestro mi ha chiesto di trasferirmi temporaneamente qui per curare i suoi affari, occuparmi delle faccende domestiche, eccetera.

    Dubito che a quella novità il mio viso non avesse lasciato trasparire la delusione, poiché avevo già pensato di licenziarmi per tornare a essere il suo servitore.

    Tu sai come mai tanta urgenza? mi domandò preoccupato.

    A te non ha detto nulla?

    Io ancora non l’ho veduto.

    E come sei entrato?

    La porta era socchiusa. Poi sul tavolo ho trovato questo biglietto. Leggi.

    PER SCHINDLER: NON MI DISTURBARE PER NESSUNA RAGIONE AL MONDO, CHIARO?’, e quasi mi pareva di sentire il tono intimidatorio.

    Allora? m’incalzò, curioso.

    Non so che risponderti. Ieri sera è passato in teatro e mi ha pregato di consegnarti quella lettera.

    Là per là considerai la riservatezza di Beethoven una specie di rivincita su Schindler, in quanto io sapevo e lui no! Ma una vocina mi consigliò di non farmene un vanto (in seguito più volte benedissi questa saggezza, precisamente da quando il maestro mi confidò che Schindler ignorava chi fosse Josephine). Le diedi retta, sebbene continuassi a torturarmi del perché lui e non io. Forse, avendo io partecipato alla tragica vicenda, la mia presenza, la vista di me, avrebbe restituito spessore a un dolore che in tutti i modi cercava di appiattire; o invece – e questo dovevo ammetterlo – Schindler era più tagliato di me per un compito del genere, specialmente perché possedeva la virtù di sapere obbedire, mentre a volte io proprio non riuscivo a esimermi dall’intervenire. Infatti, pur con tatto, egli non mi consentì di vedere il maestro (con le stesse direttive, io avevo introdotto Giulietta…), e poiché mi ero dichiarato non informato, dovetti arrendermi. Senza contare che nell’ambito della sua arte non gli sarei stato granché utile.

    Questa differenza tra me e Schindler ebbe modo di risaltare maggiormente allorché, una quarantina di giorni dopo, la più inaspettata delle persone venne a farmi visita.

    Stavo a mollo nella tinozza d’acqua tiepida dopo una giornata di lavoro particolarmente stancante a causa del restauro di una fiancata del teatro, quando qualcuno bussò alla porta.

    Un momento! gridai, non esattamente entusiasta di interrompere il mio bagno.

    Mi avvolsi un asciugamano intorno al bacino e, gocciolando da capelli e naso, andai ad aprire.

    Oh Santissima Vergine! sobbalzò una donna che non potei vedere in viso a causa della veletta abbassata.

    Dopo un attimo di stordimento, mi eclissai vergognoso dietro la porta.

    Perdonatemi. Di solito qui passano solo gli amici… Ma chi siete? soggiunsi quasi indispettito, rammentando che in fondo ero in casa mia.

    Non mi riconoscete? replicò rasserenandosi, Eppure in tal contingenza sarebbe più normale fossi io a non riconoscere voi.

    Se mi concedeste qualche minuto per infilarmi indumenti più consoni, sarei lieto di farvi accomodare e accostai la porta, ma senza chiuderla.

    Mentre in camera da letto mi vestivo in fretta e furia, non feci che interrogarmi su quella voce effettivamente familiare. Diedi un’ultima asciugata ai capelli e tornai da lei.

    Mi rincresce di avervi fatto attendere sul pianerottolo, ma quest’umile tugurio non è dotato di un salotto le dissi squadrandola da capo a piedi, rendendomi conto solo in quell’istante che vestiva un elegante abito nero.

    Non datevi pena.

    Prego e la invitai dentro, Chiedo fin d’ora venia per l’inadeguatezza… l’inadeguatezza del mio vademecum da anfitrione, essendo poco avvezzo a visite ufficiali spiegai in grande soggezione, poiché quella sua andatura lievemente claudicante mi portò alla mente una certa contessa…

    D’accordo, però non siate così formale. Piuttosto sono io che mi scuso per avervi interrotto durante una operazione tanto intima e sollevò la veletta mostrandomi il viso che mi aspettavo di vedere.

    Therese!

    Ci fissammo per qualche istante, finché trasalii imbarazzato.

    Volevo dire, contessa. Perdonatemi.

    E di cosa? Anzi, sono ben lieta rammentiate il mio nome.

    Non oserei obliarlo. Permettetemi di porgervi le mie più sentite condoglianze per la scomparsa di vostra sorella.

    Grazie di cuore.

    Certe volte la vita è maledettamente ingiusta.

    Eh, bisogna rassegnarsi.

    Posso offrirvi qualcosa? Una cioccolata calda vi andrebbe? domandai, avendo avuto l’impressione che non gradisse discorrere di Josephine.

    Fate conto l’abbia presa, in strada c’è la carrozza che mi attende.

    Come desiderate. E… come avete fatto a trovarmi? Cioè, posso esservi utile in qualcosa?

    In breve, ero andata a far visita a Ludwig, ma uno scortesissimo ed antipatico villanzone si è rifiutato di annunciarmi.

    Schindler.

    Non so come si chiamasse quel cane da guardia, ma di certo non possiede un’oncia della vostra squisitezza.

    Troppo buona.

    È la verità. Mi son dunque recata dal caro Nikolaus, ma una volta a casa sua mi è sovvenuto di voi. Così mi sono appartata nel suo studio per scrivere una lettera, pregandolo poi di condurmi qui col pretesto di volervi salutare.

    Zmeskall è qui? trasalii, giacché abituato a chiamarlo Zmeskall mi ci era voluto qualche secondo per realizzare, E perché non è salito assieme voi?

    Non ha potuto accompagnarmi perché si sentiva poco bene.

    Non lo vedo da un po’ e avevo sperato stesse meglio.

    Purtroppo non mi è parso in buono stato. Comunque con l’indirizzo non è stata un’impresa rintracciarvi aggiunse, provando a superare la malinconia per il vecchio amico.

    Ho capito.

    Ebbene, posso ancora una volta affidarmi alla vostra discrezione?

    Volete che la consegni a Ludwig?

    Solo se non è troppo disturbo per voi.

    Nessun disturbo le sorrisi, affabile.

    Sapevo non mi avreste delusa ed estrasse la lettera dalla borsetta.

    Dopo qualche altra breve chiacchiera di circostanza, si accomiatò.

    Therese. La mente non riusciva a discostarsi da lei, sebbene l’interesse che mi animava rimanesse ‘innocuo’.

    Durante la notte però, mi svegliai di soprassalto. Non rammento se fu un incubo o un rumore a destarmi, ma non riuscii più a chiudere occhio e i pensieri presero a gironzolare petulanti intorno alla figura di quella donna.

    Perché andava dal maestro soltanto adesso? Perché proprio adesso? Qual era, se c’era, il vero motivo per cui si rivolgeva a me? Cosa tramava? E se mi fossi reso suo complice ai danni di Beethoven?

    Tutte le domande conducevano a quella lettera.

    Già un’altra volta ella mi aveva nominato suo latore, e tenevo ben presente la disinvoltura con cui il maestro mi aveva reso partecipe di quelle confidenze; inoltre egli viveva un periodo drammatico ed era assai vulnerabile. No, non potevo consentire a nessuno di giocargli un tiro mancino. E Therese, la reputavo capace.

    Nei casi di conflitto d’interesse non è mai ben chiaro quando si cessa di essere imparziali e si sconfina nella faziosità: è probabile esista una zona franca, rinnegata dall’etica, in cui si stipulano i compromessi. Ignoravo – e non volli appurarlo – se la premura di proteggere il maestro fosse una mise più decorosa, addirittura edificante, indossata dal volgare impulso di ficcanasare.

    Dopo un rapido dibattito col senso morale, mi ritenni autorizzato a leggere e, eventualmente, a censurare.

    Mi alzai e accesi la lucerna. La lettera era lì sul tavolo, quasi mi stesse aspettando. Un ultimo scrupolo provò a dissuadermi, adducendo come estremo baluardo spirituale il rimorso che avrei provato qualora i miei timori si fossero dimostrati infondati. Vi riuscì; sennonché, prima di soffiare sulla fiamma e restituire la missiva al buio del mio tinello, mi accorsi di un particolare che mi piacque interpretare quale segno dall’Alto: la busta non recava alcun sigillo. Fretta, dimenticanza o altro, non sapevo perché Therese non si fosse cautelata; così, sbandierando solennemente e ancora una volta lo stendardo delle mie buone intenzioni dinanzi alla critica Coscienza, mi feci coraggio e tradii la sua fiducia.

    Caro Ludwig

    Avrei voluto dirti queste cose di persona, ma tutto sommato mi sarà meno gravoso scrivertele, senza sentirmi addosso i tuoi occhi torvi e sospettosi.

    Ho a lungo tentennato, ma alla fine il toccante racconto della buona Gertrud mi ha persuasa della sincerità del tuo affetto per Pepi.

    So che a suo tempo c’è stato qualcosa tra voi, e mi prendo l’ardire di intromettermi solo per farti sapere che, malgrado tutto, nel suo ultimo giorno lei ha invocato il tuo nome.

    Raramente parlava di te, ma quelle poche volte mi diceva di quanto tu la detestassi. Ne era così sicura che le credetti, anche se non volle mai rivelarmi la causa di tanto livore da parte tua.

    Tuttavia, l’uomo che si struggeva come Gertrud mi ha descritto, non può odiarla!

    Purtroppo Pepi non si è mai ripresa da che Christoph le portò via le bambine. Dopo la nascita della piccola Minona, egli la supplicò di seguirlo nella sua terra natale e di cominciare lì una nuova vita insieme. Ma ormai lei lo disprezzava. Egli non accettò il rifiuto e si rivolse alla Giustizia per ottenere l’affidamento delle sue tre figlie, cosa che gli riuscì in breve tempo. Poi, per punirla ancor più duramente tentò di separarla anche dai tre bambini del primo matrimonio, e per impedirglielo la povera Pepi passò due anni terribili tra fughe e battaglie legali, ritirandosi infine nella casa in cui, ahinoi, è spirata.

    L’unica consolazione per lei fu che il Tempo spense la brama di Christoph di avere un maschio, rendendolo meno rancoroso verso di lei. Dal suo ritorno a Vienna in poi, Pepi poté talvolta riabbracciare le piccole, quantunque la sua salute compromessa non le concedesse di godere della felicità che meritava.

    Sempre le tendemmo la mano. Lei però, pur coltivando con noi relazioni cordiali, non è più stata la dolce ed amabile Pepi di un tempo.

    Privandola di Theophile, Maria Laura e Minona per quei lunghi anni, il marito le aveva tolto il cuore.

    Non ci fece mai visita, e quando andavamo noi da lei, pur stando nella stessa stanza, la sentivamo distante mille leghe. Sorrideva, ma quel sorriso non emanava calore. Era cambiata. Doveva aver molto sofferto. Forse per questo, per un po’ di conforto, si avvicinò all’istitutore dei suoi due figlioli.

    Quando di tanto in tanto andavo a trovarla e il suo umore non era dell’abituale grigio, amavamo distrarci nel ricordo dei bei tempi che furono. Sedevamo al piano e suonavamo la tua musica. Allora il suo viso pareva riacquistare i suoi antichi colori, ritrovava la luce e, trascinata dalla magia di quelle note, Pepi ritornava ad essere.

    Ho creduto giusto raccontarti i suoi ultimi anni perché, qualunque peccato abbia commesso, qualsiasi torto ti abbia fatto, le Erinni – o le Eumenidi – hanno eseguito la loro missione sin con troppo zelo.

    È morta credendo che tu la disprezzassi. E non era vero. Qualunque sia stato il malinteso tra voi, non posso permettere, per amor tuo e in memoria di lei, che tu viva ignorando quanto abbia sofferto o pensando che abbia meritato quella fine.

    Hai sempre occupato un posto privilegiato nel suo cuore, ed io voglio che non ne dubiti.

    So che in passato ti ho dato motivo di disappunto. Mi auguro che quest’atto sincero e disinteressato, di devota sorella ed affezionata amica, possa farti guardare con clemenza ai miei errori.

    tua Thesi

    La prima reazione fu di sgomento nel constatare quanto Josephine fosse stata abile e accorta nel fuorviare i sospetti dell’amore che la legava a Beethoven. In ogni modo, non era assolutamente il caso di sottoporre il cuore provato del maestro a quella inattesa e forse insostenibile emozione; pertanto mi arrogai il diritto di tenergliela nascosta.

    Per il resto della notte non feci che pensare alla sventurata Josephine. L’avevo appena conosciuta attraverso occhi diversi da quelli del maestro, e per la prima volta ebbi l’impressione di contemplare non un ritratto – che pur dovizioso di elementi e formidabile nell’incanto, mostra comunque un unico profilo –, bensì un tuttotondo.

    Lei pareva essere una di quelle persone incapaci di vivere la normalità del cuore, che respirano soltanto nell’utopia dei suoi eccessi. O non respirano affatto. Una donna agogna di essere amata, e si getterà anima e corpo fra le braccia del primo che le sorriderà, credendo così di invogliarlo ad amarla; ma, per le leggi che governano il Cuore, lui non l’amerà. Non potrà. Memore della lezione, ella diverrà più cauta, e quando incontrerà qualchedun altro che le sorriderà, avrà paura e si negherà: allora sì che lui l’amerà, ma lei non potrà assaporare quell’amore e assisterà impotente al suo inabissarsi.

    Dovrebbe lasciarsi andare senza farsi travolgere. Ecco il trucco. Forse però, baciare con gli occhi aperti non era nella natura di Josephine. Forse lei conosceva a fondo il proprio cuore intransigente, ma essendo un carattere debole il suo procuratore, la contrattazione si chiudeva sempre nel compromesso di stare bene con gli altri e male con se stessa. Forse per questo ogni volta che era stata chiamata a una scelta, conscia o presaga di una felicità irraggiungibile, aveva sempre sacrificato quel sentimento che nella finzione letteraria sa superare ogni ostacolo, ma che nella realtà raramente trova un paradiso in cui poter pascere se non è sorretto da un animo forte. Forse Josephine aveva accettato di essere un’isola in fiamme e che il suo fuoco sarebbe rimasto prigioniero delle acque per sempre.

    Tuttavia queste erano e rimanevano mie congetture.

    La mattina seguente mi risvegliai con un unico proposito: rivedere il maestro. Dopo la visita di Therese, la lettera e la pena per Josephine, la sola cosa importante era ritrovarlo; così stabilii che sarei passato da lui prima di andare a lavoro, intenzionato a rimanerci tutto il tempo necessario e incurante di un eventuale licenziamento.

    ‘Ma come ho potuto lasciar passare tanto tempo!’ mi ripetevo recandomi a casa sua, come se fino a quel momento un insano sopore avesse drogato il mio intelletto.

    Oh, oggi di buon’ora! esclamò Schindler accogliendomi con la consueta giovialità.

    Già… risposi entrando, Com’è stato ieri?

    Al solito. Ha mangiato, bevuto e dormito, ma neanche una parola. Neppure la notizia della morte di Napoleone l’ha scosso.

    Voglio parlargli.

    Sai che non vuole vedere nessuno.

    Lo so, ma non può continuare in questo modo insistetti.

    Ma che ti prende?

    Niente, sto solo in pensiero per lui.

    Ti capisco, ma che possiamo fare se… Proprio ieri l’altro ha ribadito la sua volontà.

    Permettimi di capire una cosa… ripresi più risoluto di lui, Non vuoi contrariarlo perché temi di uscire dalle sue grazie o è una questione di zelo?

    Neppure ti rispondo.

    Perdonami, ma a volte è d’uopo prendere l’iniziativa.

    Stamattina mi sembri parecchio agitato. Una camomilla non ti farebbe male…

    Piantala e ascolta! ribattei opponendo gravità alla sua ironia, È un mese e mezzo che non vede nessuno, che non parla con nessuno.

    Ma se è questo che vuole? obiettò, un po’ meno sicuro.

    E credi che perseverando starà meglio?

    Pur di non uscire da quella stanza, mi ha fatto portare lì il pianoforte… borbottò come preso tra due fuochi.

    No, io farò qualcosa, perdiana! A costo di giocarmi la sua amicizia, io farò qualcosa.

    Tacque, come intimidito dalla mia determinazione.

    Io ti comprendo seguitai con voce più accomodante, Non vuoi disattendere alle sue disposizioni, ed è giusto.

    Mi guardava, dimesso.

    Perché non vai in teatro? Giusto ieri mi pare di aver sentito Herr Duport fare il tuo nome…

    Cercava me?

    Ammiccai.

    Rimase in silenzio, cogli occhi fissi nei miei. Infine sorrise.

    Dunque la mia presenza urgerebbe altrove?

    Così parrebbe.

    Beh, se è così non posso esimermi. Ti spiacerebbe rimanere qui fino al mio ritorno?

    Va’ tranquillo.

    D’accordo.

    E fa’ con calma.

    Però, mi raccomando, non entrare dal maestro! aggiunse, quasi volesse mettere a verbale che aveva ottemperato fino in fondo alle consegne.

    Promesso! esclamai incrociando ostentatamente le dita.

    Egli si girò di scatto, come per non vederle, e se ne andò.

    Senza perdere tempo raggiunsi la stanza del maestro e bussai: furono probabilmente ansia ed emozione a confondermi le idee…

    Quando aprii la porta, Beethoven stava alla finestra, sbirciando la strada e la vita da dietro le tendine che smorzavano la luce del sole. Non mi dava completamente le spalle e potevo vederlo a un quarto: era così diverso da come lo ricordavo che faticai a riconoscerlo. Gonfio, ingrassato di almeno tre chili e al suo incarnato roseo pareva fosse stata data una mano di giallo; stava in vestaglia, con le calze bucate su entrambi i calcagni e la barba di una ventina di giorni; i capelli, bisunti e scarmigliati, pativano certo una lunga siccità, e il loro grigio contribuiva a donargli un aspetto ancor più trasandato.

    A parte il letto sfatto, cartacce sparse qua e là, libri confusamente ammonticchiati sul pianoforte, per il resto la camera languiva in un contenuto disordine, dato che tra Frau Streicher e Schindler c’era sempre qualcuno che la riassettava durante la sua siesta…

    Contai anche tre bottiglie vuote in giro per la stanza, più una quarta mezza piena che stringeva nel pugno destro, mentre sul comodino un calice grommoso e impolverato faceva da sentinella al letto, segno che da qualche tempo soleva bere a garganella. Più di tutto però, mi colpì sgradevolmente il tanfo caratteristico degli ambienti chiusi al quale presto l’inquilino non bada più, ma immediatamente captato da chi proviene dall’esterno.

    Trascorsero cinque minuti prima che si accorgesse di me.

    Sollevai una mano in segno di saluto, sorpreso nel sentirmi tanto imbarazzato sotto il suo sguardo. Un sorriso flebile mi diede il benvenuto.

    Avevo preparato cento argomenti per ovviare all’impaccio in cui ci saremmo presumibilmente ingolfati, ma qualsiasi cosa avessi scritto, la conversazione sarebbe risultata forzata; per cui attesi fosse lui a cominciare.

    Mi guardava, o almeno appuntava gli occhi nella mia direzione, ma non pareva molto propenso al dialogo.

    Bevve una sorsata di vino e si pulì la bocca con la manica frusta e macchiata della vestaglia. Poi si girò di nuovo verso la finestra.

    Altro tempo passò in quell’opprimente silenzio, dopodiché si portò ancora la canna alla bocca. Tracannò ed espirò, prima di volgersi nuovamente verso di me. Era davvero a terra.

    Altre volte lo avevo visto abbattuto, ma sempre, in uno sguardo, nella voce o in qualche parte del viso, avevo percepito la ripresa prossima: dopo il concerto per Napoleone, in seguito ai fatti di Praga, quando sperimentammo la lavagnetta e perfino alla morte di suo fratello, sempre c’era stato qualcosa in lui che preannunciava la rinascita. Adesso invece stava lì, aggrappato alla bottiglia nella speranza di affogarci dentro il proprio malessere. Appariva timoroso, inoffensivo come avesse chinato la testa in segno di resa. Più che soffrire, aveva pacificamente consentito a ritirarsi in quella stanza per passarci il resto della vita pur di non rischiare un’altra sfuriata del Destino.

    Evidentemente la morte di Josephine era stata in quello specifico momento – quando cioè il desiderio di lei stava rifiorendo – una mazzata troppo violenta anche per un duro come lui, e il vuoto lasciato dalla speranza si era riempito col senso di colpa che, liberato dalle catene dell’ignoranza, gli teneva la giugulare tra le zanne.

    Un’ingenuità infantile brillava nel sorriso che si perdeva nella timida e indolore commiserazione di sé.

    Osservò ancora la strada scostando leggermente le tendine, come giocasse a rimpiattino col futuro.

    Si scolò le ultime gocce di vino, e quasi sussultò allorché si avvide che era finito. Lentamente, incurante della mia presenza, si diresse al letto e vi sedette; aprì lo sportello del comodino e prese un’altra bottiglia, iniziando a fissarla come si fa con una fotografia cara.

    All’improvviso, con tutta la naturalezza del mondo, eruttò squarciando l’avvilente quiete della stanza e facendomi schizzare il cuore in gola. A questo punto presi quaderno e matita poggiati sul piano.

    "POSSO APRIRE LA FINESTRA?"

    Mi guardò, limitandosi a una smorfia di indifferenza.

    Le tende lasciale chiuse mormorò mentre una ventata di freschezza riportava la vita tra quelle mura.

    Ascoltare di nuovo la sua voce dopo tanto tempo, dopo quanto era successo, fu una gioia indescrivibile; nonostante il suo tremolio confermava si trovasse nell’anticamera dell’ubriachezza, dal tono sembrava sereno, per nulla angustiato.

    Mi sedetti accanto a lui.

    "COME STAI?"

    Nel mostrargli il quaderno notai l’anello di Josephine al centro del guanciale, come ve lo avesse adagiato.

    Rispose con l’identica smorfia di poco prima.

    "OGGI È UNA BELLA GIORNATA, PERCHÉ NON TI VESTI E USCIAMO?"

    Sorrise fievolmente, ma scosse la testa.

    "UN PO’ DI MOTO TI GIOVEREBBE, GUARDA CHE PANCIA HAI MESSO SU!"

    Un ghigno corredò le scherzose pacche con cui si colpì il ventre.

    "POTREMMO ANDARE NEL BOSCO. QUANT’È CHE NON RESPIRI IN MEZZO AI TUOI FAGGI?"

    Mi guardò con tenerezza, ma non diede voce ai suoi pensieri: benché brillo, conservava saldamente le sue facoltà.

    "OPPURE POTREMMO ANDARE ALLO ‘SCHWAN’. SARAI STUFO DELLA MOSELLA!", e intanto che leggeva richiusi col piede lo sportello del comodino, dove notai che custodiva altre bottiglie.

    Dov’è andato Schindler? bisbigliò dimesso, col viso spento.

    Mi accigliai, ma poi realizzai che l’aveva visto andar via dalla finestra.

    "HERR DUPORT L’HA CONVOCATO IN TEATRO."

    Ah mormorò, e dall’espressione arguii fossero ben poche le cose che potessero interessargli di meno.

    Non sapevo cos’altro dire o fare, di conseguenza mi appellai a quello che avevo serbato come estremo rimedio.

    "SAI CHI MI HA FATTO VISITA IERI?"

    Lesse, ma probabilmente questa era una di quelle cose di cui sopra…

    "THERESE VON BRUNSWICK" scrissi, certo di scuoterlo.

    Dapprima gli occhi parvero accendersi; poi l’apatia tornò padrona del suo volto.

    Allora, contrariamente a quanto mi ero prefissato nottetempo, decisi di dargli la lettera: nello stato in cui era, ritenni vitale sollecitare la sua reattività. In qualunque modo.

    L’avevo portata con me, non so se per senso di colpa o del dovere, poiché, a mente fredda, avevo giudicato le parole di Therese una indigesta ma efficace medicina. Tuttavia mi era parso indispensabile un piccolo ritocco, trovando l’allusione alla presunta intimità di Josephine con l’istitutore dei due figli maschi inutile quanto insopportabile ne sarebbe stato il supplizio; ero dunque intervenuto depennando quella informazione con tratti di inchiostro calibrati da renderla illeggibile senza che stuzzicassero la sua curiosità.

    Mentre leggeva, lo osservavo. La diga eretta da Bacco cedeva e le emozioni tornavano a inondargli il cuore, vivificando la sua espressione mite e rassegnata. Gli occhi gocciolavano, e le labbra si contraevano per contenere una commozione certo più impetuosa di quanto non trasparisse.

    Ero contento di averlo ‘svegliato’, ma anche mi addolorava di averlo fatto piangere.

    Allorché terminò la lettura, ripose il foglio sul cuscino e prese l’anello. Lo guardò, e qualcuna di quelle pesanti lacrime vi passò in mezzo. Altre lo bagnarono. Lo infilò all’anulare e lo baciò teneramente. Poi, afflitto e sconsolato, si portò di nuovo presso la finestra.

    Già ero pronto alle sue domande, a sostenere la conversazione coi pensieri della notte, quando con voce triste e sommessa farfugliò qualcosa. Non capii, e restai ad aspettare che la ripetesse.

    Poiché non si voltava, mi accostai io.

    Il maestro girò la testa. I suoi occhi erano allagati da un implacabile rimorso.

    Vorresti lasciarmi solo? Per favore.

    Dinanzi a quel tono supplichevole non meno della sua espressione, i miei propositi annegarono malinconicamente, tirandosi dietro anche la mia risolutezza.

    Uscii scoraggiato e richiusi la porta dietro di me, però non andai via. Provai a guardare dalla serratura cosa facesse, ma le lacrime offuscavano l’immagine. Mi rialzai e mi asciugai gli occhi.

    Piangevo perché capivo che era in preda alla più crudele passione dell’anima: la consapevolezza che ciò che non è stato sarebbe potuto essere.

    Volevo fare qualcosa per lui. Mi misi nei suoi panni e cercai ciò che mi avrebbe confortato in una situazione simile, ma ogni idea sembrava inadeguata come uno sputo su una pira in fiamme.

    Frattanto che riflettevo, fui distratto da un accordo del pianoforte. Un accordo timido, amputato, durato un battito d’ali. Trasalii, e mentre m’interrogavo, egli reiterò il medesimo. Poi ancora silenzio. Di nuovo lo stesso accordo, grave, fugace, ripetuto quattro volte, ma a intervalli più brevi, fino all’aggiunta di note acute, sempre sullo stesso tempo di marcia.

    Quasi subito riconobbi l’introduzione dell’assolo del tenore nel movimento finale della nona sinfonia. Amavo in maniera speciale quel passo, soprattutto dal giorno in cui il mio subconscio aveva costruito attorno a esso quel sogno ambientato in una cattedrale, dove un folle lo cantava a squarciagola nel silenzio surreale.

    All’inizio l’angoscia per il maestro fu attenuata dalla sorpresa, in quanto non credevo l’avesse già composto; poi rammentai la sua lezione su come quasi mai un’opera viene concepita nell’ordine in cui è strutturata alla fine, e il mio stupore rientrò del tutto quando mi ricordai di averlo udito con le mie orecchie annunciare al direttore del teatro i progressi circa la nuova sinfonia.

    Me ne stavo ammirato e tremante dietro la porta ad ascoltare quelle note esibirsi nella loro marcia gaia e austera, non riuscendo a trattenere il pianto, giacché con l’udito del cuore percepivo il suo stato d’animo, totalmente opposto a quello che la musica suonata si prefiggeva di suscitare: la Gioia.

    Quel preludio strumentale, che egli accompagnava con un lamento mesto e ritmato, aveva cominciato prima a pizzicare, poi a percuotere le corde della mia sensibilità, lasciandomi inerme sotto le ampie e incessanti folate di brividi. Ero nell’intera persona come un piede ‘addormentato’, schiavo condiscendente di quella sensazione voluttuosa e molesta a un tempo.

    Ora che il preludio strumentale volgeva al termine e si approssimava la parte cantata, un’inspiegabile euforia implose dentro di me. Ero confuso. Non capivo perché tutt’a un tratto non sentivo più alcuna tristezza per lui, nonostante il suo dolore rimanesse il fulcro dei miei pensieri.

    "Froh" intonò con voce scossa, ma s’interruppe subito.

    Lo udivo piangere a singhiozzi.

    Quella parola, quell’esortazione gli indicava la terra della Gioia; egli però, non potendo emergere dal silenzioso mare dei suoi patimenti, sapeva di essere condannato a spiarla dal periscopio.

    Quella parola, quell’ordine di essere allegro e impavido come il tenore matto del mio sogno si frangeva contro il muro della sua rassegnazione. Beethoven era tutto fuorché lieto. Mi portava alla mente un condottiero innanzi alla disfatta della propria spedizione, giacente sul prato insanguinato, con le ultime gocce di vita che colano dalle ferite tornando alla terra, mentre lo sguardo desolato si spegne sulla dedica fatta incidere dal Re sul suo scudo: ‘Al nostro invitto eroe’.

    Aveva smesso di suonare. Persisteva soltanto il lamento di un uomo distrutto che non sapeva più risollevarsi.

    Malgrado lo sentissi in questo stato, quell’inspiegabile euforia persisteva nel mio cuore. Fu allora che colsi il nesso: era la Musica, quel potente analgesico in grado di lenire ogni male.

    Egli stava probabilmente cercando un antidoto alla sua depressione in quel meraviglioso canto. E l’aveva trovato. Un antidoto che lui stesso aveva scoperto nei versi di Schiller e brevettato con la sua musica. La boccetta era lì a portata di mano, ma, stremato nel corpo e nello spirito, gli mancava la forza di un ultimo sussulto per afferrarla.

    Dovevo aiutarlo.

    Chiusi gli occhi e richiamai il ricordo del tenore matto del mio sogno: avevo bisogno di sentirmi spensierato, forte e gioioso per poter essere il trattino tra lui e la sua musica.

    Qualcosa prese a mutare dentro di me e, spronato dal desiderio di guarire il maestro, mi lasciai investire da quel magico vento di follia che spira solo nel mondo dei sogni.

    Spalancai la porta ed entrai.

    Egli sedeva al piano, ingobbito, a testa bassa, con le mani immobili sulla tastiera e lacrime copiose a solcargli le guance.

    Dovette notarmi con la coda dell’occhio, visto che si girò.

    Intendevo imitare il tenore matto, ma l’ansia mi faceva tremare. Egli s’accigliò. Io deglutii e cominciai a cantare, articolando ogni parola affinché potesse leggermi le labbra.

    "Froh, froh wie seine Sonnen seine Sonnen fliegen, froh wie seine Sonnen fliegen, Durch des Himmels prächt’gen Plan; Laufet Brüder eure Bahn, Laufet Brüder eure Bahn; Freudig wie ein Held zum Siegen…"

    In principio mi sentii un idiota, soprattutto per come mi guardava; man mano però quel canto prese sorprendentemente a trasmettermi il suo potere intrinseco, un folle entusiasmo che mi esortava verso la più gloriosa delle vittorie.

    ‘Sì, posso farcela’ pensavo.

    Senza che me ne fossi reso conto, avevo persino iniziato a marciare sul posto!

    Beethoven trasecolò. In un baleno l’incredulità essiccò i suoi occhi.

    Che diavolo… Come fai a…? bofonchiò sbigottito, giacché la cadenza del passo, il labiale ostentato e il momento (riprendevo dal punto in cui si era interrotto lui) non davano adito a dubbi circa la melodia che stessi intonando.

    Quando si alzò sentii di esser riuscito a scuoterlo e il sapore delle mie lacrime mutò. Ora erano dolci.

    "Correte, fratelli, la vostra strada…" cantavo, battendo il tempo col pugno, sperando di accendere in lui la gioia di vivere che la sua musica aveva acceso in me, una gioia che da solo non riusciva più a ritrovare.

    Egli mi si avventò contro tentando di afferrarmi, ma ero più alto e il mio ‘marciare’ lo manteneva a distanza.

    "Freudig wie ein Held zum Siegen…" cantavo, attaccando la sua depressione e udendo le trombe squillare per la gran vittoria.

    Come fai a conoscerlo? sbraitò, imbestialito da spaventare il Demonio.

    Quei versi però, la musica che mi echeggiava nella mente… mi sentivo invincibile.

    "Laufet Brüder eure Bahn…" proseguivo, quasi a singhiozzo per l’emozione, scandendo ogni sillaba per raggiungerlo nel suo silenzio.

    Hai frugato tra i miei spartiti! Da dove l’hai rubato?

    "Gioioso, come un eroe nel momento della vittoria…" continuai, tremando nella voce e nel respiro.

    Confessa! tuonò sempre più tenebroso.

    All’improvviso, con gli occhi fuori dalle orbite per l’ira, corse all’armadio, prese qualcosa da basso e tornò risoluto su di me.

    Fermati all’istante e dimmi come fai a conoscere questo canto! proferì calmo ma deciso, puntandomi una pistola a pochi centimetri dalla faccia.

    L’immagine di quel cannone dietro al quale si stagliava il suo volto feroce mi scosse nella mente, ma non nel cuore.

    "…wie ein Held zum Siegen!" insistei, quasi sentendo il freddo del metallo sulla fronte.

    Ti avverto che non scherzo. L’ho caricata giusto ieri.

    "Froh, froh wie seine Sonnen…" ripresi daccapo.

    Mi rendevo conto del pericolo, ma non avevo paura: la udivo battere – la Paura – al cuore, ma quel canto aveva come sprangato la porta.

    "…seine Sonnen fliegen, froh wie…"

    Dimmi come lo sai! urlò fuori di sé, Conto fino a tre, poi ti sparo!

    "…seine Sonnen fliegen…"

    Uno!

    "…Durch des Himmels…"

    Due! compitò con gli occhi iniettati di sangue.

    "…prächt’gen Plan!"

    Impugnò la pistola con ambo le mani, come a prendere la mira. Io però cantavo la Gioia, non potevo aver paura! Il tenore matto non ne avrebbe avuta.

    "Laufet Brüder eure…"

    Tre!

    "…Bahn; Laufet Brüder…"

    Tirò il grilletto.

    Non accadde nulla.

    Continuava a puntarmi contro l’arma, ma qualcosa nella sua espressione era cambiato: forse fu l’ennesimo incitamento alla Gioia, il richiamo al Sole e alla Magnificenza del Cielo a fare effetto su di

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