La Parabola del Ciccione
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Mentre Covid-19, razzismo e inquinamento imprimono il loro marchio su questo 2020, un adolescente obeso tenta l’impresa di dimagrire.
Un auspicio che da secoli accomuna le genti in tutto il pianeta è che presto le cose cambino. Guardando però il bicchiere mezzo vuoto viene da pensare che, se questo desiderio di cambiamento è ancora così intenso, i tentativi passati sono falliti. Eppure si continua per la strada che ci ha condotti sin qui, fiduciosi e concentrati sull’idea che il bicchiere è mezzo pieno.
La follia sta nel fare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi.
Almeno così diceva Einstein.
Un libro che inizia come racconto, ma che poi prende una strada diversa.
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Anteprima del libro
La Parabola del Ciccione - Antonio Scotto Di Carlo
1. Il Fantastico Mondo di Giogiò
Una mozzarella filava su un manto di maccheroni al gratin, mentre salami e salsicce appesi tutt’intorno invocavano il dio pagnotta. Calamari fritti e gamberoni alla brace nuotavano sfrigolanti e croccanti trainando forzieri di vongole da sacrificare alle linguine e scrigni di cozze per l’impepata. Villette di hamburger e cotolette con tetti di patatine fritte, tutte impreziosite da piscine di maionese e docce di ketchup. Viali di prosciutto cotto fra edifici di crudo sferzate dall’inebriante vento di provola affumicata, mentre i panini all’olio sfidavano quelli al latte con dadi di mortadella. Spiagge di lasagne da cui salpare su battelli di cannelloni per raggiungere atolli di ravioli oltre la barriera di tagliolini. E poi, cascate di coca-cola, diluvi di aranciata, fiumi di acqua gassata e laghi di cioccolata calda. Pizze volanti, arancini danzanti, saltimbocca in parata, crocchette a pioggia e rustici in festa. Pianure di tiramisù, piramidi di profiterole, boschi di gelato e miniere con filoni di merendine. Monti di zucchero per sciare e tappeti di marshmallow per saltare, con pallottolieri di cioccolatini e caramelle per contare le statue di marzapane che decoravano le friabili muraglie di wafer.
Olimpo dei golosi o Paese dei Balocciccioni?
2. Le Tre Ragioni
«Allora, Maria. Cosa vogliamo fare?»
Lei rimase a fissare il marito senza rispondergli. Non vi riusciva, e le ragioni erano più di una.
C’era il suo cuore di mamma che la implorava di proteggere il suo bambino. Sì, a 14 anni si è ancora bambini. Vero che a quest’età è consentito di guidare il motorino, ma un bambino che va in motorino suona inappropriato – i bambini vanno in bicicletta – perché a 14 anni si è bambini e basta! I bambini devono rimanere spensierati. Perché caricarli di responsabilità già a 14 anni? Li si lasci divertire ancora un po’, cullati dalla consapevolezza che c’è sempre la mamma a vegliare su di loro. Presto gli impegni scolastici si affastelleranno nella loro agenda. Presto cominceranno a sperimentare sulla loro pelle quanto differente sia la vita nella società – dove le cose bisogna guadagnarsele – da quella in seno alla famiglia – dove le cose arrivano per grazia divina. Presto avranno contezza dei problemi che affliggono il mondo i quali esigeranno almeno uno spicchio della loro coscienza. Presto la vita diventerà pesante. Perché contaminarli di realismo già a 14 anni?
C’era il suo orgoglio personale che la spronava a tenere il punto. Il marito brontolava ormai da cinque o sei anni riguardo alla strada intrapresa dal suo Giogiò, ma lei lo aveva sempre zittito con discorsi come Ha bisogno di mangiare perché deve crescere
, Vive l’età dello sviluppo
, Quando prenderà a frequentare le ragazze si darà una regolata
, Una volta raggiunta la maturità, capirà da solo
. A essere sincera con se stessa, aveva sovente dubitato dell’efficacia di questi ragionamenti. Quando vedeva Giogiò rimpinzarsi con tale voluttà, si domandava se il proprio atteggiamento non ammiccasse all’irresponsabilità; tuttavia, l’orgoglio non voleva uscire sconfitto ammettendo di aver abbracciato per tanto a lungo una strategia che aveva inguaiato suo figlio. Così, orgoglio e cuore di mamma confermavano il sodalizio nella speranza che il tempo la sorprendesse dandole ragione.
Non è così che vili e immaturi affrontano i problemi?
Ma più di tutto, c’erano le sue memorie di nuora.
Amava tantissimo sua suocera Roberta. Più della propria madre, Liliana. Non che Roberta avesse dovuto misurarsi con una candidata alla beatificazione, dato che Liliana aveva preferito la bottiglia ai figli persino in punto di morte.
Il ricordo di Liliana era ancora vivido. Nei momenti di lucidità riusciva anche a essere una mamma premurosa, ma quando il bisogno d’alcol prendeva il sopravvento cambiava personalità. Inaffidabile (mentiva con una nonchalance da far passare Pinocchio per la bocca della verità), menefreghista (usciva lasciando i bambini soli in casa, e spesso anche la porta aperta) e immorale (quando non poteva pagarsi da bere, non esitava a compromettersi con chiunque le offrisse un bicchierino), così Liliana si era lasciata ritrarre nella memoria di sua figlia. Consumata dall’alcol nel corpo e nello spirito, a cinquant’anni sembrava una vecchia di ottanta: qualche dente qua e là in bocca, una faccia segnata da rughe come le dita di una mano rimasta a mollo per ore, dei capelli di un castano vivo che, a giudicare dal viso decrepito, davano da pensare che fossero tinti o che indossasse una parrucca – in realtà erano naturali, incluso il colore.
Al contrario, la suocera Roberta era una donna piena d’amore e ligia ai suoi doveri. L’aveva accolta con l’affetto che si ha per una figlia, ma le aveva anche dimostrato rispetto non approfittando mai di essere la madre di suo marito per pretendere cose da lei.
Anche per questo era felice quando poteva sbrigare qualche faccenda per lei. Andava a farle visita tre o quattro volte a settimana, per controllare se avesse bisogno di qualcosa, oppure solo per tenerle compagnia – in seguito a un’operazione malriuscita, Roberta era finita su una sedia a rotelle. In queste occasioni, Roberta soleva abbandonarsi alla nostalgia. Le raccontava di come un tempo la vita fosse più semplice e della propria infanzia, col discorso che spesso scivolava sul cosa significasse avere fame nel periodo della seconda guerra mondiale. Una sensazione che l’aveva segnata per tutta la vita e che, diceva sempre, le generazioni dopo la sua non avrebbero mai conosciuto. Perché una cosa è avere fame e andare al negozio per comprarsi da mangiare; ben diverso è avere fame e non trovare il negozio perché…
«Cosa dovevano vendere se di cibo non ce n’era? Al giorno d’oggi» sermonava, «è inconcepibile morire per fame nella società occidentale. I poveri, quelli a cui tocca lottare per procacciarsi un pasto, tra Caritas, organizzazioni varie, chiese, supermercati che si disfano di alimenti non più vendibili ma comunque mangiabili, e anime buone che si danno da fare per aiutarli, alla fine qualcosa da mettere sotto i denti lo trovano perché il cibo c’è. Quando ero bambina io, il cibo mancava materialmente. Eravamo tutti secchi! Ricordo che avevo sempre fame, ogni momento della giornata. Lo stomaco non ti lasciava in pace finché non lo accontentavi, ed era la paura di non sopravvivere a darti la forza di andare alla ricerca di un po’ di pane. Perché qualcuno che si è debilitato fino a non riprendersi più l’abbiamo avuto anche in famiglia… A volte papà riusciva a portare qualche arancia a casa. Le dividevamo a spicchi, senza mai gettar via le bucce. Le conservavamo per i giorni di disperazione. Lo sai, Maria, le bucce delle arance non sono poi tanto male se le lasci seccare per qualche giorno al sole. Era l’unico modo per mangiarle, visto che non si trovava nemmeno lo zucchero per fare le scorzette.»
E per mera curiosità, lei ci aveva provato ad assaggiarle essiccate.
Meglio digiunare, aveva pensato, tanto erano amare. L’arsenico deve avere un sapore simile.
Eppure, Roberta le aveva mangiate. E anche di gusto. Evidentemente, quelle erano raddolcite da un condimento speciale: la fame. Un condimento che, pensando ai bambini pelle e ossa del terzo mondo, doveva trasmettere una delle più brutte sensazioni in assoluto. Forse questo pensiero l’aveva terrorizzata a tal punto che, inconsciamente, si era adoperata affinché il suo Giogiò non dovesse mai conoscere la fame.
Cuore di mamma, orgoglio personale e memorie di nuora. Le tre ragioni per le quali aveva sempre stroncato i tentativi del marito di limitare Giogiò. Adesso si rendeva conto che, agevolandolo nell’approvvigionamento smodato con cui accontentava il suo stomaco, i danni riportati avevano assunto proporzioni non più trascurabili: 122 e 162, ossia peso per altezza
.
«Tu che intendi fare?» gli domandò Maria.
«Voglio parlare con lui.»
«Beh, sei suo padre. Nessuno te lo vieta.»
«Però tu mi devi spalleggiare. A parole, ma soprattutto coi fatti.»
Era una situazione complicata. Pur comprendendo che lui aveva ragione, era anche consapevole di quanto sarebbe stata dura per lei. Già a parole, si rivelava debole e per niente persuasiva. Figurarsi coi fatti.
«Se gli faccio ‘il discorso’, dev’essere una tantum. Affinché siano efficaci, certe cose vanno dette una volta soltanto. O comunque il meno possibile. Come quando ti dico che ti amo. Se no diventano una barzelletta. Io te l’ho detto quattro volte da che ci siamo sposati. Al nostro matrimonio, quando è nato Giogiò, il giorno in cui ti sei operata al rene e adesso.»
L’esempio la disorientò. L’aveva sempre ferita che lui non le dicesse quasi mai cosa provava per lei, ma l’abitudine aveva anestetizzato la delusione. Era fatto così. Non gli piacevano le smancerie. Lei lo amava e lo aveva accettato per come era, senza mai pretendere che cambiasse per soddisfare il proprio desiderio di romanticismo. Non immaginava che dietro la sua parsimonia di tenerezze ci fosse la nobile intenzione di ammantare il sentimento di silenzio per preservarne la purezza. E poiché a quelle due paroline – nemmeno proferite in una dichiarazione diretta, ma quasi buttate lì per caso – il cuore le era vibrato nel petto, doveva essere come diceva lui.
Le parole d’amore fanno tremare di più quando risuonano come sporadici colpi di cannone anziché