Se mi lasci, ti uccido
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Anteprima del libro
Se mi lasci, ti uccido - Norma Stramucci
Se mi lasci ti uccido
Variazioni sul tema
Norma Stramucci
Abel Books
In copertina, Andrea Trisciuzzi, Indifferenza, scultura
Proprietà letteraria riservata
© 2012 Abel Books
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Abel Books
via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
ISBN 9788867520305
Un gelo si apprese al loro cuore,e lasciarono cadere le ali.
Saffo
CRISTINA
1
Il suo cuore è un carbone vivo gettato in una secchia d’acqua.
«Mamma. Ti devo dire una cosa». Cristina sussurra mentre le lacrime che le rigano il viso non commuovono Rosalba. Anche se sono le lacrime di un agnello, di una tortora, sono solo per la madre acqua che scorre, e a lei non riguarda ciò che si muove, ciò che il tempo cambia.
«Che c’è? Che hai combinato?». E non c’è nemmeno interrogazione nei suoi occhi, come se nulla della figlia le importasse. Cristina si volta, si getta riversa sul divano e con la bocca che quasi ne tocca il rivestimento ruvido, con la testa tra le mani, e testa di colomba sotto l’ala:
«Sono incinta» dice.
Come avesse detto ho sete, o devo uscire, o vado al bagno. Rosalba non reagisce. Quasi che le parole di Cristina non siano che rumore aggiunto a quello del traffico, che scorre intenso nella strada. Un’auto suona violentemente il clacson. Arriva nella stanza, dalla finestra aperta, l’eco di una parolaccia. Rosalba non guida, non si mescola al traffico, esce malvolentieri, e lo spostamento del suo corpo non corrisponde ad alcun moto interiore.
«Non sei nemmeno fidanzata. Chi è?».
«Che faccio mamma. Che faccio?».
«Che fai? Ti sposi. Ti sposi. Non c’è altro da fare. Perché ti sposi, non è vero?». La risposta è uno zoccolo di cavallo che la prende in faccia. È pietra, è ferro, è acciaio la madre.
«E l’Università?».
«L’Università? Adesso ci pensi all’Università? Potevi stare attenta! Adesso te la sogni, l’Università, cretina!».
Cretina. Fin da piccola si è sentita chiamare cretina. No, non proprio fin da piccola, ma da quando è morto il padre. Cristina o cretina. Il suo nome. Cretina davvero. Cretina mille volte. Un milione di volte. Cretina quanto il numero delle stelle. Conti le stelle, pronunci i loro nomi: alfa tauri, alfa crucis, beta persei, zeta orionis, gamma virginis, beta orionis… e a ognuno ripeta la sua cretineria. Cretina ancora, mentre annuisce e non ha il coraggio di chiedere «e se abortissi?». Oppure «e se lo crescessimo da sole?». Per Rosalba la neve è neve, la sabbia è sabbia, il giardino è giardino. Ma la neve i lapponi la chiamano in mille modi, così gli arabi la sabbia, e i persiani il giardino. Rosalba manca di prospettiva, ed è incapace di dare alle cose un nome diverso dall’unico che conosce.
Si era sempre sentita abbastanza sicura di se stessa. Balle. È fragile, è debole se lascia che della sua carne si faccia farina. Un pugno di semi di mais, ma di quelli infestati da larve di lepidotteri nottuidi, sono i suoi muscoli, i suoi tessuti, le sue ossa, il suo cervello, i suoi pensieri. Farina per sorgo da foraggio e panico, non da cucina. Farina alla mercé di Rosalba e di Franco. Quel coglione che l’aveva accarezzata. Come fosse una bambina. Dapprima. E le erano piaciute quelle carezze. Carezze che Rosalba non le ha donato da troppo tempo. Carezze che del padre ricorda appena. Carezze che poi sono cambiate e lei si è ribellata. Lei non voleva. Dall’autoradio strusciava fuori stonata la voce di Elton John con la sua Candle in the wind. Voleva scendere dalla macchina. Voleva urlare. Voleva scappare. Non le faceva pena Lady Diana in quel momento. Pensava al sogno infranto della sua prima volta, una dolcissima prima volta. In un bel posto e con tanto, tantissimo amore. Non sul sedile reclinato di una Ford Escort grigio metallizzato. Lady Diana l’avrà avuta splendida, la sua prima volta.
Un’aquila. Si era trasformato in un’aquila avventata sul cerbiatto che aveva ingenuamente proteso il collo al cielo. Le mani erano diventate gli artigli acuti e le braccia l’apertura alare che l’ha immobilizzata.
«Ma che sei vergine? E chi se l’aspettava!». Lui ha esclamato mentre a lei sembrava che la luna cadesse, che il cielo con violenza vomitasse le sue stelle. Mentre vomita ora, all’improvviso, e sporca se stessa, e il pavimento, e il divano.
«Cretina!» Rosalba la colpisce con la sua solita durezza. Pietra. Ferro. Acciaio.
«Resta macchiato adesso, lo sai?».
Invoca la pioggia e la tempesta. Che lavino l’asfalto della strada. Che scuotano il suo cervello. Invece il cielo è sereno. Il cielo non dà segno di conoscere il suo dramma. Le stelle non sorgeranno, quella sera.
L’estate è appena finita. Lei l’ha trascorsa con l’incubo di essere incinta. Poi, un sabato mattina, in autobus è andata sola a Perugia. Lì è salita su un autobus, uno qualunque, purché la portasse verso la periferia. Ed è scesa quando ha visto la croce verde di una farmacia. Sotto la croce il rettangolo con la scritta digitale del giorno: 24-08 alternata a quella della temperatura: + 32°, in rosso. Ha chiesto con vergogna il test di gravidanza. Ha percorso inversamente tutto il tragitto fino a ritrovarsi nel bagno, a leggere le istruzioni della confezione attentamente. Un’infinità di volte. Ha pregato che nelle sue urine non vi fosse traccia dell’ormone hCG. Rosalba guardava la televisione. Il volume abbastanza alto le permetteva di ascoltare. Il Tg riferiva della compartecipazione tra la compagnia di assicurazione Unionvita con l’americana Alico, e di come attraverso questa la Cisl, nella persona del suo segretario aggiunto Raffaele Morese, intendesse giocare un ruolo diretto nella previdenza integrativa, denunciandone il conflitto di interessi. Non le interessava. Ha fatto la pipì sul bidè, tenendosi sotto un bicchiere di carta per raccoglierne un po’. Troppa, forse. Due triestini, in una nave greca, in viaggio per la Turchia, trovati i bagni sporchi, senza acqua corrente da tre giorni, sono stati invitati, da un membro dell’equipaggio, a pulirli. I due avrebbero fatto causa alla compagnia greca Marilines. Ha immerso il bastoncino nel bicchiere. Lo ha sollevato e appoggiato sul ripiano del lavandino. Tre minuti. Ha dovuto aspettare tre minuti. Tre minuti nell’attesa che nella finestrella a metà non comparisse alcuna linea blu. Il giorno prima era stato il secondo anniversario della morte di Paolo Volponi. Lei aveva letto Le mosche del capitale, allegoria della vita alla Olivetti e alla Fiat. Il protagonista, il dirigente industriale Bruto Saraccini, alter ego dello stesso Volponi, fallisce nel suo piano di volere riformare in maniera democratica e progressista l’impresa. Ancora due minuti. L’accusa di azioni sovversive fa sì che venga arrestato l’operaio Antonino Tecraso. Un solo minuto. Insomma, per l’anniversario la famiglia ha concesso la pubblicazione di un inedito dal titolo Roma, la bella, divorata dal Mostro. Lo scritto riporta la proposta dello scrittore per liberare la città dalla burocrazia che la soffoca. Blu. La linea era indiscutibilmente di colore blu.
Marta e Giulia si sono scocciate dei suoi mutismi qualche volta. Le chiedevano che avesse. Ma soprattutto avevano voglia di divertirsi. Niente di particolare, ma qualche sera in discoteca, a tirar tardi, ci tenevano a farla. Giulia aveva la macchina e raggiungevano Perugia in poco tempo. Lei, non è andata quasi mai. Ha subito sofferto di nausea, e l’atmosfera chiusa e pesante, carica di fumo, della discoteca la faceva davvero stare male. Un’estate incredibile. Orrenda. Vorrebbe tornare bambina, con suo padre che la domenica la accompagnava a giocare al Parco e le comprava il gelato. Le piaceva mangiarlo seduta sull’altalena. Dondolarsi leggera, con il cono in mano, come un’alga filamentosa delle acque dolci. Con sua madre che le raccomandava di non sporcarsi ma che poi sorrideva, invitandola a contare quante macchie fosse stata capace di farsi. Già, sorrideva Rosalba. Una volta. Tanto tempo fa, quando si muovevano, lei e il suo mondo. E Cristina con loro. Nella sua stanza non è forte la luce, ma non c’è acqua a filtrare le radiazioni del sole. E se ora è un’alga, non è di quelle verdi vicine alla superficie, alle quali non fa male la luce arancio vivo. È un’alga rossa delle profondità, che dovrebbe essere protetta da chilometri d’acqua e crescere in una tenue luce blu. Il sole la colpisce invece con violenza, e avvizzisce.
Le aveva avute sempre regolari. Ogni ventisette giorni si ripresentavano. Marta e Giulia dicevano che era fortunata, che così, quando ne sarebbe stato il momento, avrebbe potuto fare affidamento sul metodo di Ogino. Ma a Ogino non aveva pensato quella sera. Non ci aveva neanche potuto pensare. Una volta. Un’unica volta. Una volta sola. Era felice. L’esame di Maturità era andato alla grande e si era diplomata ragioniera con il massimo dei voti. Proprio quella mattina erano andate in treno a iscriversi a Economia e Commercio. Lei, Marta e Giulia. Avevano le idee chiare: la laurea, l’abilitazione, un minimo di praticantato e vai con il loro studio! ART, lo avrebbero chiamato, dalle iniziali dei loro cognomi, Arcieri, Raimondi e Torrini. Eccome se lo Studio ora esiste, ma si chiama semplicemente Associato Arcieri e Torrini. Lei, Cristina Raimondi, a Economia e Commercio, non è mai arrivata.
Marta e Giulia si erano sfiatate. Non uscirci Cristina. Non le ha volute ascoltare. Ha reso polvere, minutissime particelle incoerenti, le loro parole. Ci ha soffiato sopra per liberare l’oggetto sul quale volevano posarsi.