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I love Napoli
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E-book532 pagine7 ore

I love Napoli

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Info su questo ebook

Storie insolite, grandi personaggi, luoghi magici e leggende popolari

Si scende tra i vicoli, si sale ai quartieri, la gente canta, con pochi euro pranzi e se sei fortunato arrivi fino al mare. Le mura greche e le Madonne barocche, pezzi di templi incastonati e sacerdotesse nascoste a San Gregorio Armeno, mentre pastori di maggio ricordano presepi di dicembre. Chiunque giunga a Napoli, trova quello che cerca, ‘o sole mio potente che s’infrange sul giallo tufo che ha incantato gli Impressionisti, il filo d’olio che impregna le freselle, il vociare dei venditori ambulanti e la seduzione delle sirene, che sotto forme molteplici incatenano i desideri, fino a far sperare di non dover mai più ripartire. Da San Martino, da Posillipo, dalleterrazze di Castel dell’Ovo, una città che cambia faccia e cambia bellezza: morbida, colorata, malinconica, pura come un velo candido che si posa sulle mani. I love Napoli è il desiderio di andare oltre, di guardare il Vesuvio e sentire il fremito del fuoco, il profumo del vino sui fianchi della montagna. Maradona e il delirio di un pallone e una fede immortale. Il cinema, i vedutisti, le cartoline che siamo stanchi di staccare, san Gennaro, il gesto antico che si ritrova identico alla Pignasecca, a Forcella, al Mercato, ma si muove dai mosaici del museo archeologico e finisce sulle pellicole di Totò.

Questa città non è un luogo comune tra i temi trattati:
• Nel nome di Parthenope
• Mediterraneo storie di incantesimi e naufragi
• Le onde di via Caracciolo e la nascita del cinema prima dei fratelli Lumiere
• Barocco: eretici, corpi e altri piaceri
• De ludo globi: Mergellina il San Paolo e un giorno all’improvviso
• San Gennaro ha i volti di Napoli
• Pompei e l’amore eterno
• I veli di Persefone al Purgatorio ad Arco
• Totò e il gesto nell’arte
Agnese Palumbo
giornalista, ha collaborato con «la Repubblica», «il Riformista», «D di Repubblica». Per il teatro ha scritto, con Massimo Piccolo, Sante, Madonne e Malefemmene e Non farlo nel mio nome, storia di una brigantessa. Collabora con la casa di produzione cinematografica MoonOver. Per la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita, 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato, 101 donne che hanno fatto grande Napoli e I love Napoli. Con Maurizio Ponticello ha scritto Misteri, segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi. È vicepresidente dell’associazione Luna di Seta e guida turistica per la Regione Campania.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2018
ISBN9788822726735
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    Anteprima del libro

    I love Napoli - Agnese Palumbo

    1. Nel nome di Parthenope

    Quanto t’ho amata

    In case arrugginite

    È il mare

    Che le ha cullate

    Lungo le rive chiare

    È una canzone d’amore

    Il mare

    Che culla il mio cuore nella vita.

    Charles Trenet, La mer

    (trad. di P. Panella)

    Si inizia da lei, perché è da lei che tutto ha inizio. Si inizia da qui, dalle membra della Sirena spiaggiata sull’isolotto dove comincia la storia di ciascuno di noi, Megaride.

    Corruptio unius est generatio alterius, le onde si infrangono esattamente come allora, contro gli speroni rocciosi, sulla battigia fin sulla terra, in fondo al nostro stomaco, specchio d’acqua di memoria. Dal corpo corrotto della Sirena nasce Napoli, la morte dell’una è la generazione dell’altra: la metamorfosi della donna-uccello in città. Le sue carni mitiche si guastano, l’ibrido essere mostruoso, il suo canto antico, il suo coraggio eterno. L’alchimia chiama questa trasmutazione Opera al nero. Noi, fondazione. Questa storia non la conoscete, perché non l’ho ancora raccontata.

    La prima immagine di Sirena era un uccello, Omero la descrive appollaiata su una rupe a custodia del passaggio. Non c’è notizia della coda di pesce né dei lunghi capelli brillanti. La seduzione che il Medioevo le attribuirà, come perdizione erotica, era in origine un dono straordinario, la funzione di traghettare le anime nel mondo dei morti. «Il canto delle Sirene ispira le anime che dalla terra emigrano agli Inferi e sono erranti dopo la morte, l’oblio di ciò che è perituro e l’amore di ciò che è divino, e loro, incantate dall’armonia di questo canto, lo cercano e vi si legano» (Pausania).

    Figura psicopompa, che nessun vivo oltrepassi il limen, che nessun morto faccia lo stesso.

    Acquieta gli animi il canto, supera lo spavento della morte, le anime disorientate, che ancora non hanno ben capito cosa è successo loro si affidano al canto, si lasciano accompagnare oltre la vita.

    Nasce gravida di un amore inesausto per le antitesi Napoli: donna-uccello, donna-pesce, luce e buio, sopra e sotto, cieli e Inferi, mezza e mezza, meticcia contraddizione che si supera, conflitto che si compie nell’Armonia. Platone le colloca a presidio degli astri, tra le entità femminili che presiedono al destino dell’universo e dei mortali. Sono nelle sfere celesti assieme alle tre parche, espressione delle leggi del Fato e del Tempo (Repubblica, x, xiv): c’è una Sirena deputata a ognicerchio cosmico, in grado di dare un tono. Otto Sirene che con il loro canto generano l’Armonia.

    Ma cosa cantavano le Sirene? Tiberio tormentava i suoi sapienti. Che melodia, che segreto nascondeva quella voce? Cosa rispondere all’imperatore? Cosa risponderemmo oggi?

    Qual era l’effetto d’insieme di quell’accordo arcano, era davvero musica? Lo specchio universale di ogni musica terrena?

    La tomba di Parthenope, si racconta, non è sull’isolotto ma sulla terraferma, nel luogo dove sorge il Teatro San Carlo, il più antico teatro lirico del mondo. Le sue spoglie si custodirebbero sotto le fondamenta mentre la sua effigie dorata, patrona del palcoscenico, domina il Tempo alato nel sottarco del proscenio. Un orologio strano, dalla corona più simile a uno zodiaco, ha le cifre orarie che ruotano intorno al dito dell’uomo alato, una figura che con il braccio destro sovrintende al movimento, mostrandoci come le lancette stiano ferme e a muoversi è invece il quadrante.

    E Parthenope suggerisce a questo scorrere inesorabile di rallentare, per dare modo agli ospiti del teatro di godere della magia delle arti, rappresentate dalle tre Muse, la Poesia, la Musica e la Danza.

    Ma non siamo convinti. Circe non avrebbe avuto tanta premura per Ulisse se fosse stato solo un canto. L’eroe lasciava il suo letto, la maga gli concedeva di tornare a casa. Nove anni dovrai aspettare, ma ancora non poteva saperlo, va’ ad incontrare Tiresia perché ti istruisca. La rotta verso gli Inferi ha un solo ostacolo e non è il canto, ma la curiosità.

    Aveva impugnato le armi e aveva combattuto una guerra, Ulisse, con la spada e con l’arco; aveva immaginato espedienti, aveva costruito un cavallo, aveva rinunciato all’amore e alla conoscenza di Circe, regina di stratagemmi, ingannatrice simile a lui e più potente di lui, aveva accecato un gigante, Polifemo, era sopravvissuto all’ira di Poseidone, protetto da Athena e da Hermes, aveva navigato alla ricerca della rotta solo per tornare a Itaca. E ora era lì, ad affrontare il suo mostro.

    Il passaggio con le Sirene è il momento in cui l’eroe si compie, ma lui non lo sa ancora. Senza il mostro l’eroe non è niente. Quando decide di affrontarlo, nella battaglia necessaria, lui non ha potere e non ha sapienza, il trionfo sarà la nascita, il suo venire al mondo, il rito con cui si uccidono i padri per dare vita ai figli. Ulisse non esisterebbe senza la Sirena. Napoli non esisterebbe senza Ulisse.

    È uno stamnos attico, la prima immagine della fondazione di questa Napoli. Il primo racconto per immagini delle Sirene alate. Un contenitore per liquidi del vi secolo a.C., tre Sirene in picchiata, le ali spiegate e sulla nave un uomo è legato strettamente all’albero maestro grazie ai nodi fermi intorno ai polsi. La maga gli ha suggerito l’uso della cera, che tappando le orecchie protegge dal canto. Lui ha immaginato l’espediente delle funi per sentire tutto senza il desiderio di buttarsi in mare. Finisce allora che seirà, colei che incatena, è beffata da una corda. Omero non ci racconta come va a finire questa storia, lo fanno altre fonti, lo fa il racconto popolare. Parthenope, Leucosia e Ligea, per la rabbia della sconfitta, si sarebbero lasciate annegare¹. Il pittore del suicidio delle Sirene avrebbe così impresso a figure rosse nell’immaginario dell’Occidente la fondazione della città di Napoli.

    Che strana storia questa delle Sirene che annegano.

    Ma è il vaso attico che ce le descrive nella maniera più arcaica. Parthenope infatti non era un pesce, ma un uccello. Aveva grandi ali e grosse zampe con artigli rapaci, un bellissimo volto di donna e splendidi seni. È raffigurata su una fontana sconosciuta ai più, la fontana addossata alla chiesa di Santa Caterina Spinacorona². Dum Vesevi Syrena Incendia Mulcet, la dea alata che ha gli artigli conficcati nella bocca del Vesuvio e dai suoi capezzoli sgorga acqua viva.

    La fontana delle zizze, che ha un’origine incerta, si crede del Cinquecento, ma si hanno notizie fin dal 1139 e la lava che fuoriesce dai lati del vulcano è figlia di un’eruzione antica, mentre dal 1631 il fiume di fuoco uscirà dalla cima (C. Celano). E il nome lo prenderebbe da un affresco sull’altare, un crocifisso da cui sgorgava sangue raccolto in un vaso. Lac Virginis, il Mercurio dei filosofi, il latte della vergine nella tradizione ermetica, l’energia fecondatrice dell’universo. L’energia che nel cielo è trattenuta nelle invisibili vibrazioni degli astri.

    Ogni patrono, nel tempo, è stato chiamato a confrontarsi con lo Sterminatore, a interdirne la potenza catastrofica. Il sangue è l’elemento comune. Il latte che esce dai seni nelle antiche credenze mediche si pensava fosse mestruo trasformato, il vino con cui Dioniso celebrava i suoi baccanali verrà associato nella transustanziazione al sangue di Cristo, san Gennaro e santa Patrizia lo sciolgono a protezione della città. È la prima patrona dopo Dioniso, la figura doppia di santa Patrizia, che nonostante il miracolo del sangue che completa con san Gennaro, mantiene il suo mito di fondazione e la sua consacrazione nell’acqua di mare.

    Parthenope del resto sarebbe nata, secondo un mito, proprio di sangue del padre Acheloo, il potente fiume rappresentato come un uomo barbuto con corna taurine. Come Tritone aveva la parte inferiore del corpo simile a quella di un pesce serpentiforme. E nella battaglia contro Eracle, dove perse un corno, invano aveva assunto forme diverse, tra cui proprio quella di un toro, ma l’eroe lo aveva comunque sconfitto. Dalle gocce del corno strappato nacquero le Sirene. Esseri dell’aria che avevano già un legame forte con l’acqua.

    La trasformazione, dalle ali alla coda, era avvenuta nella tarda antichità e poi nel Medioevo: vediamo le Sirene tramutarsi da uccelli sinistramente artigliati in flessuosi esseri dal corpo femminile. Non senza una fase in cui le code sono due, bicaudata nella guglia di San Domenico e in quella di San Gennaro in piazza Riario Sforza, dove stringe i seni tra le mani per farne uscire il latte, erotica seduzione che celebra il doppio e la circolarità dell’esistere.

    Passano morbide dalle rocce di vedetta alle onde, e sinuose e perdute si distinguono tra i flutti. L’oscura e potente facoltà psicopompa che le aveva caratterizzate diventerà l’adescamento degli uomini, in una lettura di genere che vuole le donne madri e custodi del focolare o femmine insidiose dalla dubbia moralità.

    In piazza Sannazaro Onofrio Buccini, con la collaborazione di un giovanissimo Francesco Jerace, la immagina come una matrona napoletana florida e generosa, mentre domina il mare che le sta a un passo, nel cuore di Mergellina (1869). Non ha le ali, ma una coda carnosa che le avvolge i fianchi. Si erge su uno scoglio circondata da animali marini e zampilli d’acqua pieni, con la mano destra stringe una lira, mentre il braccio sinistro è puntato verso l’alto. Copia marmorea di un carro di Piedigrotta che portato in trionfo fece arrossire d’imbarazzo la città. Quanto erotismo trasuda da questa cartapesta… signori, per favore, coprite gli occhi ai bambini. Quanta seduzione riesce ancora a profondere Napoli… signori, spalancate l’animo, nessuna città è uguale.

    La Sirena e l’identità di Napoli che comincia esattamente

    da qui. La catabasi dell’amore

    I napoletani hanno colto da sempre la potenza creatrice e fecondante del loro nume tutelare, l’anima fondatrice della città che si chiamerà Palepolis, la città vecchia, ma che in origine ne prendeva il nome, Parthenope. Venerata con il suo tempio, le sue sacerdotesse, i suoi riti di celebrazione.

    I più rappresentativi si tenevano nell’antico vicolo Lampadius, oggi vico della Pace, le corse lampadiche, la rituale corsa con le fiaccole. Un flusso ardente portato in trionfo dal Ginnasio, la prima regione³, una delle quattro in cui era divisa la città, fino alla torre di Falero. Giovani che, nudi, davano vita a una lunga ed estenuante corsa portando il sacro fuoco fin sul sepolcro della progenitrice. Secondo Strabone e Dionigi d’Alicarnasso, oltre al sacrificio di buoi, si facevano queste lampadoforie con «una valenza stellare e celeste, legata al perpetuo rinnovarsi della vita». Un rito mistico e familiare che ricordava Eleusi e Demetra, una delle dee fondatrici di Napoli. Fiaccole e bagliori sanguigni illuminavano il fondo della notte, dal cuore della polis costeggiavano il mare, il popolo seguiva i corridori e urlava, incitandoli esaltato. Arrivati alla tomba, le giravano tre volte intorno, accatastandovi le fiaccole ai piedi e il nome di Parthenope veniva invocato a gran voce.

    I giochi furono istituiti nel 445 a.C. dal navarca Diotimo per dare vita a uno straordinario progetto politico e di identità. Il prefetto dell’armata ateniese, arrivò a Neapolis con dieci navi e seicento coloni, restaurò il culto della Sirena Parthenope e, dopo aver celebrato dei sacrifici in suo onore, istituì dei giochi per rafforzare il profondo legame che esisteva tra Neapolis e Atene. Con Pericle all’apice del suo successo politico, la potenza ateniese cercava di legare a sé le città strategiche, e Neapolis era necessaria per conquistare il controllo del golfo di Kyme (l’attuale golfo di Napoli). Allontanarla dall’influenza cumana e siracusana era fondamentale. Per tagliare fuori le due città avversarie dallo scacchiere tirreno.

    Su cosa si costruisce un’identità?

    Sulla tua risorsa più grande, potrebbe essere la risposta.

    E Parthenope era qualcosa di unico, di assoluto, di sola proprietà dei napoletani.

    E allora si parte da lei, perché è da lei che tutto ha inizio.

    Il culto della Sirena coincide con l’acquisizione politica dell’identità di Napoli, che non è più una colonia, un pezzo di Cuma, un appoggio commerciale di qualcosa altrove.

    Il progetto dell’ateniese fu così vincente che da quel momento si cominciò a battere moneta con il volto di Parthenope. Le monete avevano la presenza di Apollo, divinità fondamentale, ma condivisa con Cuma e Siracusa, per i duecento anni successivi lo statere d’argento avrà adesso Parthenope sul recto e sul verso Archeloo, anche associato alla Nike, la vittoria alata, che lo incorona nelle sue fattezze di toro androcefalo. Una divinità tradizionalmente teleboica e non ionia. L’ambasciatore ateniese era riuscito a far scattare la molla d’orgoglio, l’aveva trovata nella protezione della Sirena, aveva dato a Neapolis quell’identità che la renderà la città più potente del Tirreno centrale.

    Un’epigrafe medievale nella chiesa di Sant’Eligio collocherebbe Parthenope molto prima di Ulisse e prima perfino della fondazione greca dell’viii secolo a.C. Il riferimento porterebbe alla spedizione degli Argonauti, giovane figlia di Eumelo Falero (Phaleros). Continuò il suo viaggio nel Mediterraneo sbarcando ai piedi di Pizzofalcone (1225 a.C). Nascerà al suo passaggio un punto di osservazione che chiamarono Megaride con la sua torre, il suo porto greco, e quello spazio che «accoglierà la Sirena sbattuta dal mare e sul sepolcro che le sarà innalzato, le vergini verranno ogni anno a libare e a far sacrifici», scrive il poeta Licofrone.

    parthenopae. eumeli. phaerae tessaliae. regis. filiae. pharetis. cretique regum. neptis. quae euboea. colonia. deducta civitati. prima. fundamenta iecit. et dominata. estordo. et. populus. neapolitanus. memoriam ab orco. vindicavit

    Eumelo era uno degli eroi partiti alla conquista del Vello d’oro al seguito di Giasone, imbarcati sulla nave Argo, che fu protagonista celebrata tanto quanto i suoi stessi eroi. Argo, Castore e Polluce, Giasone, Orfeo… ci troviamo nel viaggio di ritorno, il primo nostos, in quella geografia sacra che sarà ripercorsa da Odisseo una generazione eroica successiva. L’incontro con le Sirene avviene in questo spazio. E non solo Eumelo Falero è il collegamento con Napoli, Orfeo ne è l’anima.

    Nella città del sole vige il culto di Orfeo, il prodigioso poeta archetipo, in grado di smuovere col suo canto l’intera natura, disceso negli Inferi per salvare la sua amata, misura pagana di quella resurrezione che si sarebbe potuta compiere all’imbocco della grotta, se solo lui non si fosse girato. L’uomo che è il passaggio tra la vita e la morte, il doloroso conflitto che ha come unico scampo l’arte; il potere orfico in grado di spigionare la maestosità della Natura, il suo canto, ricco di quel tragicismo tipico degli Inferi. Il canto che sconfigge le Sirene nella gara e fa passare indenni gli Argonauti non è un canto qualsiasi, non è seduzione degli uomini e degli animali, il potere sulle creature e sugli elementi connessi alla sfera marina (che avevano poteri oracolari), lui arriva a incantare le pietre e le rocce. Figlio di Calliope, musa dalla bella voce. Altre fonti vorrebbero il padre addirittura Apollo.

    «Far muovere le pietre col canto non era dimostrazione di poteri magici; significava invece la capacità che la mousiké-cultura aveva di ridurre a sé quanto di più naturale (= di meno umano) potesse trovare: non gli animali, che erano zôa, cioè viventi come l’uomo; non le piante che, come l’uomo, nascono, crescono, si riproducono e muoiono; ma le pietre. Gli animali e le piante si addomesticano, si usano come nutrimento; e le pietre? Le pietre in questo contesto hanno evocato la contrapposizione tra la cultura rappresentata dalla città e la natura rappresentata dalle pietre: la forma della città data dalla sua cinta muraria e la materia della cinta muraria stessa» (Sabbatucci).

    Arte, amore e morte, ne disse Charles Segal, gli elementi fondamentali del mito configurano un triangolo in divenire: amore-morte, amore-arte, arte-morte, dove è la base a dettare l’esito. L’arte e l’amore possono trionfare sulla morte o possono subirne lo scacco di fronte alla necessità ultima. Dioniso è la terza via tra lo spirito apollineo e quello dionisiaco, tra Apollo Sole e Dioniso, il dio dell’equilibrio e della misura, principio, il dio della melodia e del canto armonico, contro il dio dell’ebbrezza, della musica sfrenata, della danza, dell’estasi che tende ad annullare l’io fondendolo con il tutto: due elementi che alterni generano non solo la vita, ma l’uomo e le sue anime. La sua musica è l’abilità di generare armonia, di rimettere insieme ogni parte del cosmo. Di organizzarlo e riportarlo all’uomo. «La discesa agli Inferi e il tentativo di riavere Euridice era stato l’episodio culminante diuna carriera tutta giocata sull’armonia, sulla conciliazione che deve seguire all’armonia, sulla convivenza dei mondi (celeste, terrestre e sotterraneo) e dei regni (divino, umano e animale – persino vegetale e minerale, come sappiamo da alcuni episodi del mito)» (Chiarini).

    Il suo canto magico aveva perfino convinto la regina degli Inferi, Persefone, a restituirgli la sua sposa. Mai si può tornare vivi dal regno dei morti, per lui si fa un’eccezione. Ma non ti voltare, finché lei non sarà fuori, finché non sarà dall’altra parte, tu non ti voltare.

    La catabasi, la discesa agli Inferi, è raccontata nella lastra di marmo al Museo Archeologico di Napoli, struggente l’immagine dello sguardo laconico dell’eroe che perde l’amore.

    Dirsi addio nonostante l’amore, l’arte e il sacrificio fatto scendendo fin dentro le viscere della terra, oltre il mondo dei vivi a dettare legge in quello dei morti. A provarci almeno. Riuscendo a commuovere gli dèi e scoprire che non è abbastanza. A chi viene in mente uno struggimento maggiore? Perdere due volte lo stesso amore.

    Orfeo usa il suo unico talento, la musica. Incanta, trova le parole convincenti e le sostituisce con le note, i pizzichi e gli sfioramenti delle corde dello strumento. La lira parla per lui. Ma non è abbastanza. Era passato per le gole strette di Neapolis, aveva incontrato e sconfitto le Sirene in una gara di canto. Era a bordo della nave Argo con Giasone e gli altri. Torna negli stessi luoghi il cantore trace, il bassorilievo di Orfeo, Euridice e Hermes al Museo, nel corridoio dei Grandi Maestri.

    Non ebbero cuore, regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera, e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava, e venne avanti con passo reso lento dalla ferita. Orfeo, prendendola per mano, ricevette l’ordine di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono. In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile. E ormai non erano lontani dalla superficie della terra, quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla, l’innamorato Orfeo si volse: subito lei svanì nell’Averno; cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata, ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente. Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero (di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?); per l’ultima volta disse «addio», un addio che alle sue orecchie giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.

    Ovidio nelle Metamorfosi coglie la più potente modernità di questo mito, la perdita, il dolore, eppure il più grande amore che si possa immaginare, il sacrificio estremo. Di cosa poteva lamentarsi Euridice? di essere stata amata tanto da andare a riprendersela negli Inferi? «Nelle gole del Tènaro, persino, nelle porte profonde di Dite, penetrò, nel bosco cupo, scuro di una nera paura: e giunse fino ai Mani e al re tremendo e ai cuori che non sanno farsi docili alle preghiere umane», canta Virgilio nelle Georgiche. Orfeo l’incantatore, lo sciamano che comunica con i morti, secondo la tradizione orfica, «a introdurre l’alfabeto […] lo aveva imparato dalle Muse». Orfeo porta la parola fin dentro il silenzio della morte perché ama Euridice e non si rassegna alla sua fine.

    Si è girato per errore, si è girato per volontà? «Pensavo a quel gelo, quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue», scrive Cesare Pavese. «Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi Sia finita e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela».

    Non lo sapremo mai, scegliamo la nostra versione, ma certo è che quando Orfeo sentì di averla perduta, quando la consistenza del suo corpo era diventata aria perduta tra le dita uscì pazzo.

    Andò talmente fuori di senno che immaginò la morte come unica soluzione, se non poteva esserlo la vita. Si lanciò furioso per il mondo, violò il suo corpo e la sua anima, si infranse tra i dolori peggiori che si possano immaginare, fino ad affrontare l’ultimo pericolo, le Baccanti esaltate di Dioniso.

    «Nessun amore, nessun nuovo matrimonio piegò il cuore di Orfeo: andava solo, per i ghiacci iperborei […] gemendo per Euridice» (Virgilio). Solo la poesia che eterna il dolore, solo i suoi versi, che preferisce a tutta la vita che trionfa intorno. Anche le sacerdotesse hanno fame di vita, ardenti, affamate, lo uccidono, lo fanno a pezzi, se lo mangiano. Nel delirio, nell’orgia dei sensi lasciarono brandelli di corpo per terra, strazio di carni. Sola, rimase intatta la testa, che continuò a cantare. Sbranato il trace non muore, medium della sua testa mozzata che, dopo esser caduta nel fiume Ebro, assieme alla cetra, fluttuando sulle acque arriva al mar Egeo, sulle coste dell’isola di Lesbo e mormora e chiama e chiede ancora di Euridice: «murmurat exanimis» al suono flebile della lira. Diventa un oracolo, una capuzzella delle Fontanelle, una capa di morto del Purgatorio ad Arco. Mormora Orfeo e annuncia e predice e presagisce. Era sceso negli Inferi come corpo vivo e ora a quegli Inferi si collegava come voce oracolare. Fino a quando non arriva nei Campi Elisi e nel chiarore della vegetazione, tra raggi luminosi di sole, si riconoscono i due corpi di amanti che adesso si tengono stretti e adesso si prendono per mano, mentre le labbra si sfiorano piano. Perché questo mito ha un lieto fine, rarissimo, ma ce l’ha, perché questo amore fatto di strazi senza fine alla fine trionfa.

    Il mistero dell’altro canto

    I

    ntanto Ulisse che fine fa dopo le Sirene?

    Sappiamo che arriverà nell’Ade, in uno dei canti più struggenti dell’Odissea, l’undicesimo.

    Attraversa il fiume Oceano passando per la terra dei Cimmeri. Consulterà l’anima dell’indovino Tiresia dopo un oscuro sacrificio negromantico. E mentre il sangue nero dell’agnello che ha appena sgozzato irrora la fossa, l’indovino gli parla:

    ingegnoso Odisseo,

    perché infelice, lasciando la luce del sole,

    venisti a vedere i morti e questo lugubre luogo?

    È circondato da spiriti assetati che tiene lontani con la spada, mentre raccoglie il fluido rituale perché l’indovino possa berne a sufficienza e continuare a parlare:

    Cerchi il ritorno dolcezza di miele, splendido Odisseo,

    ma faticoso lo renderà un nume.

    Le ombre gli si stringono attorno inquiete, aspettano il proprio turno per bere e per parlare. Fra tutte, in disparte, una che riconosce se ne sta seduta muta:

    Madre, quale fato di morte, lungo strazio,

    ti ha sopraffatta?

    L’animo in tumulto, chiede di Itaca, di Penelope, dei figli, del suo regno. Ottiene risposte rassicuranti e dolorose. Poi più niente:

    Tre volte mi slanciai, spinto dall’ansia

    di abbracciarla, e tre volte dalle braccia

    mi volò via, simile ad ombra o sogno;

    […]

    «Madre, perché non resti, se io mi struggo

    di abbracciarti?

    E straziante lei può solo rispondere:

    Ahi, figlio mio […]

    questa è la legge dei mortali, quando

    qualcuno muore; ché le carni e le ossa

    più non reggono i tendini congiunte,

    ma tutto sfugge l’impetuosa furia

    del fuoco ardente, appena esce la vita

    dalle ossa bianche; e vagola per l’aria

    l’anima, e fugge a volo come un sogno.

    Il destino lo fece vagare per dieci anni lontano da Itaca. Perse la speranza ma non il desiderio, tra le tempeste e i naufragi, spinto oltre l’umana tolleranza nel cuore del Mediterraneo.

    Sanguineti immagina l’Odissea come un viaggio di ritorno, alla ricerca di un futuro che è in realtà il suo passato. «Ulisse vince le lusinghe della Regressione perché è tutto proteso verso la Restaurazione», gli risponderà Calvino in una tenzone sui due principali quotidiani nazionali, ché nei miti, come nelle fiabe e nel romanzo popolare, ogni impresa viene di regola rappresentata come la restaurazione di un ordine interiore e, la desiderabilità di un futuro da conquistare, viene garantita dalla memoria di un passato perduto («Corriere della Sera» 14 ottobre 1975). Il ritorno è dunque il vero motore di questo viaggio?

    Tiresia annuncia qualcosa in coda alla profezia. Mormora versi che restano in ombra, si perdono senza collocazione perché del resto Omero non ne parla davvero. Tornato a Itaca che ne è di Ulisse?

    «Quando gli eroi saranno morti, o antiquati, Odisseo guarderà ancora verso il mare da cui si aspetta la morte fantasticando di ripartire» (R. Calasso).

    Sul bordo del mare l’avventura torna a chiamarlo. Ma questa immagine la conosciamo già.

    Istanti gemelli, struggenti e speculari.

    Era su uno scoglio di fronte al mare e piangeva. L’eroe, esule e naufrago, ogni sera al tramonto tornava alla caverna dove lo attendeva Calipso. E ogni volta la dea gli offriva ambrosia e nettare rosso e lo guardava sperando che ne mangiasse. E ogni volta Ulisse cercava il cibo dei mortali.

    Ogigia era l’ombelico del mare, lontanissima dagli uomini nelle ignote acque occidentali. Un’isola di morte, eterna. Per sette anni l’eroe vi rimase intrappolato. Sarebbe potuto diventare immortale, Calipso era infinitamente superiore a Penelope, ma Ulisse voleva solo tornare a casa. Nessun eroe epico pianse mai in modo così straziante profondo e terribile come questo grande bugiardo (P. Citati). «Infelice, non starmi qui a piangere ancora, non rovinarti la vita: ti lascerò andare ormai volentieri», gli dice Calipso, e prepara una zattera, l’occultatrice, la dea dei veli, che gliene offre uno perché lo guidi il vento. Ulisse è l’ultimo fra gli eroi a ritornare. E molte volte rischia di non farcela.

    «Ma cosa cantano le Sirene?», se lo domanda anche Calvino. Nient’altro che l’Odissea, suppone, la tentazione di riflettere tutto come in uno specchio, come in quei banchetti dove gli aedi, i cantori, non raccontano altro che se stessi. E le gesta di quello che sta accadendo. Omero è Odisseo e Odisseo è se stesso nei canti di Demodoco, sull’isola dei Feaci, quando intona il canto dei fatti di Troia, di quando i Greci portarono oltre le mura il cavallo di legno, idea del luminoso Ulisse (viii, vv. 445 sgg). Lui che è presente, lacero e sfinito, accolto come un ospite ignoto, si lascia tradire da un turbamento, lui, che aveva ben imparato a celare la sua identità, a mostrarsi Nessuno, non riesce a trattenersi davanti alla seduzione e alle lusinghe di un canto che celebra il suo nome.

    Ritorna il doppio, un’altra volta. La stessa scena, ma questa volta è quella delle Sirene.

    Mentre il mare ondeggia, sotto l’incantesimo della voce del loro canto, Ulisse si sente chiamare.

    Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei

    […]

    Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia

    Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;

    Come resistere alla narrazione di se stessi? L’eroe viene chiamato per nome, emerge dal flusso dell’indistinzione, viene riconosciuto. Non è forse questa la narrazione omerica? Riconoscere gli eroi, narrarne le gesta, strapparli all’oblio. Non c’è gloria se non c’è un nome da celebrare.

    Aveva fatto lo stesso la seduttrice Elena, la mano poggiata sul ventre liscio del cavallo lo aveva percorso per tre volte e per tre volte aveva chiamato uno ad uno gli eroi che immaginava potessero essere nascosti nello stratagemma cavo⁵. Sembra di sentirla: Ulisse, Neottolemo, Epeo, ma sembra che li nomini tutti come la bella sintesi di un declino che si sta compiendo. Menelao, Peleo, Eurialo, Diomede, Filottete… e chi non c’è più, Ettore, Achille, Agamennone… evoca storie e destini, mentre sono ombre schiacciate sul fondo dell’animale, budella di trucioli e assi. Imita le voci delle loro mogli, delle madri, l’incanto della nostalgia. E solo Ulisse prontamente ferma il tentativo di uscire fuori, di correre all’esterno, di lasciarsi partorire prematuramente da quel ventre di legno.

    Mentre le Sirene cantano tutto intorno è ammaliato, tutti gli elementi, dalle acque ai venti alla terra stessa, partecipano alla seduzione del torpore e dell’inedia, il piacere dell’ascolto che tutto sospende, che vuole trattenere il corso della navigazione e condurla nell’immobilità, che fa morire gli uomini per consunzione. Ma Ulisse ha scelto un altro modo per tramandare il nome: la sua stirpe, la famiglia, suo figlio. Deve tornare a Itaca per riprendersi la memoria della discendenza.

    I Greci furono attirati dall’enigma. Ciò che non aveva soluzione, perché la risposta è anch’essa misteriosa. Per esempio, cantarono le Sirene? Diamo per scontato che misero in scena la celebrazione del loro essere, la tragicità di tutta la narrazione che si confaceva loro, ma ne siamo davvero certi? Del resto, chi l’ha raccontata questa storia? Ulisse, un bugiardo. O uno che aveva tutto l’interesse a farci una bella figura alla fine. È probabile allora che le cose andarono diversamente. «Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza», scrive Kafka. «Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all’albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile […] ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò direttamente incontro alle Sirene. Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. […] E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene». Ma Odisseo credette che cantassero. Più risolutivo Brecht: «Si può pensare che quelle femmine così potenti ed esperte sprecassero la loro arte per gente che non aveva nessuna libertà di movimento? E sarebbe questa l’essenza dell’arte? Io», continua il drammaturgo tedesco, «sarei propenso ad immaginare che quelle gole che i rematori vedevano gonfie allo spasimo urlassero insulti, a tutta forza, contro quel maledetto provinciale incapace di osare e che il nostro eroe eseguisse le sue contorsioni – anche quelle erano ben visibili – semplicemente perché anche lui, alla buonora, provava vergogna (B. Brecht, Dubbi sul mito). Ulisse se mettesse scuorno!, sentiremmo oggi da un balcone all’altro, se questo fosse un inciucio di palazzo.

    L’immagine è bellissima e potente. La Serao sosteneva che Parthenope non fosse morta, noi lo sottolineiamo con grande convinzione. Succede ogni volta che un imbroglione vuole fare il furbo, le Sirene hanno la forza straordinaria di rivoltarsi, e lo fanno così, con l’energia colorata che è loro propria, la sentiamo vibrare nei vicoli del mercato della Duchesca, a Sant’Antonio al Buvero, sopra le mura, dentro i Quartieri Spagnoli, a piazza Mercato, ai Banchi Nuovi, al Pallonetto a Santa Lucia, a un passo dal mare, dove si può essere incantatrici, ma anche capaci di ritornare all’occorrenza figlie del popolo.

    Intervista: la Tarantina, il femminiello della Dolce Vita, l’altra Sirena

    Se il limite segna l’identità della Sirena, quello stesso limite ha tracciato l’identità di molte delle sue creature , in questa città abituata a prendere la vita in tutta la sua interezza più che a classificarla per ordini imposti. La Tarantina parla di sé, lo fa ora al maschile ora al femminile, un po’ ci disorienta, poi lentamente ci si fa l’abitudine. C’è moltissima dolcezza nella sua voce, anche quando racconta esperienze strazianti, c’è tanta consapevolezza nei suoi racconti. Il profilo di un volto che ricorda una bellezza non comune, un’identità di genere sua con cui ha dovuto fare i conti molto presto: «Sono stata cacciata di casa a nove anni, un piccolo paese della Puglia, ho viaggiato di notte, ho dormito per strada, avevo paura, temevo per la mia vita, ma andare via non mi aveva resa più serena, la strada era un luogo orribile». Sono gli anni della seconda guerra mondiale, la povertà è una traccia che si scava sulla pelle, si dorme per strada, si fa la fame, in un momento qualcuno ti mette in prigione, o peggio, ti vende per un passaggio in macchina o un letto dove dormire. I corpi sono merce di scambio, quello di un ragazzino è merce preziosa. «A Taranto ho conosciuto un marinaio, gli avevo fatto pena, ero solo un bambino, e lui si prese l’impegno di portarmi da mangiare, veniva e condivideva con me quello che poteva. C’era la guerra, c’era davvero molto poco, finché una sera mi disse: Me ne vado, torno a Napoli qua ho finito. Mi sentii morire, lo supplicai di portami con lui». La supplica dovette essere davvero straziante – come faccio io non ho una lira – aveva solo il biglietto di ritorno, in treno. Quello che ti danno alla fine del servizio militare. A piedi, in autostop, si mossero per giorni, arrivarono fino a Salerno.

    «Alla fine, ci arrendemmo, saliamo sul primo treno, quello che succede succede. Ci sistemammo tra una carrozza e il corridoio per sorvegliare che non arrivasse il controllo, mi raccomando restiamo vigili, macché dopo pochi minuti crollammo addormentati, sfiniti, ci svegliammo direttamente a Napoli. Da piazza Garibaldi arrivammo fino a piazza Municipio, mi allontano un attimo, non lo rividi più». È una storia di perdite e di addii, come succede spesso in una vita lunga e piena come lo è stata questa della Tarantina, Carmelo Cosma, classe 1936. La sua vita è costellata di presenze effimere, incontri necessari che durano il tempo necessario, percorsi di vita che si incrociano solo per qualche momento.

    Ci accoglie a casa sua, un basso dei Quartieri Spagnoli una mattina di settembre con il caldo di agosto, a Napoli fa sempre così. Siamo in tre, con noi c’è Sergio Siano, un reporter originario di questi vicoli, ha una confidenza familiare con tutti, le sue foto, le sue facce, sono scorci assoluti, prospettive irripetibili, perché è lo sguardo di chi sa aspettare il momento giusto, la capacità di guardare oltre le pietre, gli scorci conosciuti, i panni stesi del folclore. Ci accompagna Regina De Maio, interprete, esperta di cultura giapponese, originaria di Pagani, conosce bene l’identità complessa dei femminielli.

    Molti anni dopo e tanta vita addosso: «Ho imparato ad aprire le porte di casa mia, qua fuori fino a qualche anno fa c’erano le prostitute, su vico lungo Gelso». La memoria va ai tessuti e alle sete, ai profumi, ai prezzari, la Tarantina ci indica le case chiuse della zona, per chi non stava per strada. «Io stavo dentro e sentivo la voce di qualche ragazzino: La Tarantina? Mi hanno detto che sta qua mi indicate la casa?. Casa sua diventa un ventre, un luogo di prima accoglienza quando ti buttano fuori di casa o, peggio, quando te ne devi scappare per evitare di finire morto di mazzate o di altro, sei veramente senza nessun orientamento. «Io non volevo che succedesse ad altri e se ho potuto l’ho evitato». Una rete di adozione e solidarietà straordinaria.

    Vico lungo Gelso, il primo dei Quartieri Spagnoli, la parallela di via Toledo. In un basso vive da anni questo bellissimo femminiello, Carmelo Cosma, ma per tutti è la Tarantina, l’ultimo tra i celebri, ha sedotto e affascinato i protagonisti della Dolce Vita: «A Roma non mi davano tregua, mi rincorrevano tutti, pure la polizia».

    C’è un’ironia e un fascino ipnotico nei suoi racconti, il limite lo sentiamo sottopelle, come una vertigine ci affacciamo sulle convinzioni granitiche, il genere, il sesso, uomini, donne, e poi c’è lei, in mezzo, i femminielli. Che sono un’altra cosa.

    Napoli nella sua vita è stata una coincidenza? «Probabilmente ci sarei solo passata, ero un ragazzino, non sapevo chi ero, quando sono arrivata qui camminando per strada mi sentivo chiamare: ué femminé. Non capivo che mi dicevano ma mi sentivo avvolta da qualcosa di bello. È come un’identità, è come riconoscersi dopo essersi cercati a lungo. Loro sapevano chi ero. Non sono gay, nemmeno mi piace questa parola, è fredda, mi mette a disagio, omosessuale è una cosa che non mi appartiene, e non sono nemmeno un trans (see… ’o transaltrantico, ma che è?), sono femminella, è un’altra cosa».

    Cosa sia è davvero difficile da spiegare, si ricorre alla Sirena anche questa volta. Le metà che convivono, la sua identità femminile e quella maschile. Mentre racconta delle difficoltà per strada, non manca di guardarci negli occhi, la sua espressione cambia e perfino il tono della voce, la sua delicatezza per un momento si perde, aggio fatt l’omm perché la strada, la miseria, la guerra: in qualche modo devi sopravvivere. E vengono fuori prepotenti le due metà, perché non si rinuncia a nessuna delle due: è questa la meraviglia. Parla di sé al maschile e al femminile indifferentemente, adesso ci siamo abituati, parla di sé più di tutto con l’intensità di chi sta raccontando una storia che poteva pure evitare di raccontare perché sono tracce e ferite, è mettersi a nudo, è anche denunciare.

    Sul letto di lenzuola maculate si impilano foto e ritagli di giornale recuperati da un cassetto. Sono ricordi che ci mostra, più che la nostalgia di un passato glorioso, ci dà la sensazione di mostrare medaglie da sistemare sul petto. Ogni cartolina da New York, da Praga, da Pechino, ogni titolo di giornale dall’altra parte del mondo, ma anche da questa parte del mondo, è un modo per esorcizzare tutto quello che ha raccontato fino a questo momento, il dolore, la stanchezza, il sacrificio, la discriminazione. Perché la sua vita ha momenti di profonda cupezza ma anche di straordinaria luminescenza.

    «A Roma ci arrivai con degli amici, viaggiavamo soli sempre con difficoltà, per strada ci siamo adattati a fare tutto». La prima notte nella capitale è tra le rovine del Colosseo, la mattina a via Margutta, alla Taverna dove lavorava la Saracina. Si passano i nomi e i contatti, la rete di solidarietà li porta in piazza Rondanini, dove restano per un po’, la signora Greco affittava i lettini. La vanità è una droga bellissima in una città che vive di notte e scintilla di un erotismo mondano solo suo. «Una notte mi avvicinò un uomo, Franco, mi venne vicino, voleva sentire la mia storia. Mi presentò molti amici, parlammo a lungo». Sono gli anni della Dolce Vita, gli sfavillanti anni Cinquanta e Sessanta, la stagione resa indimenticabile dalle copertine patinate, i rotocalchi, il cinema. La Tarantina scopre probabilmente una bellezza che non aveva immaginato di avere. Il suo fascino, la sua bellezza liminare, la seduzione inafferrabile di qualcosa che non si coglie mai fino in fondo, il suo corpo perfetto che trovava negli sguardi un’approvazione diversa. Si ritrovò in una compagnia di amici eccellenti, Franco era in realtà Goffredo Parise, che con la pubblicazione de Il prete bello (1954) stava ottenendo uno straordinario successo editoriale. Tra loro Moravia, Pasolini, Laura Betti…: «Io non avevo idea di chi fossero». L’incontro con la surrealista Novella Parigini, che la trasformò in una modella all’accademia di Belle Arti, musa e soggetto delle sue opere. Nel suo laboratorio

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