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Piccolo galateo di gesti e di modi di dire: Per emigrati in Romagna e qualche indigeno
Piccolo galateo di gesti e di modi di dire: Per emigrati in Romagna e qualche indigeno
Piccolo galateo di gesti e di modi di dire: Per emigrati in Romagna e qualche indigeno
E-book110 pagine1 ora

Piccolo galateo di gesti e di modi di dire: Per emigrati in Romagna e qualche indigeno

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Info su questo ebook

Il volume nasce dalla convinzione dell’autore che «l’integrazione tra popoli, comunità, individui passi, prima che da ingegnose astrazioni intellettuali, attraverso i tanti piccoli gesti che quotidianamente ci scambiamo e trasmettiamo tra di noi, immigrati e non. Si tratta di una sorta di “integrazione epidermica”, che nasce dal contatto e dall’esperienza, dal saper cogliere una richiesta d’ascolto, di comunicazione, dal voler accettare la sfida al dialogo».
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2014
ISBN9788874722556
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    Anteprima del libro

    Piccolo galateo di gesti e di modi di dire - Sandro Piscaglia

    pentimento.

    Fafin

    Ero andato a far visita al mio amico Fafin nella sua casa di via del Mangano e stavamo chiacchierando pacatamente e con godimento sull’origine del nome della via. È una via nel centro di Rimini, vicinissima all’Arco, è in discesa e finiva nella fossa che si impaludava un tempo dove ora è il Tempio. Il giardino è piccolissimo ed è soffocato dalle case circostanti che sono piccole e basse. Non piccole come quelle dei pescatori del Borgo, perché questo era stato un borgo d’artigiani e ci voleva un po’ di spazio anche per gli attrezzi. E poi c’è l’aria buona sempre, per via delle Suore. Un’altra buona ragione è che hanno incanalato e coperto l’Ausa cosicché il verde e lo spazio del Parco Cervi ed il giardino grande e verde ombroso delle Suore, che arriva dai Bastioni Meridionali a Santa Chiara, tenevano fresco il giardino di Fafin sino ai caldi dell’estate piena.

    La casa aveva la facciata dipinta in ocra chiarochiaro, sopra il portoncino c’è una nicchia ad arco, corniciata di mattoni a vista, con dentro una statuina della Madonna, col manto azzurrino, che, dicono quelli che ci credono, fa miracoli.

    Stavamo chiacchierando contenti, il tempo l’abbiamo ché siamo entrambi in pensione, quando si sentì percuotere il batacchio antico che Fafi ha lasciato sulla porta, anche se ha un campanello elettrico con la cornice cromata e col suo cognome.

    L’ha lasciato perché è sempre stato lì, lì da duecento anni, ed anche per far dispetto a quella bigotta di sua moglie dato che il batacchio rassomiglia ad una cosa che non si può dire. Gli ha detto un suo amico professore che potrebbe anche essere romano antico, ché i romani li facevano così: "Può essere sì – e non si scompone Fafin – perché qui ci facevano l’orto i romani di una volta, quei pistoloni!". Ma il batacchio riprese a battere così forte che il mio amico s’innervosì. Batteva forte, ma non violento e neanche arrabbiato, come se uno si divertisse. E lui orecchio ne aveva, da giovane aveva anche suonato i piatti nella banda.

    Bei tempi allora, quando suonavi le ragazze ti guardavano e ti puntavano, anche se stavano a testa bassa con la faccia rossa. L’aveva conosciuta così la sua Agnese cinquantanove anni prima e ancora gli piaceva.

    Mo basta, che vengo urlava andando alla porta.

    Di dov’era il mio amico Fafin? Non era oriundo e che fosse un romagnolo l’avreste capito dalla massa di bestemmie che aveva condito il suo parlare senza che ce ne accorgessimo e che divenne valanga mentre il battacchio continuava a far musica. Si tacque attonito quando aprì la porta incazzato e si trovò di fronte un negro alto e sottile, con un berretto da turco con le perline ed un camicione lungo, enorme, celeste, e forse elegante, che arrivava sino ai piedi. Sorrisero una chiostra di denti bianchi ed occhi neri grandissimi: Buono chiasso di tuo martello disse.

    "Ah – fece Fafin – ti cîapévi gôst brôt pataca!".

    Poi tornò serio, disse tre bestemmie in fila scuro in viso e domandò cosa volesse.

    Vendere, vendere questo, fu la risposta e comparvero dalle ampie maniche del caffettano due mani, nere sopra e sotto rosa carnicino, con le dita lunghissime, eleganti che presentavano due statuine di legno: una gazzella che a capo chino brucava serena ed una giraffa col collo talmente lungo che sicuramente doveva mangiare un quarto d’ora prima che le venisse fame per non soffrire.

    Fafin prese la gazzella nelle sue mani callose e l’accarezzava, se ne intendeva di legni, era stato in una bottega di falegname sino a che non era andato soldato. Poi si incupì e chiese minaccioso: Perché mi volevi sfondare la porta?

    "No fare male io – si scusò – bono chiasso di tuo martello".

    Quante volte aveva avuto voglia Fafin di fare un concerto col battacchio. La porta di castagno stagionato, incardinata duecento anni prima, era stata verniciata una volta sola, suonava bene ed era armonica. Fafin s’era sempre trattenuto perché immaginava i commenti dei vicini. E adesso era arrivato un negro e s’era cavato la soddisfazione con la sua porta. Però, e continuava a carezzare la gazzella e lisciare il collo alla giraffa, però son fatti bene ed uno lo vorrei prendere. "Dai Fafin – gli dissi – fai un buon contratto che uno lo prendo io e glieli portiamo via tutti e due". Avevo parlato in dialetto, dialetto stretto, ma sorrisero gli occhi del venditore.

    Fafin lo invitò ad entrare e gli offrì da bere. Cortese e deciso l’altro rifiutò. Fafin insistette e aveva una ragione valida: Se uno sente il mio Sangiovese non può proprio dire di no. È un vino da messa per genuinità e come qualità avrebbe potuto aprir mescita nell’Olimpo, ma l’ospite si rifiutava malgrado la generosa pressione del padrone di casa. Sorrise il poveretto aprendosi tutto ed accettò quando, di mia iniziativa, ficcai il naso nel frigorifero, gli versai nel bicchiere un’aranciata. Il contratto fu presto fatto, si capì subito che ci volevamo bene, ma ci guardavamo senza capirci… Fafin non riusciva a capacitarsi che un uomo alto come quello rifiutasse il suo sangiovese all’ora di merenda e avesse detto

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