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Ad oriente
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E-book361 pagine5 ore

Ad oriente

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Il percorso di crescita di un bambino, un padre perso appena conosciuto, il supporto e l'amore di un fratellastro che si prende cura di lui affrontando le difficoltà e il giudizio della gente. Un bimbo che diventa uomo con il desiderio di piegare le vele e puntare ad oriente : una favola che narra una vicenda senza tempo dal sapore universale.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2016
ISBN9788892591042
Ad oriente

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    Anteprima del libro

    Ad oriente - Maria Pia Oelker

    4

    Capitolo 1

    La bianca luce della luna che stava sorgendo al di sopra del boschetto di pallidi cipressi argentati contrastava con i residui del tramonto che tuttora accendeva il cielo occidentale, verso la pianura e il mare.

    Fino a qualche minuto prima era stata un’esplosione di viola e di aranci , di tenui strisce rosate, di lingue antracite e di fiamme rosso oro . Il sole se n’era andato dardeggiando superbo e , mentre spariva rapidamente all’orizzonte , pareva salutare con un ultimo guizzo la luna che avanzava dall’altra parte della volta celeste con il suo corteo di stelle.

    Il principe li osservava,sentendosi come sempre spettatore ammirato , ma impotente.

    Avrebbe desiderato fermare quegli ultimi raggi di sole, trattenere quei lampi di luce, sentirsi invadere ancora da quel sentimento fugace di felicità che gli pareva così intenso ogni volta da togliergli il senso del tempo, la memoria delle cose quotidiane. Ed ora cercava di cogliere con gli occhi ogni minima traccia di quella luce che si andava spegnendo ; il profilo delle colline lontane, che si stagliava puro e netto contro il cielo ; ogni più piccolo dettaglio del grande parco, degli alberi e delle vasche che il buio stava per inghiottire; infine il nastro del fiume lontano che appariva qua e là nei campi tra file di pioppi chiari . La luna veniva a prendere possesso della terra e a rischiarare quel mondo che il sole aveva reso vivo e forte durante il giorno e che ella non aveva il potere di richiamare in vita con la sua pallida luce, ma solo di consolare e proteggere, cullandone i sogni e facendo vivere altri esseri che erano al confine tra magia e realtà.

    Là, nell’antico bosco di querce che si estendeva quasi all’infinito dietro il parco del castello fino alle più remote montagne che l’occhio potesse incontrare all’orizzonte, là c’erano misteriose creature che godevano di quella luce argentata e vivevano nelle sue ombre tremanti.

    Il principe ne aveva sentito parlare tante volte nella sua infanzia dalla vecchia governante, che si era presa cura di lui fin dai primi vagiti nella culla di trine che la madre gli aveva preparato con le sue mani amorose.

    Troppo poco gli pareva ora di averla conosciuta, sua madre, eppure l’aveva amata molto in quei brevi anni trascorsi insieme nelle grandi sale del palazzo, vuote per lo più e per la maggior parte dell’anno, che si animavano solo quando il suo signore e re e padre si degnava di far loro visita e di restare con loro per qualche settimana, regalando la sua splendida vitalità, la sua allegria prorompente, rumorosa ed esagerata come le sue ire improvvise.

    Il principe aveva adorato il re, che pure aveva conosciuto ancor meno della madre : egli gli aveva insegnato a cavalcare e ad andare a caccia col falcone; rivelato i nomi delle stelle osservate insieme nelle notti serene e l’universo dei libri antichi. Aveva giocato con lui e gli aveva raccontato terribili storie guerresche, di antichi ed impavidi eroi, dalle armature scintillanti e dall’animo nobile.

    Mai il principe gli aveva chiesto perché né sua madre né lui potessero uscire dal castello e dal parco quando egli era assente : benché fosse piccolo allora sapeva già che questa era una domanda proibita. Un giorno aveva interrogato la regina, che ricamava e leggeva nel vano di una finestra ed ella gli aveva sorriso enigmatica :-Non chiedere mai il perché di questo, è un segreto tra tuo padre e le sue fantasie. Non chiederlo a nessuno, perché nessuno lo sa e neppure a tuo padre perché ti frusterebbe nella sua ira. Questo è il mio regno incantato e la chiave non si trova in nessun luogo se non nel cuore del re. Ma egli non la darà mai ad alcuno. Tu potrai uscirne, quando sarai grande .-

    -No, mamma. Non senza di te- aveva risposto allora.

    Ma adesso aspettava solo l’occasione giusta per farlo davvero, definitivamente e liberamente.

    Quando sarebbe arrivata?

    Aveva sedici anni ormai e sapeva che non poteva tardare il suo momento. Quello solo aspettava,per quello solo si preparava.

    Suo padre era morto due anni addietro e sua madre qualche mese dopo. Poco tempo prima di spirare ella gli aveva detto, guardandolo negli occhi franchi e arditi:

    - Ha portato via la chiave con sé. Io comunque non uscirò più di qui. Tu puoi farlo appena sarai pronto.

    - Come farò a sapere di esserlo?

    - Lo saprai. Bada bene però: non lasciar passare quel momento o lo perderai per sempre .

    - Tu non puoi dirmelo, madre?

    - Nessuno può se non te stesso.

    Ora era certo di aver sentito quella voce che lo avvertiva dentro e doveva rimanere vigile per non essere colto di sorpresa….

    Antonia, la sua balia , bruna un tempo come le ali del corvo ed ora quasi tutta grigia, che l’aveva cullato e nutrito più di sua madre, che gli aveva tenuto la mano stretta quando aveva avuto paura dei temporali o delle grida di suo padre, che l’aveva consolato del pianto della regina e aveva giocato con lui nei lunghi corridoi e nel parco ; Antonia gli aveva narrato molte storie sul bosco e sui suoi abitanti, che di notte si spingevano a volte fin sotto le finestre del castello e nelle stalle dei cavalli e ballavano e correvano e si chiamavano e frusciavano volando da un albero all’altro, senza lasciare impronte e svanivano al mattino con la luce del sole.

    - Se rimanessi sveglio nelle notti di luna piena potrei forse vederli?- aveva chiesto a volte egli, speranzoso.

    - No,non si avvicinerebbero se sapessero che qualcuno li spia.

    - Ma io starei ben nascosto.

    Antonia aveva riso della sua ingenuità :- Principino mio, loro scorgono anche ciò che è ben celato.

    - E allora come faccio a vederli?

    - Non si può, proprio non si può.

    - Dunque sono bugie quelle che dici, perché se nessuno può osservarli, non può che essersi inventato tutto chi per primo ha raccontato queste storie.

    Non faceva una grinza il suo ragionamento, proprio come gli avevano insegnato suo padre e il maestro.

    - Qualcuno c’è che li ha incontrati - aveva sussurrato Antonia.

    - Come ha fatto? Dimmelo ed io farò altrettanto.

    - No, per l’amor del cielo. No .- aveva quasi gridato lei atterrita- Chi li ha guardati ne è uscito mezzo pazzo dallo spavento. Non te lo potrei permettere.

    Oh, certo esagerava! Era una semplice donna, buona e cara, ma un po’ ignorante. Il suo maestro glielo aveva ben insegnato che quei folletti, streghe, uccelli malefici ed altre cose del genere erano solo favolette per bambini e gente del popolo. Non ci credeva lui, ma gli piaceva che Antonia lo ritenesse ancora così piccolo e ingenuo da darle ascolto.

    Gli piaceva che lei lo considerasse ancora il suo bimbo, timido e sognatore, giocherellone e avido di carezze e di coccole.

    In realtà non lo era più da tanto tempo, forse addirittura fin da quando suo padre l’aveva allontanato per la prima volta dalla madre per portarlo con sé, in una lunga settimana di caccia ai cervi e alle volpi sulle montagne.

    Aveva allora otto anni e mai aveva lasciato le stanze del castello, le aiuole del parco, fiorite di mille colori nella bella stagione e di brina scintillante in inverno, i sentieri di ghiaia sottile che si arrotolavano e si snodavano tra i prati, le fontane e le siepi. Mai si era coricato senza aver prima baciato sua madre e ascoltato le fiabe di Antonia.

    Così, dapprima, si era sentito tutto sbalestrato, troppo teso ed emozionato per godere davvero della compagnia di suo padre e dei suoi amici cavalieri, che pure di solito lo rendeva euforico; non riusciva a capire del tutto le istruzioni del re, che lo aveva sgridato più volte aspramente, facendogli piangere lacrime amare e desolate, perché la sua testa era come imbottita di bambagia. Avvolta nella nebbia come le cime delle alte montagne boscose, che cominciò a intravedere, per la prima volta nella sua vita, qualche ora dopo la partenza, dalla parte dell’oriente.

    Di là, dietro quegli alti picchi, che si ergevano a volte neri e terribili nel cielo turchino della sera, a volte sfumati nel chiarore mattutino, nascosti da una fluttuante caligine, sorgevano il sole e la luna ed entrambi gli colmavano il cuore di meraviglia.

    E lo consolavano dei suoi piccoli tormenti e dolori infantili.

    - C’è forse un paese misterioso di là dai monti?- aveva chiesto un giorno a suo padre, in un momento in cui lo aveva visto riposarsi e gli pareva un poco più rilassato e disponibile del solito.

    Il padre lo aveva guardato come se lo vedesse sul serio solo in quel momento dopo due giorni in cui lo aveva ignorato e respinto, infastidito dalla sua debolezza infantile.

    - Perché lo vuoi sapere?

    - Perché è sempre di là che vengono il sole e la luna; ora io so bene che essi stanno nel cielo e non sulla terra, ma…-

    Suo padre taceva, anche se continuava a guardarlo fissamente, così si era inceppato ed era arrossito fino alla radice dei capelli. Aveva cominciato a balbettare, spostandosi ora su un piede ora sull’altro, poi si era del tutto zittito.

    - Ebbene?Va’ avanti -lo aveva incitato suo padre, spazientito, ma anche interessato.

    - Io credo che degli astri così splendenti non possono che venire da un mondo che sia molto più bello della terra che noi conosciamo.

    - Chi ti ha insegnato che sono degli astri?

    - Il maestro, ma mia madre dice anche che in cielo c’è il paradiso e lì abita Dio con tutti i suoi angeli e le anime buone. Allora io non capisco come possano essere vere tutte e due le cose.

    - Non hai nessuna idea in proposito?

    - Sì, ce l’avrei, ma non so…

    - Avanti, non aver paura - lo aveva incoraggiato suo padre, sorridendo finalmente.

    - Io non ho paura - aveva ribattuto lui orgoglioso.

    - Ah! E’ così? Ne sono felice. E dunque?

    - Forse il cielo che descrive il maestro quando mi parla del sole e delle altre stelle e della luna che gira intorno alla terra non ha niente a che fare con il cielo di cui parla mia madre. Sono due cieli diversi che in comune hanno solo un nome. Dio e i suoi angeli devono stare molto più in alto e come noi guardiamo il sole dal basso loro lo osservano dall’alto, affacciati sull’orlo dell’abisso. Io immagino dunque che il mondo che essi vedono e noi non possiamo perché ci è nascosto dalle montagne, debba essere meraviglioso, d’oro e d’argento, dove ci sono i colori dell’arcobaleno e…tutto il resto.

    - Che sarebbe? - aveva indagato suo padre sempre più curioso e divertito.

    -Beh, le nuvole, per esempio. Non hai visto di quanti colori possono essere? Sono nere come la notte quando c’è il temporale, bianche come la lana quando il cielo è azzurro e caldo, rosse e viola e arancioni al tramonto e rosa al mattino. E poi c’è il vento e anche lui ha i suoi colori.

    - Ah?! Non mi sembra affatto.

    - Ma sì, perché il vento occidentale odora di mare e di pioggia ed ha il colore dell’acqua chiara e il vento del nord è gelido ed ha il colore della neve e del ghiaccio delle fontane, ma quello del sud è rosso di sabbia e di caldo.

    - Interessante. E quello dell’est?

    - Quello non lo so, non ci ho ancora pensato. E’ difficile dirlo perché non riesco ad immaginare bene come sia il paese al di là delle montagne.

    - Già. E’ da lì che eravamo partiti . E non ho risposto alla tua domanda.

    - No. Perché non l’hai fatto?

    - Perché non ci sono mai stato in quel paese e l’ho visto solo nelle immagini degli antichi libri.

    - Io non potrei vederli quei libri?

    - Sì, ce ne sono molti nella biblioteca del castello.

    - Ma è chiusa e il maestro non vuole che io ci vada.

    - Ti ci porterò io stesso al nostro ritorno.

    - Sul serio?

    Il principe aveva gli occhi che brillavano di avida gioia e suo padre gli aveva detto:

    - Vieni a stringermi la mano, da uomo.

    Ma quando aveva avuto la piccola mano, morbida e tremante come un nidiaceo, tra le sue, così grosse ed energiche, all’improvviso l’aveva attirato a sé e l’aveva abbracciato forte, soffocandolo contro il suo petto robusto, che odorava di cuoio e sudore e fatica.

    Il principe aveva avvertito nettamente qualcosa dentro di sé, forse un laccio o un ostacolo, che si rompeva e non sapeva se esserne felice o spaventato. Si era messo a piangere, ma poi aveva avuto paura che suo padre lo trovasse stupido e noioso e gli negasse di nuovo la sua attenzione e il suo affetto. Allora si era morso a sangue le labbra per trattenere i singhiozzi.

    Il re se ne era accorto perfettamente e l’aveva cullato con amore quasi materno finché il suo sfogo si era esaurito ed il figlio era tornato più calmo, vincendo il nervosismo e la malinconica solitudine di bambino che viveva una vita così chiusa e insolita.

    Il re lo sapeva, era consapevole del suo egoismo coniugale e paterno, era conscio dei suoi difetti, ma anche che non sarebbe mai stato capace di agire altrimenti.

    Molti dei suoi amici e consiglieri glielo avevano suggerito più volte, con la dovuta cautela e con il rispetto timoroso che a tutti incuteva il suo carattere irascibile e orgoglioso, talvolta persino vendicativo e violento, ma egli non aveva voluto dar loro retta. Meglio: li aveva ascoltati con sincero interesse, pur senza darlo troppo a vedere, aveva convenuto con essi più d’una volta, ma poi non era mai riuscito davvero a mettere in pratica i buoni propositi che essi suggerivano e che egli si prefiggeva di conseguenza.

    L’amore in lui era sempre possessivo, violentemente possessivo. Questi due sentimenti non si scindevano mai. Sapeva essere generoso con gli amici e i sudditi, coraggioso e audace nelle imprese guerresche, benevolo con il figlio, dolce e affettuoso con la moglie, ma ogni suo gesto, ogni sentimento era gravato dall’ombra di un esagerato senso del possesso. I suoi sudditi, i suoi amici,le sue amanti, i suoi figli, sua moglie: tutto era suo e non voleva perderne il controllo in qualsivoglia momento.

    Lo tormentava l’idea che qualcuno o qualcosa di ciò che era suo potesse un giorno sfuggirgli dalle mani e lo lasciasse più povero, più nudo, più solo.

    In verità il grande e nobile padre del principe era ancora più debole e indifeso del suo piccolo figlio, che gli singhiozzava abbandonato sulla spalla.

    Il bambino aveva fiducia in coloro che gli erano vicini: la madre, la governante, suo padre. Forse persino i servi e il vecchio giardiniere. Li amava e non aveva bisogno di possederli per essere felice.

    Per il re non c’era mai stato e non poteva esserci amore diverso. Per questo egli teneva prigioniere proprio le persone che gli erano più care e ciò che agli altri poteva sembrare una vera e propria crudeltà mentale era per lui la massima espressione di interesse e amore.

    Niente mancava loro del resto, affermava orgoglioso e seccato a chi gli faceva notare che la vita non si poteva godere interamente stando perennemente chiusi tra quattro mura, sia pure lussuose.

    Ma era quasi dolorosamente conscio che mancava a sua moglie e a suo figlio la cosa più vera e bella: la libertà. Di andare e venire, di conoscere gente nuova, magari incontrata per caso sulla strada, di fare o non fare ciò che egli pensava buono e giusto per loro.

    E non tanto si sentiva colpevole nei confronti della sua delicata regina, che aveva accettato liberamente quel tipo di vita, solo per amore di lui, quanto in quelli del figlio che cresceva come un fiore di serra. Perfetto, splendido nella forma e nelle minime sfumature di colore, ma senza profumo, senza quella complessa vitalità che anima i fiori del campo e le erbe selvatiche, così come certi bambini del popolo, che egli aveva avuto modo di conoscere e incontrare nei suoi viaggi, durante le sue lunghe giornate di caccia o nelle sue proprietà terriere.

    Il principe era bello e fragile come un gioiello, i lineamenti delicati come quelli della madre, le giovani gambe lunghe e snelle come quelle di un puledro di razza, le mani piccole ancora, ma forti ed eleganti. Gli occhi soli, scuri e profondi, così strani e sconvolgenti nella loro esuberante forza ribelle in quel chiaro viso infantile indicavano che qualcosa del carattere paterno ribolliva nel suo sangue, nonostante tutti i possibili interventi, le cure continue per correggerlo, plasmarlo, smussarlo. Educarlo secondo le ferme e precise indicazioni del re.

    Gli si rivelava adesso chiaramente e non ne era del tutto dispiaciuto. Anzi doveva ammettere che in fondo ne era orgoglioso.

    - Dovrei parlarne con il suo maestro, ma non lo farò. Per Dio, sono felice che mio figlio mi assomigli almeno in qualcosa. Anche se un giorno dovesse sfuggirmi di mano, come del resto io stesso ho fatto con mio padre.

    Sentiva che dopotutto questo avrebbe potuto sopportarlo, perché ora sapeva che suo figlio lo amava sinceramente e l’avrebbe sempre amato.

    - Dunque padre?- lo riscosse il principe.

    - Che cosa?

    - Il paese misterioso dietro le montagne.

    - Già, tu non dimentichi,vero?

    - No, sto aspettando una risposta.

    - Te l’ho detto: non ci sono mai stato personalmente. Però qualcuno che l’ha visto mi ha raccontato che molto al di là delle montagne c’è un bellissimo regno ricco di acqua e di pascoli profumati, con alte case dalle torri rosse come fuoco nel tramonto e cupole argentate come la luce della luna che tanto ti affascina. In primavera le valli sono coperte di fiori e d’autunno le foglie delle piante sono del colore del sole. Però, devo essere sincero, non credo che sia davvero il paese che cerchi tu. Forse esso non esiste qui sulla terra. Molti libri di antichi viaggiatori parlano del sorgere del sole e della luna ad est, sempre più ad est. Non c’è un punto in cui essi si fermino davvero a riposare.

    - Allora sono vere le cose che mi spiega il maestro e non le favole di mia madre e di Antonia?

    - Penso proprio di sì -sorrise il re.

    - Peccato -.sospirò impercettibilmente il principino -sarebbe stato molto meglio il contrario.

    - Non ci posso credere! - rise il padre rumorosamente- Un poeta: ho generato un poeta. Incredibile. Ehi! - chiamò vicino a sé i suoi più fidati amici che poco lontano da lì stavano sistemando le armi e le cavalcature, non senza sbirciare ogni tanto di sottecchi l’inconsueta scena del loro amico e signore che perdeva tempo a discutere con un bambino. - Ehi, amici, sentite questa: mio figlio ha l’animo di un sognatore, di un poeta. Sospira alla luna e immagina paesi di favola. Non è meraviglioso, dite?

    Di nuovo rise con tono sarcastico per niente dissimulato.

    Il figlio se ne sentì ferito e arrossì violentemente. Gli occhi si incupirono del tutto , accendendosi di una luce strana, come il bagliore sulfureo di un lampo.

    - Padre- disse con voce ferma, quasi severa- non c’è bisogno che ti scomodi a farmi vedere quei libri che dici; non credo di averne bisogno. Preferisco i miei sogni.

    Il re ammutolì d’un tratto e si fece anch’egli rosso in fronte e sugli zigomi pronunciati. Non rispose al principe, che del resto già gli aveva voltato le spalle, e si limitò a congedare con un cenno i suoi consiglieri.

    Tutti i presenti, indistintamente, trasalirono e si chiesero perché il loro signore non frustasse quel fanciullo viziato, che aveva osato rispondere così arditamente, con quell’atteggiamento di altezzosa sfida.

    Ma alla sera il re, prima di ritirarsi per la notte, andò nella tenda del figlio e, dopo aver licenziato i suoi due servitori, si sedette accanto a lui, stringendogli una mano senza parlare.

    - Mi dispiace, padre- disse il piccolo- So che meriterei un castigo per quello che ho detto. Il mio maestro mi punisce per molto meno, ma non dovevi ridere così di me. Mi hai dato un dolore qui - si toccò il magro petto ansimante- così forte che mi pareva di schiantare, come un albero sotto il temporale.

    Gli occhi gli brillavano e non si poteva dire se per le lacrime trattenute o un nuovo soprassalto d’indignazione.

    - Scusami, figliolo. Sono un guerriero un po’ rozzo qualche volta, ma non volevo offenderti. Non ho niente contro la poesia e del resto tua madre l’ama quanto te ed io l’ho scelta come regina; credi non per questo ti voglio meno bene.

    - Io avevo paura che tu non potessi amarmi più.

    - Sciocchezze - disse brusco il re.

    - Allora puoi perdonarmi?

    - Certo, anzi sono venuto per raccontarti una favola.

    - Conosci anche tu le storie fantastiche che mi dice Antonia? Con i draghi e i cavalieri e i cortei delle fate?

    - No, quelle non le ricordo più. E’ passato tanto tempo da quando la mia nutrice me le narrava nelle notti d’inverno accanto al camino per farmi stare quieto. Però c’è una storia bellissima che è vera e sembra una favola ed è quella che vorrei narrarti .

    Il principe annuì e suo padre, con voce un po’ incerta dapprima, poi via via sempre più sicura e disinvolta, gli narrò delle meravigliose avventure di un antico viaggiatore veneziano, delle sue straordinarie scoperte e del grande,.stupefacente regno del Khan, dove tutto pareva fatato, dove i fiori avevano la fragilità della porcellana e i delicati colori delle ali delle farfalle, dove ogni cosa pareva muoversi con la grazia del volo degli uccelli e avere il profumo intenso ed eccitante, morbido e penetrante delle spezie e delle erbe più rare. In quel regno lontano dove Marco Polo era rimasto tanto a lungo da poter raccontare di mille invenzioni incredibili e della vita ancor più strana di quel popolo, forse lì poteva essere il paese del sole e della luna.

    - C’è un paese ad oriente delle Indie che chiamano del Sol Levante. Forse è lì quello che cerchi. Potremmo andarci insieme un giorno- disse infine.

    - Padre, non è necessario che tu menta per farmi contento. Hai detto tu stesso che nessun viaggiatore l’ha mai visto.

    -Sì, scusami ancora, non avevo davvero capito che tu fossi così saggio per essere un bambino. Però ti è piaciuta la mia storia?

    - Moltissimo, ti ringrazio.

    - Vuoi darmi un bacio allora e far pace?

    - Sì, padre.

    Il re sorrise e, quella notte, per la prima volta in vita sua, si coricò pienamente soddisfatto di se stesso.

    Del resto molti pensieri gli stavano occupando la mente per la prima volta e mettevano in crisi convinzioni che aveva ritenuto fino ad allora incrollabili .

    Quel suo piccolo figlio, così fragile,sentimentale e dolce, ma anche fiero e ardente, era davvero una scoperta eccezionale.

    Non assomigliava a nessun altro ragazzino che avesse mai conosciuto, né agli altri suoi figli, che la prima moglie gli aveva dato e che vivevano rispettati e onorati alla sua corte.

    Nessuno aveva quello sguardo profondo e inquietante, quell’indipendenza di giudizio, quel coraggio di affrontarlo a viso aperto, nonostante i suoi piccoli otto anni.

    Ora egli aveva intenzione di portarlo più spesso con sé, nei suoi viaggi e nella cacce, nella sua reggia d’oro, ricca di quadri e stracolma di libri preziosi; voleva insegnargli tutto ciò che più lo appassionava; farne un suo complice e fido alleato.

    Un vero figlio.

    Fino a quel momento non si era molto preoccupato di quel bimbo che non vedeva talvolta per mesi e a cui lanciava appena qualche sguardo curioso durante le sue visite alla madre.

    Come gli era venuta quell’idea improvvisa e balzana di portarselo dietro quella volta?

    Non sapeva dire nemmeno lui. La regina non si era opposta, come aveva temuto all’inizio, quando l’aveva vista aggrottare perplessa le sopracciglia, anzi si era detta felice del suo progetto.

    - Non ti sentirai sola senza di lui?

    - Non troppo. Io e la solitudine poi siamo sempre così vicine, che non mi spaventa.

    C’era un rimprovero velato nella sua voce?

    - Vuoi forse dire che ti trascuro?

    - Non dovrei ? Sai bene che è la verità, ma non è un rimprovero. Io ho la mia vita qui e mi basta. La tua presenza è sempre così….così totale che mi è sufficiente per mesi il suo ricordo.

    La regina meritava davvero quel titolo, egli pensava spesso, ed anche quel giorno non l’aveva deluso.

    - Tuo figlio è piccolo ancora, ma saggio e non ti sarà di peso, anzi io spero che ti piacerà la sua compagnia.

    Ora capiva cosa avesse voluto intendere, veramente lo capiva, mentre i primi momenti erano stati penosi e irritanti per entrambi ed egli era stato persino tentato di rimandarlo indietro con una scusa.

    L’aveva trattenuto più il dispetto della delusione che l’affetto ed adesso doveva ringraziare quel senso di sprezzante alterigia che l’aveva spinto ad andare avanti senza preoccuparsi troppo dell’evidente disagio fisico e morale del piccolo, che stentava a stargli dietro nelle lunghe cavalcate veloci, che si lamentava e si agitava nel sonno e non riusciva a sopportare il loro ruvido cibo pesante senza avere la nausea.

    L’aveva sgridato furibondo, quando la sua inesperienza aveva fatto scappare alcune prede, l’aveva umiliato con osservazioni sarcastiche sulla sua delicatezza quasi femminea, era giunto persino ad alzare il suo frustino su di lui. Ed egli non si era ribellato, ma nemmeno arreso, aveva pianto qualche volta, è vero, ma mai in sua presenza. Il suo sguardo, lo ricordò d’un tratto con un sobbalzo di smisurata felicità, era rimasto sempre fermo e pieno di dignità.

    No, suo figlio non aveva la stoffa del vile cortigiano: era davvero un principe.

    Che peccato non essersene accorto prima!

    Pieno di sogni e poeta, l’aveva punzecchiato volgarmente quel giorno ed egli aveva difeso a spada tratta il suo diritto, la sua libertà di essere se stesso fino in fondo.

    Quando, al termine della settimana di caccia, erano tornati al castello il re lo aveva elogiato davanti a sua madre con parole che nessuno aveva mai udito da lui e che avevano riempito di dolcezza il sorriso della regina.

    Aveva dichiarato che quell’anno sarebbe rimasto più a lungo del solito al castello,perché la caccia era stata ottima ed aveva intenzione di ripeterla ancora nelle prossime settimane. Inoltre voleva riaprire e far riordinare la sala della biblioteca (perché la regina aveva avuto a quelle parole un sorriso così misterioso?) e occuparsi di molte altre opere necessarie, che da anni venivano rimandate ed ora erano divenute improrogabili.

    Non aveva detto che soprattutto voleva stare con suo figlio e trascorrere insieme a lui lunghe settimane di piacevoli svaghi. Però molti l’avevano intuito e ben presto tutti lo capirono.

    Intanto ci fu la questione del parco.

    Il re era solito alzarsi presto al mattino ed uscire a passeggio nei giardini del castello con i suoi cani talvolta, da solo più spesso, oppure andarsene a cavallo lungo le rive del fiume, sui sentieri solitari di campagna e non voleva che alcuno lo seguisse, nonostante le proteste dei suoi consiglieri.

    - Ho sempre tanta gente tra i piedi- diceva egli sbuffando impaziente quando qualcuno tornava sull’argomento- specialmente quando sono in città, che qui non voglio nessuno, dico nessuno, che mi segua. Ho bisogno di un paio d’ore di solitudine per sopportare tutto il resto.

    Anzi aveva dato ordine che non ci fosse a quell’ora nel parco neppure un giardiniere o uno qualsiasi degli altri servitori. Ovviamente nessuno osava disobbedirgli e, dopo tanti anni, tutti conoscevano questa sua mania, così che anche chi si fosse trovato a dover lavorare a quell’ora nelle scuderie o nel giardino, si sarebbe ben guardato dal farsi scorgere. Non era facile farsi perdonare dal re e sfuggire ai suoi castighi.

    Anche il principe era a conoscenza del desiderio del padre?

    Probabilmente sì, ma era sicuro che gli ordini del sovrano non potevano certo applicarsi anche alla regina e a lui. D’altronde il castello era più suo che di altri, poiché per tanti mesi all’anno era il suo regno incontrastato, dove egli dominava e scorrazzava a suo piacimento, di cui conosceva ogni angolo ed ogni filo d’erba. Nessuno pensava a limitare i suoi movimenti all’interno della proprietà e, se si eccettuava la biblioteca e l’appartamento del re, non c’erano porte chiuse e proibite per lui.

    Era stato persino nei sotterranei e nei due torrioni che facevano la guardia ai due lati opposti della facciata del castello.

    Il principe si riteneva dunque libero di contravvenire agli ordini del padre e di continuare nella sua vecchia abitudine di scendere in giardino all’alba per portare da mangiare agli scoiattoli e ai daini, che popolavano il boschetto di cipressi argentati e lecci ai limiti del parco. Da molti anni la recinzione che lo divideva dal bosco retrostante era caduta in quel punto e i timidi animaletti avevano cominciato a venire sul far del giorno ad abbeverarsi alla fontana che lì era perennemente ricca d'acqua e a mangiare ciò che il principino faceva puntualmente trovar loro : mele e noci, rubate nella dispensa, avena e fieno che gli dava uno degli addetti alla scuderia.

    Lui sapeva che essi avevano paura dell’uomo e se ne stava quieto e immobile dietro gli alberi ad osservarli mentre bevevano e mangiavano con grazia, mai del tutto tranquilli, sempre vigili, il musetto e le orecchie frementi, i grandi occhi liquidi

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