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Debito d'amore: Harmony History
Debito d'amore: Harmony History
Debito d'amore: Harmony History
E-book240 pagine4 ore

Debito d'amore: Harmony History

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Info su questo ebook

Londra, 1815
Finire in prigione per debiti. È ciò che Katherine rischia a causa della sconsideratezza del fratello, che ha ridotto sul lastrico la famiglia per colpa della sua sfrenata passione per il gioco. L'unico modo per tenere a bada i creditori è sposarsi e trasferire così i debiti al marito. Ma chi accetterebbe di prenderla in moglie a tali condizioni, se non un condannato a morte? Mai, neppure nei peggiori incubi, Katherine avrebbe immaginato che il suo matrimonio si sarebbe celebrato in una prigione e per giunta con uno sconosciuto! Eppure, quell'uomo lacero e sporco la fa sentire al sicuro. Che cosa succederebbe se, una volta soli, lei scoprisse che suo marito è innocente?
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2020
ISBN9788830510302
Debito d'amore: Harmony History
Autore

Louise Allen

Tra le autrici più lette e amate dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Debito d'amore - Louise Allen

    Immagine di copertina:

    Graziella Reggio Sarno

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Marriage Debt

    Harlequin Mills & Boon Historical Romance

    © 2005 Melanie Hilton

    Traduzione di Silvia Zucca

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2006 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-3051-030-2

    1

    L’uomo sedeva a gambe incrociate sulla panca dura, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e il mento tra le mani. Era alto e indossava un cappotto elegante. Dalle pareti umide penetrava un freddo implacabile, dalla paglia marcia sul pavimento provenivano fruscii e squittii sospetti, e attraverso i corridoi bui echeggiava un lamento costante. A poche celle di distanza, un altro prigioniero stava urlando un flusso incoerente di oscenità e, ancora più distante, qualcun altro sfregava un bastone contro le sbarre in una litania monotona che faceva saltare i nervi.

    Molto tempo prima, suo padre gli aveva detto che era nato per finire sulla forca. Allora ne aveva riso: niente gli era parso più improbabile, ma quelle parole si erano rivelate una profezia. Di lì a otto giorni sarebbe uscito dalla prigione di Newgate per essere impiccato.

    Perlomeno non l’avevano messo in cella con qualche assassino o tagliaborse e gli avevano dimostrato un po’ di pietà, nell’assegnargli una cella singola.

    A quanto pareva, era stata la sua notorietà come Black Jack Standon a valergli quel privilegio, visto che poteva fare bella mostra di sé di fronte alle signore sovreccitate che trovavano entusiasmante rompere la monotonia dei loro pomeriggi facendo visita ai bassifondi delle prigioni. Il bandito che aveva fatto della strada per Oxford il suo terreno di caccia era considerato l’attrazione principale del momento.

    Aveva scagliato la sua scodella all’indirizzo del gruppo in visita all’incirca un’ora prima e aveva sorriso soddisfatto quando il liquido contenuto aveva bagnato i vestiti delle persone dall’altra parte delle sbarre. Dubitava che gli avrebbero dato nuovamente da mangiare, per quel giorno, ma non sarebbe stata una gran perdita. In quel momento sentì ancora dei passi poco distanti dalla cella. Alzò lo sguardo e strizzò gli occhi nel tentativo di vedere meglio. Aveva ancora la scodella dell’acqua, ma non era disposto a rinunciarvi tanto facilmente come aveva fatto con il cibo.

    La finestrella a scorrimento che chiudeva le sbarre venne spostata e la fiamma di una lanterna gli fu puntata addosso. Probabilmente fuori era ancora giorno, ma nella cella non filtrava che un barlume di luce.

    I nuovi visitatori non sembravano alla ricerca di emozioni. Sentì un uomo borbottare sottovoce. No, erano due e, a quanto pareva, stavano discutendo. Improvvisamente, indispettito dall’essere esibito come un animale in gabbia a una fiera, balzò dalla panca e riuscì a fare un passo verso la porta prima che le catene lo trattenessero. Il pannello si richiuse e tutto quello che poté sentire fu: «Lei non acconsentirà mai...».

    L’uomo che chiamavano Black Jack Standon tornò alla panca sollevando i piedi dal pavimento ricoperto di paglia e dai ratti che lo infestavano.

    È meglio che ti abitui agli sguardi dei curiosi, vecchio mio, si disse. Entro otto giorni avrebbe dovuto camminare di fronte a una folla che l’avrebbe guardato morire. Quindi, continuò nel suo monologo interiore, è meglio che ti abitui all’idea e pensi a qualcosa d’intelligente da dire. Era troppo tardi per salvare la pelle? Sì. Se avesse mandato un messaggio non appena era stato catturato, dal Northumberland sarebbe potuto arrivare un aiuto... Oppure no.

    Si era costruito da solo quel destino. L’orgoglio l’aveva tenuto lontano da casa per sei anni e l’orgoglio l’avrebbe condotto alla morte. Nel frattempo, l’orgoglio e una panca troppo dura gli impedivano di dormire. Chiuse gli occhi e lasciò vagare la mente. Perlomeno non stava piovendo, perlomeno non c’era fango e nessuno avrebbe cercato di ucciderlo... per otto giorni. Il che migliorava la situazione rispetto a ciò che aveva passato a Waterloo. Ritieniti fortunato.

    L’increspatura delle sue labbra parve rilassarsi e lui si addormentò.

    Katherine Cunningham alzò gli occhi dal suo libro, sorpresa, mentre sentiva aprirsi la porta principale e udiva delle voci maschili nel corridoio.

    Una rapida occhiata all’orologio sulla mensola le confermò che mancava un quarto alle sei: che cosa ci faceva Philip a casa a quell’ora del pomeriggio?

    Si alzò e andò alla porta del piccolo salottino della casa in Clifford Street. Praticamente senza domestici, era più semplice utilizzare solo poche stanze del pianterreno. In tutte le altre, i mobili erano stati coperti con le lenzuola, eccetto una piccola camera che a suo fratello piaceva chiamare studio.

    Philip le stava venendo incontro, al fianco di un amico, Arthur Brigham. Non appena la videro, i due si fermarono di colpo.

    «Buon pomeriggio, Arthur» lo salutò lei, studiando i volti dei nuovi arrivati. «Che cos’è successo? Sembra che abbiate visto un fantasma.»

    «Buon... pomeriggio...» rispose esitante il giovane avvocato. «Stavamo... stavamo andando nello studio di Phil per esaminare delle carte...» Mise una mano sulla schiena dell’amico, spingendolo oltre Katherine.

    Un ormai familiare brivido di apprensione le percorse la schiena. Che cosa stava combinando suo fratello? Forse era di nuovo ubriaco, nonostante l’ora. Ma... c’era qualcos’altro che non riusciva a decifrare.

    «Philip, c’è qualcosa che non va?» Katherine si infilò nello studio prima che la porta venisse chiusa e si fermò di colpo, notando l’espressione del fratello. Dai suoi occhi si capiva che era disperato e la sua bocca tremava. Le si strinse il cuore, guardandolo. «Phil! Siediti, svelto. Arthur, si sente male?»

    Grazie a Dio c’era Arthur! Arthur non aveva il demone del gioco come Philip né era pronto a cedere all’alcol ed era abbastanza paziente e leale da badare all’amico e riportarlo a casa ogni volta che si cacciava nei guai.

    «Devi dirglielo, Philip» lo incalzò Arthur. «Tanto, prima o poi, verrebbe a saperlo comunque.» Anche l’avvocato non riusciva a trovare il coraggio di guardarla negli occhi e Katherine sentì aumentare la stretta al cuore.

    «Oh, buon Dio, mi dispiace così tanto, Katherine!» Suo fratello scoppiò in lacrime, appoggiandole la testa sulla spalla. Katherine gli accarezzò i capelli. Poi lui alzò il capo di scatto. «Siamo rovinati, Katherine. Totalmente rovinati!»

    «Come può essere?» Improvvisamente le mancò la forza di rimettersi in piedi. Katherine fissò gli occhi mesti di Philip, da cui cadevano grosse lacrime che le inumidivano il vestito di cotone leggero. «Avevi detto di aver vinto alle corse, di aver vinto a carte e che così avremmo potuto pagare i debiti...»

    Philip si nascose il volto tra le mani e lei riuscì a cogliere solo poche parole. «Perduto... tutto...»

    «Cosa? Tutto quanto?» Philip non la stava a sentire, quindi si rivolse ad Arthur. «Che cosa sta dicendo?»

    «È andato in quella nuova bisca in Pickering Place, ieri notte. L’ho incontrato lì, ma quando sono arrivato la maggior parte del denaro era già andata.» Il giovane le rivolse uno sguardo addolorato e colpevole. «Non sono riuscito a convincerlo a smettere, Katherine. Era ubriaco fradicio ed era convinto di potersi rifare.»

    «Comunque, grazie per averci provato, Arthur. Dove siete stati oggi?» gli chiese lei, scuotendo la testa.

    «Dai creditori, per chiedere ancora tempo... e altri prestiti. Ma quei vecchi strozzini ci hanno riso in faccia, dicendo che Philip ha due sole settimane prima che chiamino la polizia.»

    «Oddio!» Katherine cadde in ginocchio e si coprì la bocca con una mano. «Philip!» Scrollò il fratello per un braccio. «Quanto devi a quelle persone?»

    «Cinque...» mormorò l’altro.

    «Cinquecento sterline? Fammi pensare... Potremmo vendere qualcosa...»

    Arthur si schiarì la gola. «Katherine... sono cinquemila sterline.»

    Le sembrò che la stanza avesse preso a oscillarle intorno. Di sicuro aveva sentito male. «Cinque... mila?» mormorò. «Cinquemila sterline?»

    Philip annuì in silenzio.

    «Più tutti gli altri debiti.»

    Katherine si sentì rivoltare lo stomaco e faticò a respirare. Cercò d’inspirare più profondamente che poté e strinse talmente forte le mani da sentire le unghie penetrarle nella carne. «Dovremo vendere la casa e i mobili. È tutto quello che ci rimane con cui possiamo racimolare una tale somma.»

    «Non possiamo» borbottò Philip, scattando in piedi e passandosi una mano sul volto. «Li ho già venduti.»

    «Cosa?» strillarono all’unisono Arthur e Katherine.

    «Come hai potuto fare una cosa del genere a tua sorella?» lo rimproverò l’amico.

    «L’ho fatto il mese prima di Natale, quando è andata dalla prozia Gwendoline, prima che morisse. Che perdita di tempo! Quella vecchia zitella non ci ha lasciato uno spillo!»

    «Philip, come puoi parlare così?» lo rimproverò lei.

    Lui si strinse nelle spalle. «Comunque, li ho venduti. Ho pagato altri debiti di gioco e ho tenuto un po’ di denaro per pagare l’affitto, ma ora è tutto andato...»

    Katherine tentò di rimettersi in piedi e Arthur la sostenne. «Ecco, è meglio che vi sediate, Katherine. Vi faccio portare un tè?»

    Si sedettero in silenzio, incapaci di trovare qualcosa da dire.

    Jenny, che una volta era stata la sua cameriera personale, ma che ora era anche la cuoca e la governante, si affacciò alla porta. «Avete suonato, signorina?»

    Katherine non riuscì a trovare le parole per ordinare un semplice rinfresco, ma a Jenny bastò un solo sguardo per capire che era successo qualcosa. «Tè. Porto del tè, Miss Katherine.»

    Il silenzio continuò. Philip si asciugò il volto con un fazzoletto e prese a mischiare nervoso un mazzo di carte dalla scrivania. Arthur rimase immobile, in attesa. Katherine, invece, non faceva altro che pensare a un modo per sfuggire a quel destino.

    Jenny tornò con il vassoio del tè, lo lasciò sul tavolo e se ne andò. In qualche modo quel semplice oggetto appartenente alla vita di tutti i giorni ebbe l’effetto di risvegliare Katherine. Versò il tè e distribuì le tazze, insistendo perché anche Philip lo bevesse.

    «Cosa faranno i creditori se non salderai il debito?»

    «Manderanno la polizia, come hanno minacciato di fare» rispose Philip, scoraggiato.

    «Ma qui ormai non c’è più niente da prendere. Hai detto di aver già venduto la casa e i mobili! Che cosa c’è rimasto?»

    «Gli utensili della cucina, le porcellane, l’argento... i vostri vestiti» elencò Arthur mentre Philip si chiudeva in un silenzio angosciato.

    «Anche vendendo tutto, non riusciremo mai a ricavarne cinquemila sterline. Cosa succederà allora?»

    «In quel caso, c’è la prigione.»

    «La prigione? No, oh, no, Phil! Non potrei sopportare che andassi in prigione!» Katherine lanciò uno sguardo angosciato verso l’amico, che sembrava a disagio. «Arthur, voi saprete di certo che cosa bisogna fare!»

    «Non c’è niente da fare.» L’avvocato scosse la testa. «I creditori hanno il diritto di chiedere la detenzione finché il debito non sarà saldato.»

    «Ma come potrà guadagnare tutto quel denaro, se sarà in prigione? E non c’è niente che io possa fare per raggiungere quella cifra!» Katherine sentì girarle la testa. Poi il silenzio penetrante che opprimeva la stanza si fece ancora più angosciante. «Cosa c’è? Non mi state dicendo tutto, vero? Cosa può esserci di peggio del fatto che Philip rischi la prigione?»

    Il giovane si nascose il volto tra le mani. Arthur si alzò per andarsi a inginocchiare di fronte a Katherine e prenderle le mani tra le proprie. «Non è Philip a rischiare di andare in prigione. Siete voi.»

    «Io? Perché dovrei andare in prigione?» Katherine lo guardò incredula.

    «Perché avete firmato le carte per richiedere il prestito» le spiegò Arthur.

    «No! Ho solo fatto da testimone per alcuni atti legali di Philip, nient’altro.» Sarebbe voluta scappare, ma il proprio riflesso nel vetro della finestra la trattenne.

    Quel mattino aveva indossato il suo vecchio abito di cotone, che ora era intriso delle lacrime di Philip e si era pettinata i capelli biondo scuro in un semplice chignon, senza prestare troppa attenzione al proprio viso. Ora, i suoi occhi sembravano essersi fatti più grandi per le lacrime e le sue belle labbra avevano perso colore. Era piombata in un incubo.

    Philip si alzò e cercò di metterle le mani sulle spalle. «Preferivano una tua garanzia...»

    «Mi hai imbrogliata!» Katherine si voltò di scatto per affrontarlo. «Mi hai mentito!»

    «Pensavo che non saresti stata d’accordo...»

    «Certo! Avrei rifiutato, se avessi saputo!» Aveva passato la gran parte dei suoi ventiquattro anni ad accudire il fratello e a scusarne il temperamento da che i genitori erano morti. Non aveva mai lasciato che la rabbia dominasse l’affetto che nutriva per lui. «Come hai potuto? Come hai potuto mentire e imbrogliarmi per il tuo egoismo?»

    Philip fece un passo indietro, sforzandosi di affrontare la sua furia. Aveva sempre fatto affidamento sul proprio aspetto, sul proprio fascino e sul proprio carattere gioioso e non riusciva ad accettare che la persona che era sempre stata tanto indulgente con lui ora fosse così furiosa. «Katy, non fare così...»

    «Che cosa non devo fare? Non devo urlare? Non devo essere arrabbiata? Spaventata? Oh, vatti a sedere, Philip! Arthur, non possiamo fare proprio niente?»

    «Ci ho pensato un po’ su e...» Il giovane esitò, ancora scosso per la sfuriata cui aveva assistito. «L’unica possibilità che avete è... di sposarvi.»

    Katherine lo guardò come se fosse impazzito. «E con chi, di grazia? Siamo di buona famiglia, ma senza alcun titolo. E anche se l’avessimo nessuno sposerebbe una ragazza senza dote e piena di debiti.»

    Arthur si schiarì la voce, a disagio. «Non era esattamente quello a cui stavo pensando, Katherine.»

    «Se pensate che potrei diventare l’amante di qualche vecchio gentiluomo soltanto per pagare i debiti di Philip... i miei debiti... vi sbagliate. Oppure mi state offrendo voi quella posizione?»

    «Buon Dio, no! Voglio dire, ne sarei felice, è ovvio, ma non ho abbastanza denaro e non potrò attingere al mio fondo fiduciario fino ai trent’anni. Vorrei, ma...»

    «Smettetela, Arthur. Era solo una provocazione. Se le cose stanno così, perché Philip non si trova una ricca vedova? Oggigiorno se ne vedono di relazioni del genere. Per quanto mi riguarda, non intendo vendermi al miglior offerente. Meglio la prigione.»

    «No. Questo no» ribatté Philip.

    «E allora cosa?» domandò lei, esasperata.

    «Siamo stati a Newgate, questa mattina. Ci sono dei debitori anche lì. È orribile.»

    «Cosa ci facevate a Newgate?» Solo sentir pronunciare il nome della prigione le faceva venire i brividi.

    Arthur diede un ennesimo colpo di tosse. «Abbiamo avuto un’idea... e vi abbiamo trovato un marito.»

    2

    Aveva ragione. L’eccesso di rabbia che gli aveva fatto scagliare la scodella verso i visitatori non era stato perdonato.

    Non appena sentì avvicinarsi i passi della guardia, alzò la testa. Udì il rumore di altre finestrelle che venivano aperte, ma non la sua. I passi si allontanarono e lui si rassegnò. Prese il bicchiere e avvicinò la bocca. Un sottile rivolo d’acqua gli bagnò le labbra. Si era abituato a quel sapore ed era grato di non poterne distinguere il colore.

    Aveva passato sei anni vivendo all’avventura, come aveva scelto di fare nonostante l’educazione che aveva ricevuto. In cambio, aveva avuto la libertà, il divertimento e, qualche volta, un immenso piacere. Poteva dire di aver vissuto intensamente. Ma ciò valeva il prezzo della sua vita? Era come se qualcuno gli stesse chiedendo di saldare il conto per tutto quello che aveva avuto. Non era tipo da opporsi al destino: si cambiava ciò che si poteva e si accettava ciò che non si poteva cambiare. L’orgoglio era tutto ciò che si era portato dietro della vecchia vita... e proprio quello avrebbe posto fine a quella nuova.

    Nello studio della casa in Clifford Street, intanto, Katherine fissava a occhi sgranati i due uomini. «Siete andati alla prigione di Newgate per trovarmi un marito

    «Lasciate che vi spieghi...» intervenne Arthur con prontezza. «Conosco il figlio del governatore, che gioca a carte con l’assistente del governatore e alcuni dei debitori più illustri che soggiornano lì. È per questo che posso entrare e uscire da Newgate a piacimento.»

    «Io, invece, non voglio entrarvi e uscirne!» esclamò Katherine, risoluta. «Voglio starne fuori e basta.»

    «Sì, lo so. Ma il fatto che conosca l’assistente del governatore e Christopher Hadden, cioè il figlio del governatore, significa che posso aiutarvi a realizzare il nostro piano. Entrambi sono in debito con me. Non di molto, ma Hadden è ai ferri corti con il padre e l’assistente sa che si scatenerebbe un putiferio, se si venisse a sapere che è coinvolto con i debitori del figlio.»

    Katherine si sedette. Era un incubo. Le sembrava di perdere il contatto con la realtà e non andava affatto bene. Non voleva lasciarsi guidare come una sonnambula negli intrighi del fratello.

    «E quale sarebbe il vostro piano, esattamente?»

    «Siete al corrente della legge riguardante la proprietà delle donne?» le domandò Arthur in tono professionale.

    «Credo di sì...» disse lei dubbiosa. In realtà, non vi aveva mai fatto caso, dato che non possedeva niente.

    «Bene, lasciate che vi spieghi nei dettagli» continuò l’amico. «Una donna non sposata è, a tutti gli effetti, proprietà di suo padre finché non arriva al matrimonio, quando diventa proprietà del marito così come tutti i suoi averi. Come donna non sposata, ma di una certa età e senza

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