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Trieste Connection: Operazione Orient Express
Trieste Connection: Operazione Orient Express
Trieste Connection: Operazione Orient Express
E-book504 pagine7 ore

Trieste Connection: Operazione Orient Express

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Info su questo ebook

L’amministrazione anglo-americana, che dal giugno 1945 all’ottobre 1954 controllava il territorio conteso fra l’Italia e la Jugoslavia, ne aveva fatto l’efficace osservatorio per gli eventi d’oltre cortina, designando a questa funzione un particolare organismo creato e sostenuto dalla collaborazione fra la Cia e l’Intelligence Service. Indagando sul casuale ritrovamento dei resti di un aereo misteriosamente scomparso nell’Alto Adriatico, la fuga di segreti militari da un’industria d’informatica e alcuni omicidi scopre l’intreccio fra la politica e l’organizzazione internazionale che controlla il traffico delle armi e della droga, a cui non sono estranei gli opposti interessi dei servizi segreti. Protagonisti di quella che diventa l’operazione” Orient Express” .
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2014
ISBN9788890983429
Trieste Connection: Operazione Orient Express

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    Anteprima del libro

    Trieste Connection - SILVANO TAUCERI

    BIOGRAFIA

    TRIESTE CONNECTION

    SILVANO TAUCERI

    TRIESTE CONNECTION

    OPERAZIONE ORIENT EXPRESS

    EDIZIONI ALEF @2014

    ISBN 9788890983429

    AVVISO IMPORTANTE

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    L'Autore e l'Editore declinano ogni responsabilità da danni a cose o persone che possono derivare dall'applicazione

    di quanto descritto in questo libro, dei quali il Lettore se ne assume piena responsabilità. Quanto descritto non sostituisce trattamento sanitario, medico o psicologico.

    © Edizioni Alef ltd 2014 - Tutti i Diritti Riservati Vietata la duplicazione del presente e-book in qualsiasi formato www.edizionialef.it 

    PRESENTAZIONE

    Per la sua collocazione geografica Trieste oltre che punto d’incontro fra le culture e le etnie mitteleuropee e quelle dell’est è sempre stata il crocevia naturale dello spionaggio. Ai tempi della guerra fredda è stata l’avamposto della democrazia occidentale con Berlino, con cui non casualmente è gemellata.

    L’amministrazione anglo-americana, che dal giugno 1945 all’ottobre 1954 controllava il territorio conteso fra l’Italia e la Jugoslavia, ne aveva fatto l’efficace osservatorio per gli eventi d’oltre cortina, designando a questa funzione un particolare organismo creato e sostenuto dalla collaborazione fra la Cia e l’Intelligence Service: il Trieste Allie intelligence Department (TAID). Anche dopo il ritorno di Trieste alla giurisdizione italiana la struttura è rimasta attiva quale dependance della Cia e della Nato, diventando più semplicemente Trieste Intelligence Branch (TIB). Negli anni Novanta è tornata in piena efficienza con gli eventi bellici e politici nei Balcani un ruolo primario in occasione degli eventi politici e bellici nei Balcani pur restando attiva soprattutto contro il traffico di droga e di ami. Il TIB, indagando sul casuale ritrovamento dei resti di un aereo misteriosamente scomparso nell’Alto Adriatico, la fuga di segreti militari da un’industria d’informatica e alcuni omicidi scopre l’intreccio fra la politica e l’organizzazione internazionale che controlla il traffico delle armi e della droga, a cui non sono estranei gli opposti interessi dei servizi segreti. Protagonisti di quella che diventa l’operazione Orient Express e del romanzo ambientato nella Mitteleuropa sono due agenti del TIB, Levan e Randy, ciascuno con le proprie esperienze maturate e vissute in decine di missioni.

    OPERAZIONE Orient Express

    Una lunga sequela d'improperi in dialetto veneto cavalca il mare leggermente increspato dagli ultimi refoli di bora nell’Alto Adriatico, a metà fra la laguna veneta e l’estremo sud dell’Istria. Non si brontola per la bora, il vento gelido d'origine siberiana, che durante il lungo percorso si affievolisce e ritrova forza e violenza quando arriva in Slovenia poco oltre il confine con l’Italia dalle parti delle grotte di Postumia.

    È la notte fra il 19 e il 20 aprile 1999. L’equipaggio del peschereccio Bartolo Secondo, porto d’armamento Chioggia, brontola rabbioso, non riesce a recuperare la rete, il patrimonio più prezioso di quanti vivono con la pesca. La bora stavolta non c’entra. Quando soffia impetuosa i pescherecci se ne stanno in porto. La rete dev’essersi impigliata. Avviene di rado, nell’Alto Adriatico il fondale è sabbioso, quando avvengono simili contrattempi è dovuto a situazioni inconsuete, a causa di qualche rottame di navi o imbarcazioni naufragate durante la guerra o per qualche improvviso, ma raro, fortunale. L’equipaggio del Bartolo Secondo vociando sfoga nervosismo e apprensione. Occorre procedere con cautela, anche un piccolo danno alla rete può provocare qualche giorno di inattività con relativa conseguenza economica. L’equipaggio ha provveduto comunque ad avvisare telefonicamente i propri familiari o gli amici, per dare assicurazioni sullo stato di salute, non c’è da preoccuparsi.

    Su, su, pian, tira pian pian raccomanda Angelo Boareto, comandante -armatore del Bartolo Secondo, una vita trascorsa in mezzo a quel golfo del quale ritiene di conoscere tutto. Il peschereccio, lungo 24 metri è uno dei più grandi della flottiglia chioggiotta, solca l’Adriatico da una quindicina d’anni. È la barca di famiglia, prima c'era il nonno, Bartolo, poi suo padre Giovanni detto familiarmente Nane e il peschereccio era stato gravemente danneggiato da una libecciata. Angelo ne aveva fatto costruire uno nuovo, identico a quello dei tempi andati. La tradizione si sarebbe certamente tramandata.

    A Chioggia i cognomi si contano sulle dita della mano, quasi la metà degli abitanti fa di cognome Boscolo e vengono riconosciuti per nome o, meglio ancora, con il soprannome. L’altra metà si divide fra Ballarin, Boareto, Cason, Polesel. Un incrocio tipico delle borgate marinare come di quelle montane. Nei tempi andati a Chioggia, come in tantissimi altri centri sulla costa, c'erano poche case, poche famiglie. Adesso sono grossi paesi, cittadine. Chioggia conta cinquantamila abitanti, è la piccola Venezia anche se lo splendore architettonico s’identifica soltanto nel duomo del Longhena, ma ci sono il ponte con la terraferma, i canali, le calli, le tipiche piazzette, il vernacolo caro al Goldoni che qui vi ha ambientato uno dei suoi più conosciuti capolavori teatrali. Una volta viveva soprattutto di pesca, oggi anche il turismo rappresenta un’importante fonte d’entrata e sono cresciute le industrie che lavorano il pescato.

    La xe dura, xe qualcosa che la tien sul fondo. Gli uomini manovrano con cautela, non avvertono alcuno scossone come quando hanno la disavventura di catturare qualche piccolo squalo, purtroppo con relativi danni. Centimetro dopo centimetro, con grande pazienza l’equipaggio riesce alla fine a sbloccare la rete, issarla a bordo.

    Xe andà ben sospira paron Boareto ghe mancava anche questa, la pesca xe diventada un terno al loto, de pesce xe restà ben poco, se va avanti cussì molo tuto, fioi, molo tuto…non se pol più viver come una volta. È un discorso ripetitivo, l’hanno inteso farlo tante volte, è solo un modo per liberarsi da preoccupazioni che una volta, ai tempi dei loro padri e nonni, non esistevano ma oggi scandiscono la vita di questa gente.

    Sta albeggiando. Le lampare illuminano ancora la poppa e il mare attorno. Un riflesso argenteo diventa prima mistero, poi si trasforma in sorpresa. Rottami metallici, un po’ di plastica, legno, tela, un groviglio confuso. Anomalo. Restano tutti sorpresi. Gavemo pescà un toco de aeroplan... esclamano in coro. A prima vista sembra infatti un pezzo di carlinga di un piccolo aereo.

    Il Bartolo Secondo fa rotta su Chioggia, il Diesel al massimo imprime forti scossoni allo scafo, via radio informa la locale capitaneria di porto. Quando il Bartolo Secondo attracca alla banchina verso le nove e mezza, quattro ore più tardi del solito, c'è una piccola folla ad attenderlo, pescatori, colleghi di lavoro che conoscono bene le vicissitudini sul mare, amici. Il ritardo tiene sempre in ansia la gente anche se il mare non è in burrasca. Stavolta non c’è stata l’ansia a caratterizzare l’attesa ma solo curiosità. La notizia s’è sparsa rapidamente, richiamando sul molo anche molti curiosi e turisti che in occasione delle festività pasquali fanno vacanza in laguna, sono stati attratti dal gruppo di gente vociferante. Ciascuno propone la propria opinione e la sostiene con teorie molto personali.

    Sarà qualcossa ancora de guerra, azzarda un vecchietto, me ricordo de aver visto, quando iero picolo, un combatimento fra caccia tedeschi e inglesi, magari uno xe sta butà zò…

    Chissà, ribatte un altro dei presenti, tochi de fero portai fin quassù dalla marea...

    Mi no go mai leto, né sentì, de aeroplani cascai…sti qua forse i gà bevù qualche bicer de tropo...staremo a veder. Fioi, l'importante xè che i sia tornai, el mar iera tranquilo, ma non se sa mai.

    Sulla banchina c'è anche il guardiamarina Alberto Palmerini, comandante della capitaneria. Originario di Ravenna, alto e snello, sempre abbronzato, trentasei anni con quattordici di anzianità; la moglie Antonella l’ha conosciuta a Taranto, durante il periodo di addestramento, il figlioletto Umberto ha quasi due anni. È uno dei personaggi più conosciuti e importanti del porto veneto, benvoluto dalla popolazione e specialmente da chi vive con il mare. Sempre pronto a fornire consigli, aiutare i pescatori nel disbrigo delle pratiche, licenze di navigazione, esami per la patente. Tranquillo per natura, quanto gentile, ma pignolo nell’espletare le sue funzioni. Il singolare episodio gli ha mandato a monte l’appuntamento con gli amici per la partita a tennis.

    In passato sono stati portati in superfice proiettili inesplosi, taluni persino residuati della guerra 1915-18 e altri di quella successiva, rottami di imbarcazioni affondate per eventi bellici e per causa del mare in tempesta o per improvvise avarie. Mai resti di aerei.

    Palmerini prende appunti, esamina il relitto, lo fotografa. Redige il verbale con le testimonianze di tutto l’equipaggio. Non ha dubbi, sono i resti di una carlinga. A giudicare dal minimo grado di salsedine l’aereo dev’essere precipitato in tempi recenti. Questa considerazione accentua subito il mistero, un aereo che cade in mare fa sempre notizia e nessuno ricorda qualche segnalazione in merito, né d’aver letto qualcosa sulla stampa locale. Il guardiamarina informa telefonicamente la capitaneria di porto di Venezia che ha giurisdizione sull’Alto Adriatico e prepara una dettagliata relazione completata con la testimonianza appena raccolta di tutto l’equipaggio del Bartolo Secondo; integra il rapporto con una dozzina di fotografie.

    LA TIMAIR

    Vicino all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, quasi periferia di Monfalcone, cittadina conosciuta in tutto il mondo per la cantieristica navale, ha sede la Timair, azienda a partecipazione mista, privata con interessi multinazionali, e pubblica per la presenza nell’azionariato del Ministero della Difesa. Finanziata anche dalla Nato. Produce sensori di altissima tecnologia, è fornitrice ufficiale anche della Nasa.

    Una mattina di giugno, quando apre l’ufficio, Elisabetta Russian, la segretaria del direttore generale Ing. De Angelis, resta quasi sbalordita. La luce è accesa. Tutto l’arredamento dell’ampia stanza è a posto, nessun segno di qualche forzature dei cassetti delle tre scrivanie chiusi a chiave. Nessun segno di effrazione, nemmeno sulla cassaforte blindata che custodisce i CD e i DVD del laboratorio di ricerca. Ogni giorno viene cambiato il codice di quattro cifre e sei lettere, che viene comunicato al comando della Legione dei Carabinieri, a Trieste, che provvede alla sicurezza dell’azienda. Il sistema offre 17.280 soluzioni. Praticamente inviolabile.

    La luce è accesa. Un fatto insolito. La sera precedente se n’era andata poco dopo le 19, il sole non era ancora tramontato dietro la lingua sabbiosa di Grado. Durante il periodo in cui vige l’ora legale la luce non viene mai accesa negli uffici, tutti i dipendenti se ne vanno prima del tramonto. Aveva timbrato il cartellino come al solito, nessuno sarebbe dovuto entrare nel suo ufficio.

    Riferisce l’episodio al direttore generale Ing. Luigi De Angelis, a sua volta molto sorpreso, al momento gli manca la capacità di fare ipotesi. Non era mai accaduto qualcosa di simile. L’episodio lo preoccupa, come lascia vedere la lieve contrazione muscolare che si disegna sul suo volto.

    La Timair sta producendo un particolare timer, dotato di un minuscolo chip con un raggio d’azione che in assenza di interferenze metalliche può raggiungere anche i trenta chilometri. È il nuovo vanto dell’azienda che ha già ricevuto tantissime richieste di mercato e ha soppiantato nella concorrenza tutte le analoghe industrie europee per l’alta qualità della produzione. È considerata leader mondiale. Un congegno ideale per impieghi bellici, coperto da una decina di brevetti e naturalmente dal segreto militare. Un congegno ideale anche per atti terroristici.

    La produzione è attentamente controllata e protetta con particolari sistemi. I disegni sono custoditi nella cassaforte situata nell’ufficio dell’Ing. De Angelis. All’interno un’altra cassaforte che si apre con un tesserino a banda magnetica. Questo duplice sistema di protezione è stato imposto e messo a punto dalla Nasa e dalla Nato dopo che da un’azienda del settore vicino a Roma erano stati trafugati i disegni di un dispositivo per l’annullamento delle intercettazioni radar. Si pensò all’azione di servizi segreti dell’est. Nessun indizio concreto. Uno dei tanti, tantissimi misteri destinati a restare racchiusi in voluminosi falconi di carta, spesso dimenticati negli archivi con anonimi codici di riferimento.

    La palazzina della Timair è illuminata all’esterno, sorvegliata dai carabinieri che si alternano con turni di tre ore. Una costruzione moderna e progettata con razionalità, elegante con le pareti tutte in vetro oscurato. Gli uffici occupano l’edificio centrale, quattro piani; i primi due sono open space, il terzo ospita la direzione centrale con le segreterie, la sezione amministrativa occupa il quarto piano. Le sale di progettazione e quelle di collaudo sono sistemate nei due piani sotterranei. Alla produzione sono destinati i locali del corpo a due piani collegato alla sede centrale della costruzione che, vista dall’alto, disegna una T.

    Il comandante della legione dei carabinieri di Trieste arriva alla Timair accompagnato da un tenente; poi sopraggiungono altri collaboratori. Tutti in abiti borghesi, per non destare sospetti, curiosità che in tali circostanze è opportuno evitare. Ascolta il racconto dell’Ing. De Angelis e della sua segretaria. Dall’ufficio non risulta asportato alcunché, tutto a posto, persino le semplici penne biro che la signorina Russian dispone sul suo tavolo in un determinato ordine, quasi paranoico. Guai se qualcuno si azzarda a spostargliele. Ne ha sentito le rimostranze persino lo stesso Ing. De Angelis quando un giorno, chiacchierando con la segretaria, fece un gesto istintivo e ne spostò una di colore verde. Elisabetta Russian usa normalmente penne con inchiostro nero e per particolari annotazioni quelle con inchiostro verde. Uno sfizio. Non ha mai preso in mano una penna con inchiostro rosso. Un rapido controllo accerta che i computer non sono stati toccati.

    Gli inquirenti aprono la cassaforte, i disegni del timer sono perfettamente al loro posto, così come l’Ing. De Angelis li ha depositati. Considerato il genere di produzione non possono esserci dubbi: se qualcuno ha cercato di aprire la cassaforte, o se sia riuscito ad aprirla senza lasciare evidenti tracce di manomissione, l’obiettivo poteva essere uno solo: il timer. Quel timer dell’ultimissima generazione è troppo prezioso. Farebbe la gioia di tutti i servizi segreti. Più ancora dei terroristi, Olp e Ira, Eta, Bin Laden, narcotrafficanti colombiani.

    La prima impressione è che nessuno abbia toccato i disegni. Tutto a posto. Ma subito, il direttore De Angelis, sfogliando i fogli, disegni e formule, ha un sussulto: sono tutti in ordine numerico, mentre vengono tenuti con una sequenza irregolare, in modo che chi li voglia esaminare, li debba mettere in ordine. Qualcuno ha toccato i documenti, fotografati o copiati, e in fretta ha rimesso tutto nella cassaforte.

    Il colonnello Altieri, che da poco più di due anni comanda la legione dell’Arma, che ha sede a Trieste con giurisdizione sull’intera regione Friuli-Venezia Giulia, il giorno seguente interroga a lungo l'Ing. De Angelis; è quasi l’imbrunire quando il direttore firma il verbale dell’interrogatorio, redatto con molta diligenza dal brigadiere Corsini, uno dei più stretti collaboratori del colonnello. L’Ing. De Angelis è fuori da ogni sospetto.

    Viene convocata, e interrogata, anche la segretaria Russian. Spiega nel dettaglio come si svolge l’attività negli uffici della Timair, in particolare quali, e con quale autonomia operativa, sono le sue funzioni; quali sono i rapporti che ha con gli impiegati e con l’altro personale. Negli uffici al momento risultano in forza diciotto persone, di cui sette donne addette soprattutto all’elaborazione dei dati informatici. Alla progettazione sono dedicati quattro ingegneri, la signorina Russian ne parla in tono di ammirazione mi scusi, signor comandante, ma mi piace rilevare che l’ingegnere Tonelli e i suoi tre colleghi sono autentici fenomeni nel campo dell’informatica e dell’elettronica, qualora ne avesse bisogno per sistemare qualcosa nei suoi uffici me lo faccia sapere, certamente sarebbero pronti a collaborare. Dopo questo inciso, che il comandante ha sottolineato con un sorriso di compiacenza, la signorina Russian completa il rapporto informativo: alla produzione provvedono 49 operai specializzati, con diversi gradi tecnici e con diverse funzioni; quasi tutti provengono dai quadri dell’esercito italiano, in particolare dalla marina militare, e dall’arma dei carabinieri, tutti hanno partecipato a corsi intensivi di formazione. Un personale altamente professionale, certo gliel’ha già indicato l’ingegnere De Angelis, fidato, bene retribuito e con interessanti incentivi, che opera con vero spirito di corpo. Anche per questo tutti hanno molta fiducia nella Timair.

    La signorina Russian conclude il minuzioso rapporto affermando personalmente non ho alcun dubbio sull’integrità morale di tutti quelli che lavorano in questa società. Da quando sono alla Timair non s’è mai verificato un episodio che potesse dare adito a qualche sospetto, ma di questo episodio ne sono veramente sorpresa. Direi sconvolta.

    Il comandante Alteri congeda la segretaria raccomandando di non far trapelare nulla, una fuga anche minima di indiscrezioni renderebbe più complicata l’inchiesta. Avverte che su tutto il personale, con la garanzia della necessaria precauzione, saranno avviate indagini, a cominciare dalla rilettura delle schede informative.

    CONFINE ITALO-SLOVENO

    Il ritrovamento del cadavere di un uomo in un viottolo carsico presso Padriciano, a pochi passi dal confine italo-sloveno suscita clamore e merita ampio spazio sulle pagine del Piccolo, l’unico quotidiano di Trieste. La vittima aveva addosso documenti, orologio, denaro. Si chiamava Giordano Kossovel, nato nel 1944 a Trieste, abitava in via Bovedo 56 nella zona di Barcola, laddove la città si assottiglia sotto il costone carsico di Prosecco e si protende con il lungomare, per quattro-cinque mesi l’anno brulicante di bagnanti. Una delle caratteristiche triestine, che fa anche un po’ di folklore. Più in alto il faro della Vittoria domina il golfo. È il più potente faro del Mediterraneo, costruito dall’Arch. Berlam negli anni Trenta. Un simbolo della città giuliana, con il castello di San Giusto e quello asburgico di Miramare.

    Kossovel era un bell’uomo, un metro e ottanta abbondanti, capelli sul biondo-castano, fisico atletico. Un uomo che anche in mezzo alla gente non poteva passare inosservato, sul quale le donne indugiavano volentieri lo sguardo. La moglie Jolanda, interrogata dai cronisti e dalla polizia dice sì, era un bell’uomo, ma per me era uno come gli altri. Non riesce a nascondere la giusta dose di civetteria, e forse di gelosia, che la rende più umana nella tragica circostanza.

    Mancava da casa da due giorni, Jolanda s’era allarmata. Il marito lavorava alla stazione ferroviaria, capotecnico elettricista, spesso veniva richiamato d’urgenza per risolvere qualche problema contingente e in quei casi era solito restare in servizio sino al termine del normale turno anche se per lui si conteggiavano gli straordinari. Per arrotondare i guadagni faceva lavori extra, curava la manutenzione dell’impianto elettrico di un paio di piccole industrie, laboratori artigiani e di uffici; era molto conosciuto e apprezzato per la disponibilità. Quel guadagno extra gli consentiva, era solito dire, di effettuare viaggi all’estero; partiva spesso da solo perché la moglie gradiva poco viaggiare in aereo. Raccontava di esser stato di qua e di là, spediva a casa e agli amici cartoline da località esotiche suscitando invidia. Era benvoluto dai colleghi di lavoro, con i quali spesso divideva un po’ del tempo libero, una partitella a carte, un bicchiere di vino che, diceva, non si nega mai.

    La signora Jolanda spiega che aveva una grande passione, la pesca. Era un provetto sub. Le pareti del salottino nella casa di via Bovedo erano tappezzate di sue fotografie, in muta, esibiva le prede; in alcune era assieme agli amici che frequentava di più e condividevano quello che diceva essere un impagabile hobby. Ma da circa un anno – racconta - avevo notato che il marito era cambiato, meno loquace ed espansivo del solito, aveva ridotto anche le uscite in barca, la sera quando rientrava mangiava poco, leggeva più del solito i giornali. Diventava ansioso quando sentiva squillare il telefono. Lo vedeva preoccupato. Il lavoro non gli procurava problemi, i guadagni erano sufficienti. Avevo la sensazione che temesse qualcosa. Avesse paura. Ma di che cosa?

    I cronisti del Piccolo, storico quotidiano triestino, accertano che la vittima non era usa ad andare nella zona di Padriciano dov’era stato rinvenuto cadavere. Particolare importante, era sparita la macchina con la quale si era recato al posto di lavoro anche se distante appena un chilometro scarso dall'abitazione. Nella bella stagione al lavoro ci andava quasi sempre in bicicletta, altro suo hobby di gioventù. L’ultima volta che era uscito per andare al lavoro, contrariamente alle abitudini, aveva preso l’auto.

    Si affaccia l’ipotesi della rapina, ma non c’erano tracce di colluttazione, sul corpo nessun segno di violenza, nessuna ferita apparente. Non erano stati rubati documenti, denaro, orologio. Soltanto la macchina.

    Gli amici raccontano che da giovane Giordano aveva praticato alcuni sport fra cui il canottaggio; era vigoroso, sarebbe stato capace di difendersi a meno che non fosse stato aggredito e colpito all’improvviso alle spalle.

    Decesso per arresto cardiaco? Ucciso? In questa seconda ipotesi, da chi e perché? Sarà l’autopsia a dare risposta agli interrogativi, e forse se ne aggiungeranno degli altri.

    MARIBOR

    Da questa tranquilla città slovena sulle ultime propaggini della Stiria austriaca, una quarantina di chilometri da Graz, della quale mantiene le caratteristiche ambientali, rimbalza la notizia che nei pressi dell’aeroporto è stato scoperto un grande arsenale d’armi, persino missili terra-aria. Tutti di fabbricazione cecoslovacca come le armi, tutto in perfetta efficienza.

    La polizia slovena ritiene che il deposito doveva esser stato costituito nella primavera. Il periodo del rigurgito bellico nel Kosovo. Solo coincidenza o stretto legame con quegli eventi?

    Dopo la caduta del muro di Berlino il traffico d’armi dall’est ha assunto volumi incredibili, per alimentare il conflitto croato-serbo in quella che era stata la Jugoslavia di Tito. Budapest era diventata uno dei crocevia di questo traffico, la Slovenia era territorio di transito, armi e munizioni venivano rinvenute un po’ dovunque e quasi non facevano più notizia perché si trattava di piccoli quantitativi. Erano anche residuati dei due giorni di guerra a fine giugno 1991 quando Milan Kucan, appena eletto presidente della repubblica slovena da pochi giorni indipendente sotto il segno della democrazia, aveva ordinato la mobilitazione generale della Teritorjalna Odvrana, la difesa territoriale, per fronteggiare le truppe della Jugoslovenska Narodna Armja riuscendo a costringerla ad abbandonare le caserme di Lubiana e altre postazioni.

    La sera del 27 giugno due elicotteri sloveni mentre rientravano da una missione esplorativa su Ig venivano abbattuti da razzi sparati dalle truppe del generale Admic. Era l’inizio del conflitto, due soli giorni per la Slovenia, cinque anni quello fra Croazia e Serbia. L’esercito jugoslavo, secondo la vecchia tradizione, era nella massima parte composto da militari serbi, aveva un potenziale nettamente superiore. La giovane Slovenia poteva contare soltanto sulle esigue forze di polizia né poteva sperare di opporre valida resistenza con reparti racimolati in poche ore nell’improvvisa situazione d’emergenza. La vicinanza con l’Austria e l’Italia indusse però il presidente Milossevic a non insistere contro la piccola repubblica, ordinando l’evacuazione delle truppe.

    TRIESTE

    Trieste è stata sempre uno dei crocevia più importanti, se non addirittura quello chiave, per i rapporti fra l’est e l’ovest non solo per il commercio ma anche per la politica, con il giusto riflesso culturale com’è tipico delle città di confine, prima quale perla dell’impero austro-ungarico soprattutto per la funzione portuale, transito obbligato per i traffici verso la mitteleuropa; poi, durante il ventennio fascista, quale baluardo nazionalista; quindi, nell’immediato dopoguerra sotto l’amministrazione anglo-americana era diventata il punto nevralgico delle strategie del mondo occidentale che fronteggiava l’espansione del blocco comunista.

    A due passi dal confine con la Jugoslavia che l’abilità del maresciallo Tito aveva portato al ruolo di cuscinetto fra est e ovest, fra Urss e Usa, era diventata terra di conquista per la Cia (Central Intelligence Agency) e il KGB russo (Komitet Gosudarsveuno Bezopasniski), per l’Udba (polizia jugoslava) e per i servizi bulgari, per l’MI5 inglese. All’epoca i servizi italiani erano ancora in fase di crescita istituzionale.

    Una città cui le spie di mezzo mondo hanno sempre guardato con interesse e nella quale hanno spesso reclutato i loro agenti, favoriti dalle innate conoscenze multilinguistiche e in particolare di quelle del ceppo slavo e del tedesco. Una città nella quale si sono creati, inventati e risolti intrighi che hanno avuto ruoli importanti e spesso decisivi nelle vicende politiche incentrate sui Balcani, terra sempre in fermento da cui sono scaturiti i conflitti più devastanti. La sua immagine di internazionalità per il mischiarsi di molte etnie, italiana, austriaca, slovena, ungherese e del medio-oriente con una notevole presenza della comunità israelitica, ha favorito, si può dire da sempre, l’attività degli uomini-ombra, specie quando alla fine dell'Ottocento divenne tappa intermedia dell’Orient Express, il mitico treno che collegava Istanbul a Parigi attraversando terre inquiete.

    Molti degli avvenimenti che hanno turbato la pace e i rapporti fra Paesi dell’est e dell’ovest sono nati nei letti di quel treno leggendario. Libri e film ne hanno tratto materiale affascinante, storie di spionaggio e di avventure galanti quando spie e agenti segreti viaggiavano in doppiopetto e ghette e restavano spesso invischiati dall’avvenenza di dame espertissime nell’interpretare con successo il doppio ruolo di donne fatali e di abili spie.

    Assunto dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna il controllo politico-militare di Trieste e della zona A, piccola parte di quella che era stata provincia del capoluogo giuliano, nell’attesa che si trovasse una soluzione politica per decidere la sovranità della zona rivendicata dalla Jugoslavia di Tito, la Cia e l’Intelligence Service avevano costituito una speciale sezione di servizi, il Trieste Allie intelligence Department (TAID). Ne facevano parte, per opportunità operative e ambientali, anche molti agenti italiani, alcuni con qualche trascorso nella polizia italiana, e alcuni jugoslavi che dopo il Cominform del 1948 avevano ripudiato il comunismo; erano impiegati specificatamente nella propaganda sottile oltre cortina.

    Nel TAID lavoravano alcuni dei migliori specialisti americani e inglesi nella crittografia e nell’intercettazione telefonica, con attrezzature che oggi sembrerebbero del medioevo ma che all’epoca erano all’avanguardia. Il fiore all’occhiello dell’organizzazione. La grande efficienza delle installazioni radio e l’abilità degli infiltrati nella Jugoslavia e negli altri Paesi contigui avevano consentito di captare con determinante anticipo segnali di avvenimenti decisivi destinati a modificare le strategie del comunismo, come la decisione del maresciallo Tito di rompere nel 1948 l’alleanza con l’Urss di Stalin e di porsi quale intermediario fra i due schieramenti mondiali, promotore dell’alleanza fra paesi non allineati. Il graduale avvicinamento della Jugoslavia all’occidente non aveva peraltro indotto gli alleati ad allentare la vigilanza e l’attività dell’osservatorio triestino, il quale oltre al coinvolgimento politico aveva continuato a portare colpi notevoli al contrabbando di armi e soprattutto della droga, che dai Balcani veniva introdotta nell’occidente quasi esclusivamente attraverso la città giuliana. Traffico che aveva le radici sempre nelle istituzioni politiche. Era stato infatti inizialmente lo stesso governo di Belgrado a favorire nell'immediato dopoguerra la coltivazione del papavero d’oppio lungo la costa dalmata e nel Montenegro, la droga procurava valuta pregiata assieme al contrabbando di sigarette che venivano prodotte nelle antiche manifatture italiane di Zara. Non era comunque droga di alta qualità in confronto a quella proveniente dal mercato birmano, che arrivava seguendo quella che Marco Polo aveva descritto come la via della seta. Il traffico illegale spicciolo era in un certo modo tollerato dagli anglo-americani perché alimentava indirettamente il finanziamento di Tito, ma quando l’iniziativa superava un limite prefissato allora scattava la repressione. Un sistema efficace per controllare la preziosa neutralità jugoslava.

    A Langley come a Londra si erano sempre compiaciuti di aver costituito il TAID. Operazione dopo operazione l’organismo era cresciuto. L'avevano potenziato e reso quasi autonomo, anche se le direttive per le problematiche più importanti venivano sempre dalla Virginia o dagli uffici londinesi. Era stato anche la grande scuola per decine di italiani che sfruttando quelle esperienze con la Cia e l’Intelligence Service successivamente erano stati chiamati a ricoprire importanti ruoli negli organismi internazionali, come l’Interpol e la Digos; alcuni erano andati addirittura a Langley, richiesti per la facilità nella conoscenza e nell'apprendimento delle lingue orientali.

    Il 26 ottobre 1954 Trieste era ritornata sotto la giurisdizione italiana, il trapasso dei poteri aveva portato allo smantellamento di molti organismi, creati in quei nove anni di amministrazione anglo-americana, fra i quali anche il TAID. Ma in realtà aveva soltanto cambiato pelle, era diventato Trieste Intelligence Branch (TIB). Era entrato nell’orbita della Nato con la collaborazione dei servizi della Francia e della Germania. Trieste restava l’importante osservatorio delle democrazie occidentali, a diretto contatto con le dittature dei Paesi socialcomunisti dell’est. Erano i tempi della guerra fredda.

    Nel 1991 quando i Balcani cominciarono a rosseggiare di fuoco bellico alimentato da guerre di religione e dagli atavici dissensi fra le variegate etnie slovena, serba, croata, montenegrina, bosniaca – che soltanto il grande carisma del maresciallo Tito era riuscito a far convivere – il TIB era tornato in prima linea.

    Al vertice del TIB si trovava Walter Wellstrong. Più brevemente chiamato Wells. Un simpatico americano del Maine, ottimo marinaio che nel golfo triestino veleggiava sicuro, e ne faceva vanto, anche nei giorni di vento forte. Gli sarebbe piaciuto poter partecipare a qualcuna delle numerose regate, soprattutto alla Barcolana, la regata più affollata del mondo con quasi duemila barche, ma il delicato ruolo glielo impediva. Si era ripromesso di farlo quando, lasciato il servizio, sarebbe ritornato a casa nel Maine. Ma Trieste gli sarebbe rimasta nell’animo.

    Da trent’anni era per il mondo, Londra, Parigi, Istanbul, Cairo prima di ricevere l’incarico che lo gratificava con la piena responsabilità, ma in un certo senso lo toglieva dal giro attivo. Il suo posto di lavoro sarebbe stato quello fisso, dietro la scrivania. Trieste sarebbe stata la sua ultima tappa. Non era un incarico decentrato, semplice routine. Si era presto ambientato, trovando un clima diverso da quello che aveva conosciuto quand’era agli ordini diretti di Langley. Ora viveva più a misura d’uomo e aveva subito apprezzato lo spirito e la capacità degli uomini che stava guidando. Dalla sua stanza d’ufficio sulla collinetta di Scorcola dominava l’ampio golfo, passava lunghe pause a scrutare il mare, con il binocolo indugiava sulle imbarcazioni, aveva imparato presto a conoscerle una a una. Era un modo piacevole, quasi di relax, per restare in allenamento. Ripeteva a se stesso e lo ricordava ai collaboratori che la memoria, in particolare quella visiva, resta sempre una dote peculiare per chi ha scelto di fare quel mestiere.

    Era single. Condizione basilare per l’arruolamento nella Cia. Una situazione logica quando era operativo in missioni, gli sarebbe pesato avere legami con una famiglia, troppi rischi e poco il tempo da passare in casa con moglie e figli. Adesso, con quella scrivania che gli dava autorità e prestigio, avrebbe desiderato averla, una famiglia. Ci pensava nei momenti di riflessione. Gli sarebbe piaciuto poter frequentare la high society triestina, piena di cultura. Svagarsi un po’. Il mestiere che aveva scelto continuava a impedirglielo. Così, quasi costretto, si godeva le brevi vacanze nel suo Maine, giornate di pesca e di partite a scacchi con gli amici di un tempo, ormai anziani anche loro.  

    ALTO ADRIATICO

    La capitaneria di porto di Venezia riceve il rapporto del guardiamarina Palmerini e lo invia per corriere al Ministero della Difesa che, dato il particolare contenuto delle prime indagini, lo trasmette per prassi e per conoscenza al comando della Nato in Italia. Vicende del genere possono avere importanti sviluppi internazionali e riguardare direttamente anche l’attività della stessa alleanza atlantica.

    Nell’attesa di successivi sviluppi i resti della carlinga recuperati in mare dal peschereccio Bartolo Secondo, posti subito sotto sequestro, vengono trasportati all’aeroporto militare di Aviano, base della Nato.

    Le analisi tecniche permettono di stabilire elementi molto importanti per il proseguimento dell’inchiesta:

    - la carlinga apparteneva a un aereo Chessna, anno di fabbricazione 1988, bimotore jet; modello dotato di tutte le apparecchiature elettroniche e radar per il volo in qualsiasi condizione, anche per il volo notturno; un tipo di aereo che può essere condotto da una sola persona con funzione di pilota e navigatore;

    - un piccolo frammento di kevlar indica che l’aereo era dotato anche di un sistema Blue Diver con funzioni antiradar, che dal 1987 viene impiegato dai bombardieri strategici e ch’è stato perfezionato per gli Stealth, i famosi aerei invisibili che non possono essere individuati dai radar; alcuni sono di base ad Aviano e hanno effettuato incursioni sul Kosovo;

    - il grado di salsedine rilevato sui resti consente di stabilire con quasi assoluta certezza che l’aereo era precipitato in mare una ventina di giorni prima del ritrovamento;

    - la sigla ACC44371-88, riscontrata su una targhetta metallica non risulta in alcuno degli elenchi originali di fabbricazione che l’industria Chessna ha inviato al centro aeronautico internazionale, archivio ufficiale di tutte le costruzioni di aerei di qualsiasi tipo e dimensione, per scopi civili e commerciali;

    - la stessa sigla, in base al registro della società costruttrice negli Usa, chiaramente modificata nella numerazione, potrebbe essere attribuita a un executive 12 posti;

    - è probabile che l'aereo sia stato acquistato da società di comodo, forse pagato attraverso conti cifrati per non lasciare traccia alcuna, ma non si escludono successivi cambiamenti di proprietà.

    L’elemento che maggiormente attira l’attenzione degli inquirenti, ai carabinieri di Trieste si sono aggiunti tecnici inglesi della base Nato di Aviano, riguarda la dotazione del sistema Blue Diver. Significa che l’aereo era impiegato per azioni delicate, non faceva parte degli executive in dotazione alle grandi industrie per gli spostamenti rapidi e indipendenti di manager, proprietari e dirigenti d’alto grado.

    L’episodio che pareva marginale, un semplice contrattempo di pesca, sta assumendo contorni sempre più misteriosi, sempre più interessanti.

    Non si hanno notizie di aerei scomparsi durante il volo, nessuna denuncia nemmeno per il pilota o per eventuali passeggeri.

    Il Bartolo Secondo ha recuperato una piccola parte di un grande mistero.

    Si presume che il Chessna volasse da ovest verso est, cioè in direzione dell’Istria o della costa dalmata e che, trovandosi a una quota molto bassa sul mare sia incappato in un’improvvisa turbolenza, probabilmente di notte, e sia precipitato senza che il pilota o chiunque altro si trovasse a bordo avesse il tempo di lanciarsi con il paracadute.

    Si affaccia concretamente l’ipotesi che trasportasse armi se andava verso est, cioè verso la zona ribollente di guerra; o droga se invece volava in direzione opposta. Solo così si può spiegare il silenzio che ha coperto l’incidente. Non si esclude l’eventualità che il pilota, o altri che fossero stati a bordo, si sia potuto salvare e abbia raggiunto la costa, magari su un canotto, e si sia allontanato, forse addirittura aiutato a far perdere eventuali tracce. Viene avviata un’indagine nella zona, lungo il litorale da Jesolo a Grado, anche se resta minima l’eventualità che qualcuno abbia visto un canotto o una specie di naufrago. Qualche indiscrezione sarebbe dovuta comunque trapelare, anche se non riportata sui giornali.

    Sorge intanto un nuovo interrogativo, decisivo per l'impostazione delle indagini. Supponendo che fosse impiegato per un trasporto illegale, armi, droga o qualcosa d'altro, anche capi mafia, forse di quella mafia che sta sfruttando la nuova situazione politica a Mosca, da dov’era decollato quel aereo e dove sarebbe dovuto atterrare? Era dotato del sistema anti-radar, poteva dunque partire e atterrare da qualche campo della pianura padana o del basso Veneto, sfuggendo ai centri di controllo dislocati nel Friuli, non solo a quelli in funzione per l'aeronautica commerciale ma persino a quelli della Nato. Non sarebbe potuto partire dalla Baviera o dall’Austria, tale caso avrebbe dovuto sorvolare le Alpi e gli aerei che trasportano armi al limite della capacità di carico preferiscono rotte meno rischiose.

    L'IPPODROMO

    Si cercano indizi fra il Veneto e il Friuli, non viene esclusa peraltro la pista slovena mettendo in relazione questo episodio con il ritrovamento di armi presso l’aeroporto di Maribor.

    L’inchiesta coinvolge anche l’inglese M15 perché il sistema Blue Diver, del quale l’aereo era dotato, viene impiegato dal Quinto Stormo dei bombardieri strategici della Royal Air Force di stanza nelle basi Nato nel nord-est italiano. Com’è avvenuta la fuga di quel dispositivo, strettamente riservato alle forze armate?

    Un altro dettaglio che infittisce il mistero e porta l’episodio in primo piano: si deve trovare il campo di partenza del Chessna. Il resto non dovrebbe esser difficile da scoprire.

    Alla base di Aviano vengono visionati chilometri di filmati, rilevati dai satelliti spia nel periodo in cui si presume sia precipitato l’aereo, ma la zona non viene coperta 24 ore su 24. Ci sono dei buchi neri. Si spera tuttavia di trarre indizi di una certa rilevanza, quanto meno per individuare il potenziale punto di partenza dell’aereo, sempreché si concretizzi l’ipotesi non tanto azzardata che il decollo sia avvenuto dal Veneto.

    A bordo di un elicottero il tenente Mitchell di stanza alla Setaf di Vicenza comincia a perlustrare la radura del Piave. Al secondo giorno di quel peregrinare a cerchi concentrici la sua attenzione viene attirata da un piccolo ippodromo in disuso, un anello sabbioso sufficientemente largo, senza alberi d’intorno, Sulla carta topografica della zona viene ancora segnalato come centro ippico Piavotto, ma in effetti è stato abbandonato una decina d’anni prima quando l’allevamento di trottatori era stato trasferito nella zona di Jesolo.

    Da bassa quota il tenente Mitchell fa rapidamente un quadro molto interessante, pressoché completo, mette in azione le apparecchiature telefotografiche che saranno poi confrontate con i filmati dei satelliti spia. L'ex ippodromo, dotato di un paio di capannoni sarebbe un rifugio ideale per aerei del tipo Chessna. I due cancelli in ferro posti all’entrata erano stati divelti, una parte del muro di cinta abbattuta, due pali della luce segati vicino alla base. Non c'è segno della presenza di qualcuno. Meglio così, per effettuare l’accurata ispezione, ma tutto diventa ancora più misterioso.

    Un bel posto per voli clandestini commenta Mitchell mentre ordina al pilota di atterrare. Appena il rotore si ferma il tenente

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