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Euripide Baccanti
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E-book316 pagine3 ore

Euripide Baccanti

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Al tramonto della sua esistenza, Euripide scrive uno dei capolavori del teatro mondiale: le Baccanti. Dopo 2500 anni la tragedia continua ad esercitare il suo fascino su spettatori e lettori, e nello stesso tempo ad essere oggetto di interpretazioni diverse e spesso contrastanti. Già nel 1909 G. Norwood le definiva un “rompicapo”; oggi la situazione, nonostante numerosi ed eccellenti studi, non è mutata: le Baccanti iniziano e finiscono sotto il segno dell’enigma (che è lo statuto formale della tragedia greca). D’altronde le grandi opere dell’antichità classica non offrono mai soluzioni, non sono mai consolatorie, non hanno la pretesa di risolvere i grandi problemi dell’esistenza né di inviare “messaggi”(come si dice oggi), ma, nel loro lucido pessimismo, ci stimolano a porci continuamente domande e accrescono la nostra sensibilità.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2014
ISBN9788890983443
Euripide Baccanti

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    Anteprima del libro

    Euripide Baccanti - Pio Mario Fumagalli

    BIBLIOGRAFIA

    INTRODUZIONE

    L’ULTIMO EURIPIDE

    Nel 408 a.C., sempre più nauseato e lontano dalla politica ateniese, forse anche deluso dallo scarso consenso ottenuto dalle sue commedie presso i concittadini, Euripide lasciò Atene e, dopo un soggiorno a Magnesia, si recò a Pella, in Macedonia, ospite del re Archelao: rimase in Macedonia fino alla morte, avvenuta nell’inverno del 407-06. In questo periodo compose l’Ifigenia in Aulide e le Baccanti, che, insieme all’Alcmeone a Corinto (andata perduta), vennero rappresentate postume ad Atene nel 403 e ottennero il primo premio. Per il carattere rivoluzionario della sua arte, che non era fatta per piacere ai gusti tradizionalisti di gran parte del pubblico ateniese, in vita ricevette solo quattro primi premi: dunque, il grande vecchio (ormai aveva quasi settantasette anni) non ebbe la soddisfazione di vedere il suo quinto successo. Alla notizia della morte di Euripide, un altro grande vecchio, Sofocle, più anziano di una decina d’anni, presentò nel proagone i coreuti senza corone in segno di lutto; più tardi fu eretto in suo onore un cenotafio sulla via del Pireo. Nel 405 la vittoria era andata all’Edipo a Colono di Sofocle; nel 404, nell’anno della resa definitiva degli Ateniesi agli Spartani, non si tennero concorsi teatrali; nel 403 furono riprese le feste Dionisiache, durante le quali il figlio (o nipote) di Euripide, Euripide il giovane, allestì la rappresentazione dell’ultima trilogia del drammaturgo.

    Le Baccanti, una delle più belle tragedie del teatro greco, pone molti problemi di interpretazione, che si cercherà, per quanto possibile, di esaminare in seguito. Dopo le tragedie del primo Euripide, Alcesti, Medea, Ippolito (drammi, specialmente gli ultimi due, in cui compaiono i grandi personaggi femminili: Medea e Fedra), il poeta si scontra con la dura realtà politica del suo tempo (anche se negli Eraclidi il tema propagandistico è ancora dominante), finché, con le Supplici, come sostiene V. Di Benedetto,1 perde contatto con la realtà (ma, a mio avviso, vanno sottolineati anche gli elementi di attualità della tragedia, come la condanna dei demagoghi che condizionavano la politica di Atene: non è un caso che altri studiosi ritengano gli Eraclidi e le Supplici tragedie patriottiche). Sta di fatto che in seguito il poeta tratta il tema della guerra non più in chiave patriottica, ma per mostrare gli aspetti più violenti e crudeli della natura umana e si avvia verso la poetica del dolore, con le tragedie dedicate alle donne troiane, Ecuba, Troiane e Andromaca. Quindi il tragediografo si dedica alla riscrittura del mito con Elettra, Eracle e Fenicie, per approdare ai drammi d’intreccio, che per le tematiche, il lieto fine obbligato, la funzione fondamentale esercitata dalla tyche, la riduzione del coro a intermezzo lirico, anticipano in modo evidente la Commedia Nuova e Menandro: mi riferisco a Oreste, Ione, Ifigenia in Tauride, Elena. Alla fine della sua lunga esistenza, ancora una volta Euripide spiazza il suo pubblico con le Baccanti: il gusto per l’intreccio e le tematiche di evasione sembra scomparire d’incanto e l’ultima tragedia di Euripide dà la sensazione di un ritorno al passato: nelle Baccanti il concatenarsi degli eventi è rigido e coerente, il coro partecipa all’azione, scompaiono le monodìai ( i canti a solo dell’attore), l’azione procede verso lo scioglimento finale senza pause. Come nella Medea, anche nelle Baccanti, lo scrittore dà l’impressione di voler lasciare al pubblico il compito di trarre le conclusioni: la parte finale della tragedia si presta a interpretazioni diverse, talvolta opposte, cosa che talvolta accadeva anche nel primo Euripide (penso soprattutto al finale della Medea), ma in quel periodo l’azione si concentrava soprattutto su un personaggio (Alcesti, Medea, Fedra), le Baccanti sono invece una tragedia corale (come in precedenza lo erano state le Troiane).

    1 Euripide: teatro e società, Torno, Einaudi, 1971.

    ARGOMENTO DELLE BACCANTI

    Il dramma è ambientato a Tebe, patria di Semele, madre di Dioniso; il prologo è recitato dal dio stesso che, presentandosi in sembianze umane, afferma di essere tornato a Tebe, dove era nato, per istituire il suo culto, contrastato dalle sorelle della madre, Ino, Autonoe e Agave, che, per gelosia verso Semele, figlia di Cadmo, hanno messo in dubbio che il bambino da lei concepito fosse figlio di Zeus e hanno inventato la calunnia che egli sia nato da un’avventura occasionale della madre. La vendetta del dio ha già avuto inizio: infatti, le tre principesse, e tutte le altre donne di Tebe, con la mente sconvolta del delirio, hanno abbandonato la città e si sono rifugiate a celebrare i loro riti sul monte Citerone. Pènteo2, re della città e figlio di Agave, convinto che il culto dionisiaco sia caratterizzato da atti sfrenati e osceni, è fermamente deciso a reprimerlo con ogni mezzo. Benché il vecchio Cadmo e l’indovino Tiresia si presentino con le insegne del culto bacchico e cerchino di persuaderlo a non offendere la nuova divinità (il primo adducendo motivi di opportunità: il culto di Dioniso sarebbe un

    2 Si tratta di un nome parlante, che significa Il sofferente, dal verbo penqšw.

    onore per la famiglia; l’altro dichiarando apertamente la divinità del dio), Pènteo si rifiuta di credere che lo straniero, dal fascino ambiguo e dall’aspetto androgino, con i capelli inanellati e profumati e abbigliato con ricche vesti, sia l’inviato del dio, come vorrebbe far credere. Il re dichiara di voler reprimere con la forza il culto di Dioniso: fa arrestare lo straniero e lo fa rinchiudere in una stalla, incatenandolo alla mangiatoia come un animale. Intanto un mandriano, che giunge dal Citerone, riferisce a Penteo i prodigi che ha visto compiere dalle Baccanti, osservandole di nascosto con altri suoi amici: fonti d’acqua, di vino e di latte sgorgano dalla nuda roccia, quando esse la colpiscono con il tirso, serpenti lambiscono le loro guance, senza peraltro far male, alcune allattano perfino cuccioli di lupi o cerbiatti: fino a quel momento il mandriano non ha visto commettere da nessuna delle donne quegli atti offensivi della sensibilità morale di cui Penteo le accusa. Però, quando Agave si è accorta di essere spiata, ha dato l’allarme e ha costretto alla fuga il mandriano e i suoi amici. Le Baccanti, allora, hanno assalito un armento che pascolava lì vicino e, in pochi attimi, con le mani nude, hanno fatto a brandelli tutti gli animali. Quindi si sono recate nei villaggi vicini e hanno avuto il sopravvento sulle guardie armate: sembravano insensibili e invulnerabili ai colpi che ricevevano. Dopo il racconto del mandriano, Pènteo assiste a un vero e proprio prodigio: lo straniero imprigionato compare davanti a lui: in modo razionalmente inspiegabile si è liberato dalle catene; nella stalla dove era prigioniero, viene trovato un toro.3 Pènteo non vuole cedere nemmeno di fronte all’evento straordinario, a questa sorta di evidenza miracolistica, però lo coglie una curiosità incontrollabile di vedere con i propri occhi gli atteggiamenti e le azioni delle Baccanti. Dioniso, allora, lo convince a vestirsi

    3 Il toro era un animale totemico che rappresentava Dioniso; un segno della sua presenza.

    come loro, per poterle spiare senza correre rischi. Penteo si lascia convincere e, indossate veste femminili, si reca con Dioniso sul monte Citerone: ma, nello stesso momento in cui indossa il travestimento, il sovrano si immedesima nella parte: chiede a Dioniso se la veste lo copre bene, come deve portare il tirso, se si nota in lui qualche somiglianza con le sorelle di Semele; quindi comincia ad essere vittima di allucinazioni: vede tutto sdoppiato e lo straniero stesso gli appare trasformarsi prima in toro, quindi ritornare essere umano. Il dio cerca di rassicurarlo, dicendo che ciò che vede è un chiaro segno del favore di Dioniso e gli promette che, una volta raggiunte le Baccanti, esse lo accoglieranno in modo tale che la sua fama rimarrà eterna. Entra in scena un messaggero che rivela al pubblico il vero significato di quelle parole ambigue: Pènteo, che si era arrampicato su un albero per osservare da una posizione privilegiata, è stato scoperto e scambiato per un leone dalla Baccanti in pieno delirio dionisiaco; quindi è stato preso e fatto a pezzi. Ora le donne stanno ritornando a Tebe, guidate da Agave, che brandisce il tirso sul quale è infilzata la testa del figlio. Quando cessano gli effetti dell’invasamento divino, la donna si rende conto del suo terribile gesto e comprende che Dioniso ha voluto punire lei e Pènteo per la loro incredulità. Quindi appare, nel suo aspetto divino, Dioniso ex machina, che mette al bando Agave, le sorelle e Cadmo, tuttavia conforta quest’ultimo per la sua pietas, annunciandogli che sarà accolto con la moglie Armonia nella terra dei Beati. Il coro conclude la tragedia con queste parole: Molti sono gli aspetti delle cose divine/ molte cose gli dèi realizzano contro ogni speranza/ ciò che si attende non si verifica,/ dell’inatteso il dio troverà la strada./ Così si è compiuta questa vicenda.

    LA MESSA IN SCENA

    La scena della tragedia è situata a Tebe, davanti al palazzo del re Pènteo, la cui facciata è raffigurata nel fondo dell’orchestra. Nel testo viene ricordato qualche elemento architettonico della facciata, in particolare la trabeazione, che molto probabilmente doveva essere visibile agli spettatori. In scena era posta anche una tomba, quella di Semele, la madre di Dioniso, colpita dal fulmine dell’amato Zeus (o consumata dal suo divino splendore). Attorno alla casa vi vedevano le rovine della casa di Semele, circondate da un piccolo recinto (shkόn: v. 11), sul quale è cresciuta, per volere di Dioniso, la vite sacra allo stesso dio. Questa parte dello spazio scenico viene chiamata ἄbaton , cioè inaccessibile, in conformità all’usanza per cui il luogo dove qualcuno è stato colpito da un fulmine diventa sacro e quindi inviolabile. Dalle rovine sale un lieve filo di fumo, che sta a simboleggiare, anche dopo tanto tempo, la vitalità della fiamma. La tomba non ha un rilievo particolare nel corso della rappresentazione drammatica: dopo il prologo essa è richiamata solo all’inizio del terzo episodio: in questa occasione dalle rovine si ravviva il fuoco, in coincidenza con i prodigi causati da Dioniso. Sempre nel terzo episodio il pubblico doveva assistere a un terremoto provocato da Dioniso. Il Coro annuncia che la casa di Pènteo sta crollando e che l’architrave del palazzo reale si muove. Possiamo solo immaginare come venisse provocato questo sommovimento. Poiché la casa non doveva crollare, era sufficiente far muovere qualcuno degli elementi architettonici per dare al pubblico l’idea del sisma ed eventuali rumori retroscenici potevano completare l’effetto.Nell’esodo compare in scena Dioniso in veste divina (il momento della sua epifania è andato perduto nella lacuna che si apre dopo il v. 1329): è possibile che venisse usata la mhcanή, oppure che il dio comparisse su una piattaforma (qeologeῖon) collocata al di sopra della skhnή, da dove gli dèi pronunciavano i loro discorsi. Di solito, questa postazione per il dio che parla dall’alto (ammesso che questi non appaia direttamente sospeso alla macchina) si immagina posta direttamente sul tetto della skhnή (che, in questo caso, deve essere ipotizzata come struttura molto solida: in alternativa si può supporre che la piattaforma venisse montata dietro la facciata visibile agli spettatori: qui l’attore poteva salire senza essere visto e recitare la sua parte). 4

    Ha notato V. Di Benedetto5 che nelle Baccanti si crea uno spazio strettissimo fra quello visibile del teatro di Dioniso (che, come abbiamo detto, rappresentava la reggia del sovrano) e uno spazio extrascenico lontano, cioè il monte Citerone, dove vi erano, in preda alla manίa dionisiaca, le donne di Tebe. Afferma lo studioso: Questa connessione è per il Coro (cioè le adepte di Dioniso) di tale natura che nel corso della tragedia, si ha il senso (si veda in particolare il IV stasimo), di un «continuum» tra la parte della città da esso presidiata e il monte: il che ha –evidentemente- anch’esso una valenza ideologica, con il non dionisiaco che viene a risultare come esterno, ma anche estraneo e minaccioso [….]. Era –questa- una delegittimazione del potere politico, ma anche una delegittimazione dello spazio scenico tradizionale. Euripide preferì correre questo rischio. Anzi, esaspera il fenomeno. Non uno, ma due messaggeri, e tutti e due riferiscono di eventi che avvengono nello spazio extrascenico lontano, e in gran parte sul Citerone. E in più Euripide crea una sequenza, dalla scena

    4 Per queste considerazioni mi sono rifatto a: V. Di Benedetto-E. Medda, La tragedia sulla scena, Torino, Einaudi, 1997 e a M. Di Marco, La tragedia greca, Roma, Carocci, 2009.

    5 Euripide, Le Baccanti, a cura di V. Di Benedetto, Rizzoli, Milano 2004; Postilla IV, Lo spazio scenico, pp. 46-47.

    all’extrascenico, dalla città al monte. Prima si avviano Cadmo e Tiresia. […]. La sequenza delle partenze continua con Dioniso stesso e Penteo, e con loro si infila un servitore, non invitato, non menzionato, che poi giocherà un ruolo importante. E Agave è già andata. Solo il Coro resta. Ma è una presenza che tende alla dissolvenza dell’impatto.

    Un’osservazione particolare merita la parrucca che era fissata alla maschera di Dioniso. Su questo vero e proprio strumento scenico ha fatto osservazioni notevoli, anche se da alcuni grecisti non condivise, uno studioso shakespeariano, J. Kott6: Agave ha tolto la maschera dal tirso. Ancora ebbra, continua a vedere in essa la testa di un animale ucciso. Accarezza la morbida criniera. Ma che specie di maschera è? Il viticcio, fissato al tirso, simile a un arricciato germoglio d’edera, non è una testa di leone, ma una parrucca dalle trecce lunghe. Nel primo agone, Penteo ha strappato la parrucca dalla testa dello straniero. Quando si veste da baccante, si mette la stessa parrucca di lunghi capelli biondi. E proprio lo straniero gli accomoda un ricciolo andato fuori posto. Quando le Menadi frenetiche lo trascinano lontano dall’albero, egli cerca invano, togliendosi la parrucca, di farsi riconoscere dalla madre. Poi Agave entra con la parrucca legata al suo tirso in luogo delle foglie d’alloro. Quando l’uomo-dio si trasforma, nell’epifania finale, in un dio-animale, il suo emblema, la chioma di Dioniso, è sul corpo del suo surrogato al posto della testa. «I miei riccioli sono sacri. Io li coltivo per il mio dio». Le peregrinazioni della parrucca dalle lunghe trecce bionde costituiscono probabilmente il più brillante impiego di un attrezzo scenico in tutta la storia del teatro.

    La distribuzione delle parti era la seguente: I attore: Pènteo e Agave; II attore: Dioniso e Tiresia; III attore: Cadmo, Servo e i due Messagger

    6 J. Kott, Mangiare Dio, trad. it., Milano, Il Formichiere, 1977, pp. 253 sgg.

    DIONISO

    1.1. Origini e caratteri generali del dionisismo

    I forti legami di Dioniso con il mondo frigio e tracio hanno fatto pensare, fin dai tempi più antichi, a una provenienza del dio da quelle terre. Tuttavia sembra ormai accertata l’origine minoico-micenea del nome Dioniso, attestata da alcune tavolette in Lineare B, rinvenute a Pilo e risalenti alla fine del XIII secolo a.C. Dioniso era considerato anticamente signore della vegetazione (tra gli effetti dell’epifania del dio vi è infatti la generazione spontanea delle piante), dotato di facoltà profetiche e di molteplici forme, sia umane, sia teriomorfe (il dio si presenta spesso sotto le sembianze di uno dei suoi animali totemici: il serpente, il toro, il capro, il leone).

    Fra le divinità greche, Dioniso occupa senza dubbio un posto a sé. Egli è figlio di Semele e Zeus: i due hanno rapporti amorosi frequenti e duraturi. Semele vede quasi ogni notte Zeus, in sembianze umane, dorme accanto a lui, spera sempre che le si mostri in tutto il suo splendore e continua ad implorarlo perché compia questo gesto. Quando, infine, Zeus cede alle preghiere e si mostra, la luminosità sfavillante del dio brucia la giovane. Poiché Semele era incinta di lui, il dio toglie immediatamente il feto, che sarà poi Dioniso, dal corpo della fanciulla, che intanto si sta consumando lentamente, taglia la propria coscia, trasformandola in un utero femminile, e vi pone dentro il feto di sei mesi. Così Dioniso sarà doppiamente figlio di Zeus, sarà il due volte nato. Appena nato dalla coscia uterina di Zeus, Dioniso appare come uno strana divinità, perché è nello stesso tempo figlio di una mortale e del sovrano degli dèi; strana anche perché è stato nutrita in parte da un ventre femminile, in parte dalla coscia di Zeus. In quanto parto maschile, Dioniso nasce sotto il segno dell’ inversione. D’altra parte, anche la tradizione relativa alla sua infanzia e adolescenza, trascorse fra le selve, in compagnia delle ninfe, rinuncia a presentarlo secondo i canoni tradizionali della virilità greca: Dioniso è anche un dio androgino, femmineo, antivirile. Dopo la nascita del bambino, la prima preoccupazione di Zeus è quella di sottrarlo all’ira della moglie Era, gelosissima, non a torto, di tutte le scappatelle del marito. Dunque, non appena il bambino diventerà grande, vagherà per il mondo, accompagnato dal suo corteo composto da Satiri (che hanno un aspetto semiferino, il naso camuso, la coda equina, il fallo sempre eretto per l’eccitazione) e da Mènadi (che hanno un atteggiamento sfrenato, agli antipodi di quello che si richiedeva alla donna greca), e si troverà molto spesso ad essere perseguitato, soprattutto da personaggi che detengono il potere o che tendono a mantenere lo status quo: questi, infatti, intravvedono nella stranezza dello straniero una minaccia per la loro consolidata posizione politica, sociale, economica: in altre parole, i detentori e i custodi del potere temono sempre la capacità di eversione dell’ordine costituito, rappresentata da Dioniso. Un giorno, ancora molto giovane, gli capita di sbarcare in Tracia: al suo seguito vi è una schiera di Baccanti. Licurgo, re del paese, non si sente tranquillo dopo l’arrivo di quello straniero: non si sa da dove venga, afferma di essere un dio, quelle giovani fanciulle appaiono come in delirio. Licurgo fa arrestare le Baccanti, ma il potere di Dioniso è sufficiente per liberarle, tuttavia il sovrano, con una persecuzione sistematica, costringe il dio, questo dio strano, ambiguo, equivoco nel suo aspetto femminile, a fuggire e le fuga è così precipitosa che, pur di scappare a Licurgo, si getta in mare: é Teti, la futura madre di Achille, a nasconderlo, per un certo periodo, nelle profondità marine. Quando riemerge, Dioniso abbandona la Grecia, passa in Asia e la conquista con le sue armate di fedeli, soprattutto donne, che non fanno uso delle classiche armi dei guerrieri, ma usano come armi i tirsi, cioè spessi steli appuntiti sui quali sono fissate delle pigne, armi apparentemente innocue, ma che possiedono poteri soprannaturali. Dioniso e le sua schiera mettono in fuga qualsiasi esercito tenti di sbarrare loro il passo; egli percorre l’Asia intera come vincitore. Poi torna in Grecia e si reca a Tebe. E, a questo punto, iniziano le Baccanti. Ma questa figura e questo culto vanno approfonditi.

    Nella religione olimpica, come afferma Vernant7: [….] la vita religiosa appare integrata alla vita sociale e politica, di cui costituisce un aspetto. Fra sacerdozio e magistratura v’è non tanto differenza od opposizione, quanto equivalenza e reciprocità: il sacerdozio è una magistratura ed ogni magistratura comporta un aspetto religioso. Dagli dèi alla città, dalle qualificazioni religiose alle virtù civiche non si trova né rottura né discontinuità. L’empietà (ἀsέbeia), colpa verso gli dèi, è anche offesa fatta al gruppo sociale, delitto contro la collettività. In questo contesto, l’individuo stabilisce il suo rapporto col divino con la partecipazione ad una comunità. L’agente religioso opera come rappresentante d’un gruppo, in nome di questo gruppo, in esso e per mezzo di esso. [….]. L’individuo, quand’è scacciato dagli altari domestici, escluso dai templi della sua città, [….] perde allo stesso tempo il suo essere sociale e la sua essenza religiosa; non è più niente. Ebbene, a questa religione politica, a questo aspetto, così fortemente marcato, di integrazione sociale di un culto civico, la cui funzione è sacralizzare l’ordine, sia umano sia naturale, e spingere gli individui ad integrarvisi, si oppone il dionisismo. E’ significativo che esso si rivolga, invece, di preferenza, a coloro che non possono inserirsi e integrarsi interamente nell’organizzazione istituzionale della polis. Il

    7 Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, trad. it.,

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