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La salama da sugo ferrarese
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E-book896 pagine10 ore

La salama da sugo ferrarese

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Info su questo ebook

Tutto, ma proprio tutto quello che avreste sempre voluto sapere sulla salama da sugo ferrarese!La salama nella storia, in tavola e in cucina, gli abbinamenti e i matrimoni d'amore, le ricette innovative e di tradizione.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2015
ISBN9788874721825
La salama da sugo ferrarese

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    Anteprima del libro

    La salama da sugo ferrarese - Graziano Pozzetto

    solitudine.

    Nei secoli tanto si è scritto sulla salamina. In proposito, ricordo i miei incontri nel 1990 a Ferrara ed a Tellaro con Mario Soldati, che lanciò nel lontano 1956 la salamina nella celeberrima trasmissione televisiva Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini.

    Come Camera di Commercio, unitamente al Presidente avv. Guzzinati, ideammo nel 1990 una nuova formula di Agenda Gastronomica Ferrarese con protagonista un prodotto tipico ed il suo mentore. Chi meglio di Soldati!

    Ricordo la gioia sua e nostra per una salamina cotta dal suo grande amico ristoratore di Bondeno.

    Ora però ci troviamo di fronte una sorta di Treccani della cultura gastronomica sulla nostra salamina, frutto del lavoro di ricerca rigoroso ed appassionato del gastronomo e scrittore argentano Graziano Pozzetto, ferrarese di confine con la Romagna estense.

    In questo volume trovano voce e spazio tutti i protagonisti del prodotto: storici, studiosi, scrittori, giornalisti, docenti, chef, ristoratori, albergatori, negozianti, operatori del settore, nonché il mondo produttivo dei grandi salumifici ferraresi, degli artigiani, dei macellai e infine i Comitati delle Fiere e Sagre, le Pro-Loco dei paesini della salamina nell’ambito di una mappa esauriente.

    Opportunamente è stata raccolta la grande tradizione di ieri, ma anche tutto l’arcipelago della salamina di oggi. Troviamo un’antologia di scritti e testimonianze dal 1300 ai giorni nostri, soprattutto dei grandi esperti ferraresi che hanno operato per divulgare e tutelare la salamina, tanto che si è sulla dirittura di arrivo in merito al riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta della salamina tipica industriale.

    È stata fatta inoltre una sperimentazione sulle ricette e gli abbinamenti, a tavola e sul piatto, con la salamina attraverso un lavoro di tanti chef ferraresi, legati alla tradizione e innovativi,con il sorprendente esito di tantissime ricette.

    Suggestivi e rappresentativi i racconti dei tanti paesi ove si produce la salamina, non solo a livello industriale ma artigianale, paesano, contadino, familiare, amatoriale. Ne esce un ricco mosaico, che tanto racconta della storia della gente ferrarese e della sua grande tradizione gastronomica.

    Troviamo infine il lavoro meritorio di divulgazione e valorizzazione della Camera di Commercio, dell’Accademia della Cucina, di Verde Delta, di Associazioni ed Enti pubblici.

    Una poderosa bibliografia sta a dimostrare l’ampiezza e la profondità del lavoro.

    Alfredo Santini

    Presidente Cassa di Risparmio di Ferrara

    Il primo contatto del prefatore con la salama da sugo, anzi con la salamina, come amano chiamarla vezzosamente i ferraresi, risale a una trentina d’anni fa. Diciamo trentuno-trentadue: inizio anni settanta, insomma. Ricorda ancora dove. Al vecchio Ristorante Tassi di Bondeno. Anzi all’Albergo Ristorante Tassi di piazza della Repubblica a Bondeno. Ancora imperante il mitico cav. Enzo Tassi. E dominanti i suoi celebri assaggini. Giunta frammezzo a una serie di inenarrabili prelibatezze, la salama lo colpì, lo stordì, lo trafisse. Più o meno quel che dovette capitare al povero Saulo di Tarso, non ancora Paolo, non ancora apostolo e non ancora santo, sulla via di Damasco. Ricordate lo stupendo Caravaggio della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma? Fosse stato a cavallo, il prefatore si sarebbe ritrovato anch’egli a terra, tramortito. Non dalla luce sconvolgente di Michelangelo Merisi, ma dalla prima cucchiaiata di salamina. Tradito forse dal perfido vezzeggiativo, l’aveva negligentemente e imprudentemente infornata. Una gran forchettata! L’impressione che ne ricevette il palato – appena mitigata dal sapore lieve e delicato del puré di patate – fu orrenda. Qualcosa a mezzo tra la polvere da sparo e non so bene che altro. Per una stramba associazione d’idee lì per lì non gli venne in mente altro che il famigerato garum dei suoi progenitori quiriti: che poi, per quanto orrido, si sarebbe trattato di altra orrida cosa. Non che la salamina sia di per sé orrida o che quella del vecchio Tassi, sul niveo soffice letto di purée, non fosse buona: anzi buonissima. Almeno a dire di alcuni altri commensali, tutti espertissimi e tutti rigorosamente indigeni. Il fatto semplicissimo fu che le sue papille – geneticamente accostumate alla porchetta dei Castelli romani frammezzo a due gran fette di fragrante pane di Genzano, il tutto innaffiato da un aureo Cannellino fresco di fra-sca – non erano preparate al contatto brusco con il cibo ignoto dal sapore insolito e deciso.

    Fu allora che il prefatore ebbe la percezione netta di quella che, ormai vieux dans le métier, è diventata sua radicata convinzione. E cioè, che accanto ai cibi per palati forti, accanto ai cibi per stomaci robusti, esista anche la categoria dei cibi per geni adatti. O, a dirla altrimenti, alcuni cibi per essere convenientemente apprezzati, necessitano dei geni giusti. Ma no caro lettore, cos’ha capito? Non sono i cibi che debbono avere i geni giusti, bensì chi questi cibi vorrebbe gustare. E che, talvolta, non riesce nemmeno a mangiare. Se i geni giusti li ha, bene. Altrimenti, potrà campare quanto Matusalemme, quel cibo per geni giusti – non c’è niente da fare – non riuscirà mai a gustarlo appieno. E, men che mai, a cogliere tutte le sfumature che di quell’alimento fanno quell’alimento: quell’unicum speciale, che lo rende speciale ai palati speciali delle persone speciali con i geni speciali.

    Ebbene, dalla famosa cena chez Tassí, il prefatore reca in sé il convincimento che la salama da sugo sia uno di questi cibi e che per poterla apprezzare nella sua fisica rotondità e nelle sue difficili sfaccettature di aromi e sapori occorra avere i geni giusti. Al punto da fargli credere che l’amore e il trasporto per la salama da sugo possano esser assunti a segni sicuri di ferraresità: parafrasando i latini, «salamina semper certa, pater numquam». Né più né meno della devozione alla ciupéta. Se qualcuno afferma con fede assoluta, determinazione irremovibile e pertinacia invincibile che quello ferrarese è il «il pane migliore del mondo» non può essere che un indigeno d’antan. Se qualcuno sdilinquisce, non dico alla vista, ma al solo pensiero di una salamina succulenta e fumante, non c’è DNA che tenga, quel qualcuno è ferrarese puro sangue¹.

    Ma di città o del forese? E se di città, di quale contrada? Di San Benedetto o di San Luca? Di Santa Maria in Vado o di San Giacomo? Di Santo Spirito o di San Giorgio? Di San Paolo o di San Giovanni²? Fin qui la salamina probabilmente non si spinge. A questo provvede (o meglio provvedeva) un altro indicatore: l’idioma, che tradizionalmente segna (segnava) un discrimine identificatore tra borghi e rioni. Emblematica in questo senso la doppia, tripla liquida /èlle/ (ellellel) con uno strascichio di /a/, di espressioni come ‘ascolta’ (ascollltaa), tipica, per quel che se ne sa, del rione di Santa Maria in Vado.

    E a proposito di varianti identificatrici, non si può non far menzione almeno delle diverse mutazioni geoantropiche della salama. Così come a Rio de Janeiro non c’è la samba (o il samba) ma tante samba quante sono le scuole di samba, a Ferrara di salamine non ce n’è una sola. Ma più d’una. Quante almeno le scuole di pensiero che sottendono la sua composizione e le modalità di preparazione. Abbiamo così la ‘variante Madonna Boschi’, la ‘variante Portomaggiore’, la ‘variante Buonacompra’. Alle quali va ad aggiungersi il ‘ramo scismatico di Francolino’. A non voler contare, per gli inappagabili e inappagati palati ferraresi, le mille varianti casalinghe. Tanto da non raccapezzarcisi più.

    Se Charles De Gaulle diceva che è praticamente impossibile tener a bada un paese come la Francia dove si producono duecento e più varietà di formaggi, figurarsi l’Italia, che, a quel che pare, di formaggi ne fa più di quattrocento! E che dire, allora, nel suo piccolo, di Ferrara e delle sue salamine?

    Nel tentativo di porre rimedio alla faccenda ed evitare più grave diaspora, «l’anno Duemilauno il giorno Venticinque del mese di Gennaio alle ore diciannove e trenta» la Delegazione di Ferrara dell’Accademia italiana della Cucina – rappresentata, in acconcia gradazione, da un illustre qualificatissimo manipolo di consiglieri, coordinatori, consultori, consulenti, componenti³ – è «venuta alla determinazione di codificare definitivamente ingredienti e caratteristiche della Salama da sugo o Salamina, raccomandando che in ogni opportuna sede ne venga tenuto conto»⁴. Ciononostante, malgrado composizione e caratteristiche della salamina siano ormai fissate con rogito notarile, il prefatore ha l’impressione, ben conoscendone le doti di individualità e indipendenza, che i bravi ferraresi continueranno nell’intrapresa di preparare o farsi preparare il proprio stock di salamine seguendo personali varianti, e poi di stagionarle o farsele stagionare e comunque di coccolarle e sorvegliarle fino al fatidico giorno della cottura. Tra una cosa e l’altra, di questo passo, son passati non meno di sei mesi! E non basta ancora, perché la cottura a fiamma bassa, a fuoco dolce come dice Guzzinati⁵, impegna il cuciniere per altro lungo tempo ancora: da un minimo di cinque-sei ore alle otto storicamente tramandate. Dopo tutto questo impegnativo trambusto, si arriva finalmente alla cerimonia, altrettanto impegnativa, del taglio sommitale della salamina, dell’asportazione della calotta, e finalmente dell’annuso e dell’assaggio della polpa fumante. Mansioni tutte che, nell’ambito domestico, sono solitamente riservate al capo di casa – laddove e ammesso che questa figura ancora esista – o all’anfitrione o al «capo-tavola [o al]l’anziano fra i presenti o [a]l più coraggioso»⁶. Ed è al culmine dell’operazione, all’acme della tensione emotiva che attanaglia i commensali in spasmodica attesa del responso, che il celebrante – se la salamina è buona (e non sempre accade) – pronuncia la frase rituale: «Buona, buona, ma non è quella…». Dalla lontana notte dell’Albergo Ristorante Tassi l’allogeno prefatore attende invano di avere in sorte di potersi incontrare, una volta almeno, con quella. Con la mitica salama regina, con la leggendaria fenice che tutti gli indigeni doc dicono di aver incontrata (che vi sia ciascun lo dice…) e che, viceversa, ancora s’asconde al suo palato pagano e italiota.

    Dopo tante divagazioni, il prefatore solo a questo punto si ricorda del suo dovere di prefazionare l’opera di Graziano Pozzetto. Dovere, peraltro, mai come in quest’occasione, lieve e gradevole.

    Lieve per aver visto il libro nascere, crescere, svilupparsi. Dai grandi faldoni pieni di documenti, appunti, note, alla prima distribuzione in capitoli, alle pagine finite: tante e tutte scritte rigorosamente a mano in una calligrafia grande e svolazzante.

    Gradevole perché l’autore è Graziano Pozzetto. Scrittore fine, colto, arguto, dilettevole: e per questo grande scrittore. Ma anche gourmet di gran classe, come denunzia la sua ‘stazza’: e per questo anche grosso scrittore.

    Dovendo parlare di Graziano Pozzetto scrittore, l’unico imbarazzo del prefatore è che non sa se decantarne più le doti di scrupoloso storico dell’alimentazione o privilegiarne invece il lavoro di attento ricercatore alla perenne riscoperta e valorizzazione degli antichi sapori della tradizione e delle cucine regionali. Se avesse a disposizione un solo sostantivo e un solo aggettivo a definirlo, userebbe l’espressione scrittore gourmand. Scrittore perché è scrittore (e lo testimoniano i tanti suoi libri). Gourmand per la gioconda golosità per il cibo, per un verso: e per l’altro, per l’avidità di conoscenza e per la curiosità che lo portano a navigare con sicurezza nel non angusto pelago della gastronomia, con continue incursioni nell’immenso oceano dell’antropologia culturale e dell’etnografia. A dimostrazione e a sostegno del pensiero di Henri Boudreau che, nel lontano 1894, asseriva che «per una precisa conoscenza delle cose umane, la composizione di un pasto è più istruttiva di una narrazione di fatti di guerra, un libro di cucina più di una raccolta di atti diplomatici, una statistica alimentare più di una relazione di intrighi di corte»⁷. E questo è quel che Graziano fa nei suoi libri. Riscrive la storia dell’uomo attraverso i suoi cibi e le ragioni ambientali, culturali, sociali che lo hanno portato a far uso di quei cibi e non di altri.

    Una volta di più Graziano Pozzetto, attraverso la storia di un prodotto minore della gastronomia nazionale, di una gastrolibidine rinascimentale come lui la definisce, rivisita la storia di Ferrara e dei ferraresi dal XV secolo ad oggi e, più «di una raccolta di atti diplomatici», più di «una relazione di intrighi di corte», il suo libro offre al lettore momenti di delizioso relax e spunti di attenta meditazione.

    Grazie, great big Graziano!

    Ferrara, agosto 2001

    Giovanni Battista Panatta

    Professore di Nutrizione clinica

    Università di Ferrara

    PRESENTAZIONE DELL’AUTORE

    È durato una quindicina di mesi il viaggio attraverso la ricerca e l’elaborazione del presente volume.

    In realtà il viaggio era iniziato nel 1958, il primo anno nel quale, sedicenne, venni a scuola a Ferrara da San Biagio d’Argenta, mio paese natale e di residenza.

    Fu allora che mi innamorai di questa splendida città, perché la girai a piedi, per una decina d’anni, soprattutto d’estate, bevendone il fascino, toccando con le mani e gli occhi strade e dimore secolari, palazzi, chiostri e giardini interni, tesori e chiese, castello e duomo, i luoghi di un grande ebraismo, le stradine medioevali, le mura, l’inquietante monumento a Savonarola.

    Ho amato anche il suo territorio con le valli, la bassa, le terre, le zone umide e incolte, i canali, le sterminate distese, gli argini, le golene, l’habitat selvatico e spontaneo, i capanni e le grandi reti da pesca, il paesaggio piatto, anche le terribili nebbie, i pioppeti, la flora e la fauna valliva, i paesini e le case di campagna, le grandi boarie, le striminzite casine della riforma fondiaria, i contadini e gli assegnatari, la gente di valle, l’unificante dialetto espressione di una etnia diversa e inconfondibile.

    Ma anche la particolare cucina e gastronomia del Parco del Po, che ho raccontato e codificato in un omonimo libro del 1997: erbe e verdure, frutti, cacciagione, funghi, pesci, rane, lumache, vini delle sabbie, prodotti e piatti creati dal grande chef Igles Corelli.

    Una terra che ho attraversato, via via, a piedi, poi con una vecchia bicicletta, indi con la Vespa, a lungo con una serie di FIAT 500.

    Ferrara e il suo habitat con la sua gente mi hanno arricchito e caratterizzato per sempre, ben prima che consolidassi la prevalente identità di romagnolaccio di confine (border-line, direbbero certi colleghi) della cosiddetta Bassa Romagna Estense.

    Il primo incontro con la salamina fu un vero colpo di fulmine, durato poi tutta la vita. Si compì all’inizio degli anni Sessanta (per nulla mitici – i miei – e tanto imbecilli) a Portomaggiore, durante l’Antica Sagra settembrina, quando, con alcuni amici, anch’essi in sovrappeso, senza ragazze e con tanto appetito, acquistammo nel negozio dei Bortolotti una salamina intera e già pronta, vuotandoci le tasche per alcuni mesi.

    La mangiammo con patate bollite e schiacciate (non il purè, che nelle nostre case nessuno sapeva preparare), tironi di pane di forno a legna, bevendo Uva d’oro contadina, gridando ed esultando per il godimento. La salamina restò con noi a lungo, grazie ad una interminabile e biblica digestione.

    Posso affermare, dopo quarant’anni tondi, che quei sapori, allora inconsapevolmente ed esoticamente speziati e sensuali, restarono sempre presenti nei miei ricordi, tanto da ritrovarli ad ogni occasione successiva: non in casa mia (la mia era una famiglia veneta, originaria di Este, e dunque estranea a questa tradizione), ma presso qualche famiglia contadina ferrarese, oppure in occasione di incursioni goduriose da Tassi a Bondeno o in altre occasioni di marcata festosità, e una volta l’anno all’Antica Fiera portuense.

    Quei sapori entrarono a far parte dei grandi sapori della mia vita di gastronomo per lo loro inconfondibile suadenza, la gratificazione sensoriale, l’unicità e diversità culturale, quale segno di appartenenza ad una territorialità che ancora oggi – e solo in piccola parte ieri – mi contraddistingue.

    E se l’amico e grande maestro Tonino Guerra racconta che nella vita, con gli anni, continuiamo a mangiare l’infanzia, grazie ad alcuni mitizzati e consueti piatti della mamma, umilmente – secondo un’analogia del tutto arbitraria, ma sincera – vorrei aggiungere che con la salamina, paesana e ferrarese, quindi materna in senso lato, ho continuato a mangiare la gioventù.

    La nostalgia, che a cavallo dei sessant’anni diventa prepotente, mi ha riportato qui.

    A ben riflettere riconosco che il cordone ombelicale con questa terra, grazie a qualche amico, ha continuato ad esistere.

    In tanti anni di vita, trascorsa in Romagna e altrove, alcuni ritorni e qualche immersione nell’habitat vallivo, gioiosamente condivisi con colleghi giornalisti e persone a me care, non sono mancati.

    Una nostalgia ed un innamoramento dell’anima che Bassani, Govoni, Vancini ed altri hanno coccolato nel tempo, che restano duri a morire, che il viaggio della salamina, così ricco ed emozionante (tuttavia non privo di qualche arrabbiatura e di qualche porta sbattuta in faccia) ha gioiosamente ravvivato e sublimato.

    In fondo al volume troverete l’elenco dei protagonisti, ai quali devo gratitudine, in quanto mi (ci) hanno offerto il loro sapere, la loro cultura, le loro esperienze sulla salamina.

    In particolare ringrazio i pochissimi che, da subito, hanno sostenuto progetto e lavoro, realizzati attraverso notevoli oneri e sacrifici personali, intesi a valorizzare una grande protagonista della cultura gastronomica ferrarese ed italiana.

    Com’è mio costume, in sintonia con una irrinunciabile deontologia professionale, ho lasciato spazio a tutti i protagonisti, rispettoso delle loro posizioni (delle quali ogni intervistato assume personale responsabilità), anche se da me non condivise, svolgendo per lo più un ruolo che definirei notarile. Nel contempo ho cercato altresì di condividere i contributi, che più di altri argomentano diritti, conoscenze e piaceri di un consumatore vieppiù attento, rigoroso e motivato; più in generale i diritti di ciascuno a continuare a godere di un patrimonio di civiltà e cultura materiale comune a tutti e che deve continuare ad onorare la terra ferrarese, secondo una linea di alto profilo e senza stravolgere una grande tradizione.

    Mi si vorrà comprendere, spero, se il mosaico che ne è uscito, sicuramente perfettibile e opinabile, è composto di tante tessere grandi e piccole, dei più svariati colori, chiari o scuri, condivisibili e non, comunque specchio reale di un complesso, affascinante, in continua evoluzione, contraddittorio arcipelago della salamina.

    Mi si vorrà perdonare, spero (e mi rivolgo con rispetto a certi fondamentalisti della tradizione), la ridondanza, quasi maniacale, dei tanti contorni, abbinamenti gastronomici studiati, ricercati, sperimentati, proposti a far da spalla alla salamina, a farle compagnia sul piatto, ai fini di una maggiore piacevolezza, diversificazione mirata ed equilibrata dei sapori, sostenendo la serbevolezza della composizione. Si tratta anche di una soppesata incursione in altre culture regionali vicine ed anche lontane.

    L’impegno del sottoscritto è frutto di una passioncella per il mito salamina, esclusivamente ed orgogliosamente ferrarese, che può talvolta, laicamente, essere goduto in altri modi, al di là del classico purè di patate e degli scontati e facili fichi e meloni.

    Di certo continuerò a considerare la salamina alla mia maniera, da gourmand impenitente, e cioè una gastrolibidine (una parola – questa – che mi ha insegnato l’amico Pasquale Petroncini) grandemente meritevole di essere condivisa a tavola (con tutte le suggestioni rinascimentali che l’accompagnano), nella convinzione che, al di là di una pur importante economicistica disciplina produttiva di filosofia industriale e potenzialmente massiva, la salamina debba essere tutelata con maggiore coerenza e rigore, nel rispetto della sua migliore consuetudine. Che continui ad essere una prerogativa esclusiva ed evocativa di questo ricco bacino gastronomico (un’espressione oggi molto alla moda coniata, alcuni decenni fa, dal grande Maestro di tutti ed amico Gino Veronelli) non mi dispiace affatto, perché la salamina racconta e rappresenta questa terra, più di qualsiasi altro prodotto e piatto, ma anche di tanti scritti e reportages di tanti eventi vacui e modaioli (peraltro costosissimi).

    La salamina racconta e dice tanto dei ferraresi di un tempo, di ieri e di oggi, della loro cultura e ricercatezza, della cerimoniosità e sensualità gastronomica con le quali sanno vivere un’occasione di grande tavola.

    Ma anche – permettetemi un’opinabilissima insinuazione – di una certa vocazione di una parte di ferraresi all’intrigo amoroso, all’arte della seduzione, per una donna o per un uomo, per la compagna o il compagno della vita, per un ospite, un amico o un parente tornati da lontano, per una persona di riguardo, ma anche per rinsaldare gli affetti familiari più cari, quale segno di fedeltà ad un rapporto di importante amicizia.

    Il tutto celebrato nell’ambito di una convivialità di alto profilo, fortemente ritualizzata, ricca di significati, vissuta come un emozionante momento unico, caratterizzata da sapori indimenticabili; una convivialità rassicurante, avvolgente, blasonata ma anche contadina, materna e nel contempo paterna, goduriosamente trasgressiva (alla faccia di certi ossessivi canoni dietologici alla moda sostenuti da gente che, senza salamina e relativa convivialità, dovrebbe vivere una dozzina d’anni di più!). In una parola una convivialità superba!

    Mi rendo conto che le voci registrate risultano sovente dialettiche e tra loro discordanti, che escono segni di contraddizione tra la diversità delle salamine paesane e contadine e artigianali, e la consistente e montante produzione industriale. Tanto più che queste ultime esprimono, legittimamente s’intende, una irreversibile modernizzazione ed omologazione a favore di consistenti quantitativi prodotti, che otterranno presto il riconoscimento e la disciplina ad indicazione geografica protetta (IGP) attraverso un marchio unico. Un marchio IGP di carattere esclusivo, che di fatto impedisce alle altre produzioni minori (che tali continueranno ad essere, oppure spariranno per sempre) di fregiarsi del suggestivo ed evocativo nome di salama o salamina da sugo. Mi auguro che tutto ciò non accada e non sia vissuto come rifiuto di identità, rimpianto o recriminazione, tradimento o provocazione, ma come una ricchezza di una grande storia comune ai ferraresi. In altri termini che possano essere tutelate, riconosciute, tollerate, identificate, con tutta la dignità produttiva e culturale che meritano, le salamine minori, senza che i produttori debbano rincorrere per normative, tecnologie, strutture, materie prime, tipologia finale di prodotto la convenzionale identità di una salamina moderna ed industriale e… tipica!

    Tante salamine di oggi possono anche non piacere, non essere riconosciute e identificate nelle loro tipicità e qualità organolettiche dai cultori più severi della tradizione. Non sarà certamente fuori luogo il corale impegno di una riflessione comune, da parte di tutti coloro che amano questo capolavoro della più aristocratica (e negli ultimi decenni contadina) gastronomia territoriale italiana, soprattutto per due ragioni. La prima è la ragione dei sentimenti, sottolineata da qualcuno, e fa sì che la salama diventi affettuosamente e confidenzialmente salamina, dopo che con lei si sono consolidati rapporti di affinità, confidenza, complicità dei sensi e del cuore, di legami amorosi. La seconda è la ragione di matrice culturale e antropologica, perché la salamina ha impiegato tanti secoli per assumere la personalità e l’identità dei nostri giorni, condivisibile e non, autentica e non, comunque consolidata in tanti decenni.

    Occorre pertanto divulgare e promuovere la cultura della salamina perché non si disperda un grande patrimonio, un capitolo importante della storia del territorio e della gente ferrarese.

    Queste le motivazioni e la passione culturale che mi hanno accompagnato e sostenuto nella lunga, entusiasmante ed onerosa fatica. Grazie per l’attenzione.

    Graziano Pozzetto

    INTRODUZIONE STORICA

    Anche il solo pensare di narrare, nel breve spazio di una introduzione, la storia della cucina ferrarese ed in questo contesto dedicare una speciale attenzione al piatto principe di questa: la salama da sugo, sarebbe una presunzione.

    Cercherò invece di ricordare notizie, aneddoti e curiosità legati tra loro solamente dal desiderio di imparare sempre di più sulla nostra storia e su questo piatto straordinario e strettamente locale al quale il presente libro è dedicato.

    Ricordo sempre le parole di un vecchio ferrarese che decretava – non era ammessa alcuna obiezione – (era mio padre), che per parlare o giudicare la salama da sugo erano indispensabili ed obbligatorie tre generazioni di ferraresità.

    Non entrerò nella descrizione di particolari troppo tecnici, in analisi e critiche approfondite, che non spettano a me, ma, partendo dal tempo in cui – presumibilmente – risale la nascita di Ferrara, esamineremo quelle notizie storiche che – anche da lontano – interessano la nostra protagonista.

    Concludo questa doverosa premessa con le parole di Cristoforo da Messisbugo nella dedica al Cardinale Ippolito d’Este del suo capolavoro Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale: «...alla (vostra) bona grazia umilmente con ogni riverenza mi raccomando».

    Come molto spesso capita, anche la nascita e la fondazione della città Estense sono avvolte nella nebbia e tali le lasceremo.

    Si parla, da alcuni autori, di un periodo precedente l’anno mille, e quindi, solo per comodità della nostra storia e chiedo venia per l’arbitrio, stabiliamo fosse l’800, quando a San Pietro in Roma, era il giorno di Natale, Carlo Magno fu incoronato da Papa Leone III, mentre il popolo acclamava «Viva Carlo Augusto, coronato da Dio, imperatore romano, arbitro di pace».

    Mi pare non solo possibile ma certo che, dopo l’improvvisata cerimonia sacra, a casa del novello Imperatore, si organizzasse un lussuoso mangiarino, festicciola uguale – presumo – in tutto l’allora mondo cristiano e quindi anche, fosse esistita l’occasione, nella appena nata Ferrara.

    Cerchiamo allora di vedere come poteva essere una tavola principesca e, attraverso una feritoia stretta e ben munita e tra fumi e odori grevi e pesanti, intravediamo quella dell’Imperatore assiso al desco con i suoi nobili. Il primo particolare che balza agli occhi, considerando l’epoca, è l’accuratezza dell’apparecchiatura: il tavolone di nera quercia è coperto da una gran tovaglia che, del caso, serve anche da tovagliolo. Ci sono i cucchiai, non le forchette ed ognuno per tagliare usa il proprio coltello personale. Solo i cuochi e gli scalchi hanno grandi forchettoni a due punte per infilzare le carni bollenti e trinciarle.

    La plebe mangiava in ciotole di legno o coccio, ma i potenti – come i nostri personaggi – usavano prezioso ed artistico vasellame d’argento e d’oro. Ma come era formato il loro menù? I vari contatti, amichevoli e non, con gli arabi avevano portato di moda le droghe: (cominciamo a sentire termini che ci ricordano la salamina) pepe, cannella, coriandolo e chiodi di garofano sull’arrosto, sul salmì e sullo spezzatino iniziavano a coesistere con le erbe aromatiche ereditate dalla tradizione romana, non ancora del tutto abbandonata.

    Ci si serviva da grandi piatti comuni e si portava alla bocca la propria porzione su una fetta di pane, meglio se non lievitato. Alla fine, se persisteva l’appetito, si mangiava anche quella scarpetta ante litteram imbevuta di tutti i sughi, oppure la si gettava ai cani in paziente attesa sotto la tavola, in ultima scelta ai poveretti.

    Il dessert era a base di miele o di quel poco di zucchero di canna predato agli arabi, come bottino di guerra, che condivano dolcetti e ciambelline e frutta: mele, pere, pesche, fichi e ciliegie.

    Vini cattivissimi allungati con acqua e un anicione proveniente ancora da storte ed alambicchi appena inventati dai figli di Allah.

    Con un salto di mezzo millennio, eccoci nella Ferrara del XIII e XIV secolo.

    Nel 1264 inizia la Signoria Estense con la presa di potere da parte del marchese Obizzo II d’Este che acquisirà poi anche i territori di Modena e Reggio Emilia.

    Gli succedono Aldobrandino III ed indi Niccolò II, detto lo Zoppo, perché gravemente afflitto dalla gotta. Il male dei ricchi: troppa carne rossa, troppo vino rosso, troppe spezie, ed ecco perché la salamina è gustata da noi ferraresi non più di tre o quattro volte l’anno.

    Gli succede alla Signoria il fratello Alberto, fondatore dell’Università di Ferrara nel 1391, con sede a Palazzo Paradiso.

    Da qui al sommo Vate il passo è breve e allora permettiamoci una breve disgressione e curiosità: cosa apprezzava sulla sua tavola Dante Alighieri?

    Vuole una tradizione abbastanza confermata che gradisse soprattutto uova sode con il sale, e già questo ci fa sorgere seri dubbi sul suo buon gusto a tavola.

    Purtroppo questi dubbi si rinforzano con la lettura del suo capolavoro. Infatti, i golosi sono sistemati – per me con decisione incomprensibile – all’Inferno tra pioggia e grandine, ponendo tra loro quel bravo ragazzo di Ciacco, ottima persona, forse solo un poco originale, che Boccaccio definirà: uomo ghiottissimo quanto alcuno altro fosse giammai, per altro assai costumato e tutto pieno di belli e piacevoli motti.

    La reputazione del divino crolla poi, definitivamente, nel Purgatorio ove i peccati di gola (perché poi ... peccati?) sono riscattati con le esortazioni di un albero parlante:

    e le romane antiche, per loro bere

    contente furon d’acqua; e Daniello

    dispregiò cibo ed acquistò savere.

    Lo secol primo, quant’oro fu bello,

    fè saporose con fame le ghiande,

    e nettare la sete ogni ruscello.

    Due parole in difesa di padre Dante – anche solo per le lontane supposte origini ferraresi della sua famiglia – bisogna spenderle: per lui doveva essere un grande sollievo, poter cenare con due uova sode ed una bella insalatina condita con olio ed aceto, dopo tanti pasticci in crosta, tortelli affogati nel burro, capponi grassi, spalle di castrone stufate e teste di bue ammarinate offerte dai grandi Signori che lo ospitavano nei suoi viaggi da esule.

    Le nostre peregrinazioni storiche ci portano finalmente nel 1400 ove ci è possibile trovare le prime tracce, sorrette da documenti, dell’indiscusso piatto principe della cucina ferrarese (e mi scuso con il pasticcio di maccheroni, con i cappellacci, con il caviale del Po, con il salame all’aglio, con il panpepato ecc.): la salama da sugo.

    La prima traccia della sua esistenza è contenuta nel resoconto di un processo contro tale Domenico – non altrimenti identificato – nel nel XV secolo fu accusato di aver fatto uso di sale di contrabbando per «far salami alla ferrarese». È proprio questa precisazione che non sembrerebbe necessaria, «alla ferrarese», che ci può far supporre, con sufficiente verosimiglianza, si tratti della nostra salamina e non di un altro qualsiasi insaccato come se ne trova dappertutto. Non è dato sapere come finì il dibattimento, ma io auspico caldamente che Domenico fosse dichiarato non colpevole per aver agito in stato di legittima difesaa per aver salvato se stesso dal pericolo di un danno grave alla sua persona. Immaginate, infatti, la reazione della zdora che, dopo un anno d’invecchiamento, dopo aver tenuto a bagno la nostra salamina per una notte ed una accurata pulizia con un pennello morbido per non scalfire la pelle, dopo cinque ore di cottura per ogni chilogrammo di peso, si ritrova un insaccato rancido perché poco salato! Si fosse rintracciato il fornitore di sale Domenico, che non aveva provveduto tempestivamente, altroché una lieve condanna per contrabbando magari con la condizionale, sarebbe stato come minimo linciato a furori d’ospiti al pranzo.

    Della indubitabile gloriosa antichità della salama è testimonianza anche la sua forma, quella divisione a spicchi regolari che è stile comune del vasellame del XV secolo.

    Non posso esimermi, ora, dal riportare alcune citazioni letterarie che arricchiscono il palmares della nostra protagonista.

    Giuseppe Longhi cita il letterato francese M. Valéry che in suo Manuale per turista, elencando le preziosità gastronomiche delle varie regioni italiane segnala, per Ferrara: l’anguille salé de Comacchio, le caviar d’usturgeon, la saucisson à suc, le vin rouge de Codigoro.

    Ed ancora il marchese Scipione Sacrati Giraldi nel suo ditirambo La Porcheide (siamo nel XVIII secolo), stampato nel 1983 dall’inedito manoscritto conservato nella Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, dalla Delegazione di Ferrara dell’Accademia Italiana della Cucina, descrive l’animale che lascia per testamento le parti di se stesso precisando anche gli eredi, ed in particolare: ai librai denti per lisciar le carte, i peli del dorso ai pittori per far pennelli, la pelle per i tamburi e via testando... ed inoltre statuisce:

    che si debban governare

    le sue carni e conservare

    con balsamici bitumi

    e con arabi profumi

    con le droghe preziose

    che natura in India pose

    perché servin di vivande

    sempre grate, e memorande.

    Ecco descritto il sistema per fabbricare insaccati che possano essere conservati a lungo, arricchendo la carne di suino con sale, droghe e spezie: si tratta, insomma, della ricetta poetica della salamina.

    Antonio Frizzi, il massimo storico ferrarese, descrive con ancora maggiore precisione la nostra diva nel suo poemetto La Salameide, edito a Venezia nel 1722 ed anche questo ristampato a cura della benemerita Delegazione di Ferrara dell’Accademia Italiana della Cucina nel 1983, narrando come questo

    Succoso salame usa formarne

    La mia Ferrara non altrove usato.

    Per purpureo liquor che suol spicciarne

    Da quel porfido molle ond’è formato

    Giuro i vostri conviti io stimo un trullo

    Mecenate, Eliogabalo e Lucullo.

    Luigi Napoleone Cittadella, nel 1864, oltre ad indicare in tal «Guido, il fiolo di Bonaventura» come particolarmente distintosi nel confezionar salami – si tratta molto probabilmente del titolare di una delle tante macellerie artigiane che ancora oggi si possono trovare in città e soprattutto nel contado ferraresi che artigianalmente creano quelle cinquanta o cento salamine l’anno per i loro più affezionati clienti – affermando di averne ricavato il nome da uno statuto del 1383, ed ancora, riferisce di Lorenzo de’ Medici il Magnifico, che, con lettera del 15 febbraio 1481 – oggi conservata nella Biblioteca di Modena – scrive al Duca Ercole I d’Este in questi termini: io ringrazio la Eccellenza Vostra dei salami, che si è degnata di mandarmi, che mi sono graditissimi.

    Non possiamo esimerci dal pensare che Ercole non mandasse al Magnifico dei cotechini o dei salami all’aglio, ma il meglio assoluto della gastronomia ferrarese e cioè la salamina.

    Tra coloro che descrissero le glorie della salama da sugo, non può essere dimenticato Domenico Vincenzo Chendi parroco di Tresigallo, che, nel 1773 nel suo trattato L’Agricoltor ferrarese, descrisse la «domestica beccaria», cioè la macellazione dei suini a domicilio, nonché la preparazione, conservazione e degustazione del nostro insaccato.

    Termino questo brevissimo e senza dubbio incompleto elenco di citazioni storico-letterarie, ricordando un poeta, storico e scrittore contemporaneo ferrarese, l’avvocato Vito Cavallini, che in varie sue opere parla in modo superbo della salamina, interpretando da par suo il sentimento dei suoi concittadini nei confronti del loro insaccato principe.

    Accenniamo ora a due fatti importanti.

    Il primo è la nascita di quella che fu la prima accademia italiana della cucina, quasi con gli stessi criteri ideali del nostro indimenticabile Orio Vergani.

    Il Vasari ne parla nelle sue Vite e ne descrive il fondatore, lo scultore Gianfrancesco Rustici coime piacevole e capriccioso uomo. Dodici gli accademici di questa brigata che si chiamava «La Compagnia del Paiolo» tra i quali Andrea del Sarto, Aristotile da Sangallo, Ruberto di Filippo Lippi ed altri insigni artistici e nobili.

    Il secondo fatto notevole è la comparsa, sulla scena della gastronomia mondiale, di un personaggio d’importanza fondamentale, facente parte, a tutti i titoli, del gruppo degli eminenti della categoria come Apicio (De re coquinaria), Guglielmo Tirel detto Taillevent (Viandier), Bartolomeo Sacchi il Platina (De honesta voluptate), l’abate Vincenzo Corrado (Il cuoco galante), Anselmo Brillat-Savarin (La fisiologia del gusto), Augusto Escoffier (Le livre des menus) ed il nostro Pellegrino Artusi (La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene), chiedo naturalmente scusa ai non citati per mancanza di spazio.

    Questo alto personaggio è Cristoforo di Messisbugo, scalco ducale alla corte d’Ercole II d’Este ed autore – come già detto – di Banchetti, composizione di vivande ed apparecchio generale ed altre opere altrettanto importanti in campo storico e gastronomico.

    Umanista di grande classe, rielaborava ed inventava ricette, fissava e raffinava quelle popolari, adattava ai gusti locali quelle forestiere ed esotiche, sovrintendeva alla organizzazione delle cucine e dei banchetti ducali ed in genere di tutte quelle manifestazioni artistiche, politiche e diplomatiche che dovevano dimostrare, con il banchetto e le sue manifestazioni collaterali, la ricchezza, la cultura e la potenza del Principe.

    La sua opera, nel descrivere i conviti dell’epoca, rallegrati da musiche, balli e recite (fu rappresentata la Cassaria di Ludovico Ariosto, nel corso della quale Angelo Beolco il Ruzante recitava madrigali e mottetti e Alfonso della Viuola e Giovan Battista Leone provvedevano agli accompagnamenti musicali), ci dà una immagine della Corte del Rinascimento paragonabile nell’efficacia e ricchezza solamente agli affreschi di Palazzo Schifanoia.

    Per questi suoi meriti fu nominato Conte Palatino e resta nel ricordo e nella storia come luminoso esempio di scienza, garbo e buon gusto.

    Perché ho ricordato Cristoforo da Messisbugo? Perché il suo periodo e il suo ambiente storico sono e saranno sempre, incomparabilmente, la cornice più bella ed adatta al magnifico affresco gastronomico costituito dalla nostra salama da sugo.

    Severino Sani

    Segretario Nazionale

    dell’Accademia Italiana della Cucina

    I numeri romani tra parentesi quadra contrassegnano le ricette della salamina, di cui l’Autore ha raccolto settanta differenti versioni.

    LA SALAMA DA SUGO FERRARESE DAL 1300 AL 2000

    Il Trecento

    A favore della presenza della salama da sugo già nel Trecento gioca la sua forma a mappamondo e la divisione a spicchi, che riecheggia la forma del vasellame ferrarese dello stesso periodo.

    Le prime tracce storiche risalgono al 1300, e si riferiscono ad un tale Guido, fiolo di Bonaventura, di mestiere pastore, che si distingueva nel confezionare salumi suini.

    Una citazione rituale molto presente in bibliografia, che riporto con beneficio d’inventario.

    Il Quattrocento

    Anche per il Quattrocento vale quanto detto per il secolo precedente, in riferimento alla forma della salamina che ricorda quella del vasellame ferrarese dello stesso periodo.

    Molti studiosi riferiscono genericamente di un tale Domenico accusato di aver usato sale di contrabbando «per fare salumi alla ferarese».

    La testimonianza di Lorenzo il Magnifico

    La testimonianza dominante a favore della salamina nel XV secolo è quella di Lorenzo il Magnifico.

    Il grande fiorentino ricevette in dono da Ercole I d’Este un cestello ricolmo probabilmente di salame da sugo; in data 15 febbraio 1481 lo ringraziò nei seguenti termini: «Io ringrazio l’E.S.V. del salame che Ella fè degnazione di mandarmi che mi è stato graditissimo».

    Potrebbe apparire un aneddoto fiabesco e leggendario, peraltro criticamente considerato semplice congettura che ad essa si riferisse il Magnifico, invece la donazione è documentata, infatti il testo della lettera viene conservato nella Biblioteca Estense di Modena. La medesima è stata pubblicata dall’avv. Romano Guzzinati nel suo volumetto La salama da sugo, mito e realtà di una tradizione ferrarese.

    Lo studioso ferrarese Vito Cavallini nel suo A tavola col Duca d’Este definisce addirittura le lodi di Lorenzo il Magnifico, «una specie di Premio Nobel conferito ai nostri gastronomi dei secoli passati».

    Il Cinquecento

    Segnalo non senza qualche perplessità la testimonianza che viene attribuita a Ortensio Landi, milanese, vissuto nel XVI secolo.

    Lo studioso ferrarese Vito Cavallini (nel suo A tavola col Duca d’Este, SATE, Ferrara, 1980) riferisce che il Landi «era scrittore né un mangione che a Ferrara scoprì la tavolata serena e pacifica, adorna di cibi saporiti, ma anche di visi amichevoli e di occhi sinceri».

    Al Landi poi viene attribuita la seguente frase: «la magnifica città, unica maestra nel far salumi, dove berrai certi vini detti Albanelle, che non si può bere più grata bevanda».

    Arbitraria, secondo gli studiosi dell’INSOR (Istituto Nazionale di Sociologia Rurale), anche se non improbabile, l’identificazione di Ferrara con la salama a cura di Ortensio Landi, in riferimento alla celebre frase: «magnifica città di Ferrara, unica maestra nel far salumi». Infatti, precisano che: «non tutti i salumi sono salama».

    Cristoforo di Messisbugo

    Di questo straordinario protagonista molto è stato scritto, per cui non mi dilungherò più di tanto. Ne hanno scritto, non sempre argomentatamente, svariati studiosi della salamina. Ne hanno nel contempo scritto altri studiosi, che più realisticamente non hanno fatto cenno a qualsiasi versione pionieristica della salamina, come ad esempio il grande maestro Massimo Alberini, nella prestigiosa rivista «La cucina italiana» («Maestri della storia della Cucina», aprile 1988), nella quale viene pur tracciato un bel ritratto del Messisbugo.

    Il grande Messisbugo operò presso la corte d’Este dal 1515 fino alla sua morte avvenuta il primo giorno del mese di novembre 1548. Egli svolse con abilità e perfezione tanti ruoli: scalco, cuoco, gastronomo, cerimoniere, economo, regista di banchetti, autorità in materia, cultore e codificatore della cucina ferrarese della sua epoca, ma non solo: sottospenditore e amministratore di corte, accompagnatore ufficiale dei duchi d’Este, creatore di convivi epocali, fiabeschi e principeschi, espressione del simbolo e luogo di potere politico, autore non solo dei Grandi banchetti, della composizione delle vivande e dell’apparecchio, ma anche scrittore di diari e resoconti di viaggio, racconti di personaggi, ruoli, elencazioni e altro, protagonista assoluto dell’arte della cucina sfarzosa, esclusiva, accurata e perfetta, superbamente programmata, in riferimento a tutti gli aspetti dell’ospitalità, presentazioni, successioni, intrattenimento, assistenza a tavola, illuminazione, oggettistica di supporto a tavola, decorazioni e addobbi, la raffinata e ricca sequenza dei piatti, il tutto organizzato ed allestito dal Massisbugo in onore e a merito del Casato Estense.

    Con la sua opera ha caratterizzato fortemente la cucina ferrarese del XVI secolo e dei secoli successivi.

    Nella sua vita, tuttavia, pare non mancasse di valorizzare anche la cucina del territorio, più semplice (anche se non mancò di frustare gli aspetti più banali e semplicistici dei mangiari plebei) che nel tempo andranno a comporre la storica cucina ferrarese. È stato quindi un grande protagonista, eppure sembra onestamente azzardato attribuirgli la paternità storica della salamina, pur in una versione primitiva del suo tempo. Non mancano sue ricette legate a salami di maiale, investiti e non investiti, salcizzoni, zambudelli, mortadelle, ma si tratta di ricette probabilmente non riconducibili all’identità della salamina come si è venuta delineando dal Settecento (grazie al Chendi) ai giorni nostri.

    Vedremo, in altra parte, come l’avvocato e Accademico ferrarese Guzzinati, che ha meritoriamente approfondito la materia, ritiene, in qualche modo, assimilabile alla salamina la ricetta della mortadella di ficatum di fegato, nel cui impasto sono presenti assieme al fegato alcuni ingredienti (carne grassa, vino rosso, sale e pepe) che la legano alla salamina moderna; sembra inverosimile che proprio in tempi nei quali le spezie erano oggetto di uso massiccio, blasonato e fortemente esibito, da parte dei nobili e delle elite dominanti, le medesime manchino nella ricetta del Messisbugo, in analogia ai piatti poveri e plebei;

    Ma, ripeto, riprenderemo il discorso con Guzzinati.

    Il Seicento

    Assai scarsi e poco attendibili i riferimenti storici alla salamina in questo secolo, nel quale, concluso il regno del duca d’Este, a Ferrara, pur continuarono, a livelli assai inferiori, gli allestimenti e le preparazioni, sotto il Governo della Chiesa, specie in occasione di visite pastorali di Vescovi e Cardinali legati.

    È lo studioso Giuseppe Longhi, nel suo celebre volume, che riferisce dell’Accademia Ariostea. Questa pare che sia stata costituita nel 1600, con lo scopo di approfondire conoscenze e studi, fare ricerche, divulgare e promuovere la salama da sugo ferrarese. Sarà vero? Eppure il bravo studioso narra che il presidente della Accademia, il colonnello pontificio Conte Francesco Aventi, uomo vistosamente baffuto, con occhiali cerchiati d’oro, a conclusione di una scorpacciata, in occasione di una seduta straordinaria, a chiusura dei lavori, sentenziò, con molto affetto, celebrando la salamina: «ma per tacer d’ogni altra vivanda straniera al principal nostro argomento sovra ogni altro a celebrar s’intese la salama da sugo ferrarese».

    Pare fantasiosamente che la salama venisse altresì considerata dagli accademici causa di discordia, pomo della discordia per gli dei dell’Olimpo. E non manca il racconto poetico, che vi risparmio, tranne la parte iniziale della trombonesca ode (secondo gli stili del tempo), tutta intesa a celebrare la salamina: «comparve quel carnoso mappamondo in un seducentissimo apparato….» Definire carnoso mappamondo una eventuale salamina, mi sembra comunque appropriato.

    Altro personaggio, trombonesco, è il Marchese Scipione Sacrati Giraldi, ferrarese, autore de La Porcheide, meritoriamente ristampata a cura dell’Accademia Italiana della Cucina, Delegazione di Ferrara, con prefazione dell’Accademico Antonio Toti, da parte della SATE di Ferrara nel 1983, si tratta di un ditirambo, composto in versi di gusto decadente, realizzato per divertimento, per celebrare il porco e i manufatti derivati, senza riferimento tuttavia alla salamina, per cui ne ho riferito per ragioni di cronaca letteraria, peraltro di scarso interesse.

    Il Settecento

    Ecco, finalmente, il primo secolo nel quale il discorso sulla salamina si fa più interessante, serio, attendibile, documentato, grazie soprattutto a Domenico Vincenzo Chendi.

    Mentre l’altro personaggio settecentesco sin troppo citato dagli studiosi è il rimatore ferrarese Antonio Frizzi, autore de La Salameide, che, sulla scia de La Porcheide, editata nel secolo precedente, si esibisce nel poemetto giocoso, stampato a Venezia nell’anno 1772. Il Frizzi, autore peraltro di altre opere storiche ambiziosamente erudite, non offre un vero e proprio contributo alla cultura gastronomica di un secolo (il XVIII) che grazie ad altri autori (fondamentali codificatori di cucina) diventa una disciplina molto interessante. Eppure La Salameide è stata anch’essa meritoriamente rieditata a cura dell’Accademia Italiana della Cucina di Ferrara, con un’interessante introduzione del prof. Gianni Venturi, e vale quale documento classico, che pur celebra alcuni insaccati ferraresi nei quali entrano in gioco poche carni suine, ma fegato in un caso (poco riconducibile ad antenato della salamina) e in un altro caso ad un insaccato prevalentemente composto di cotiche.

    L’apporto del Frizzi non è molto qualificato e mediamente rappresentativo della norcineria ferrarese del secolo in parola. Apprezzabile comunque la celebrazione del maiale e dei suoi utilizzi, rivendicandone un legame al territorio ferrarese.

    Intendo però ulteriormente argomentare queste mie opinabili impressioni, non essendo chiaramente uno storico, e riferisco quanto scritto dagli studiosi dell’INSOR che definiscono il Frizzi uno «sciagu-rato rimaiolo ferrarese… che ben si guarda nel suo poemetto La salameide di immedesimare la città con la salamina. Tutte le sue attenzioni sono rivolte al cotechino, ossia ad un prodotto latamente (e genericamente) padano».

    «Sostenere – proseguono i ricercatori – che a Ferrara vi fossero le migliori edizioni di un insaccato così conosciuto era un piccolo atto di imperialismo gastronomico. Perché invece esaltare più di tanto la salama, che pochi conoscevano? Certo, il poemetto non ignora la specialità estense: «del fegato di porco e poca carne / mista e col ferro pesto e sminuzzato/ un succoso salame usa formare / la mia Ferrara no altrove usato» (Libro III, 36). E al verso seguente esalterà «il purpureo liquor che suol spicciarne: di quel torbido molle ond’è formato».

    Ma la primazia del cotechino resta l’operazione culturale del Frizzi che quale autore delle Memorie per la storia di Ferrara attribuisce l’invenzione della salama a quei porcaioli, a quei montanari che scendevano nell’inverno dalla montagna di Trento e della Valtellina. In ogni caso l’elaborato descritto da Frizzi non corrisponde all’odierno: allora quasi tutto fegato, oggi solo il 3%.

    Altro contributo in materia ci viene dal prof. Corrado Barberis storico leader dell’INSOR, nell’introduzione alla terza edizione dell’Atlante dei prodotti tipici – I Salumi (INSOR 2002 RAI – 2002, Agra Editrice), che a proposito dei rimatori storici, legati ai prodotti tipici delle loro terre, in particolare di Antonio Frizzi e del suo poemetto La Salameide, ritiene che l’opera sia ‘oggi illeggibile, ma rivelatrice di un falso di coscienza: i prodotti dell’arte salumaria si affacciano alla cultura italiana, li rivendicano’.

    Finisce qui il contributo degli studiosi dell’INSOR, che ringrazio, in particolare la sociologa urbinate Graziella Picchi, cui mi lega un’orgogliosa amicizia.

    Fondamentale invece il contributo di Domenico Vincenzo Chendi (1718-1795), parroco di Tresigallo, autore di due importanti pubblicazioni: L’Agricoltore ferrarese, edito a Ferrara dalla stamperia camerale nella seconda metà del Settecento, ma soprattutto Il vero campagnolo ferrarese (Ferrara, Barbieri, S.A., 1761 o 1773). Il georgico Chendi è il primo codificatore di una già attendibile ricetta di salamina.

    Nel capitolo relativo al mese di dicembre (dell’ultimo libro sopracitato, s’intende) egli descrive la domestica beccaria, descrive il particolare tipo di maiale da scegliere e allevare, dà indicazioni per la sua macellatura.

    Scrive il Chendi nel 1773 (e ringrazio, ricordandolo, Giuliano Magri, autore di un bel pezzo sul Chendi, apparso in un supplemento del 24 dicembre 1969, che ho trovato nell’archivio di Gianni Negrini): «a luna crescente si ammazza il porco e si fa la domestica beccaria, avendo un giorno prima fatto digiunare il porco stesso, e soltanto con bollito, o con acqua, avendolo sostentato, acciò sia più purgato». Questa la premessa per una buona beccaria; la lavorazione è così raccontata: «In ogni peso di carne pesta si mettono dieci unzie di sale secco, e fatto in polvere, e così per non salare dopo pestata separatamente la carne, cioè quella di salame di carne, quella di salame con l’aglio, e quella finalmente dei cascami, si sala separatamente. Indi per ogni peso di carne da salami di carne, si metono ben peste, e quasi in acqua cotiche libre quattro, fegato ben pesto ed in acqua ed in polvere, un ottavo d’unzia, bacche di garofano pesto in polvere un ottavo d’unzia; noce moscata metà di una». Poi il Chendi ci descrive l’arte di amalgamare gli ingredienti: «chi vuole facilmente sbrigarsi, pesata la carne, prenda nell’indicato peso gli aromati e tutti unitamente li pesti nel mortaio, indi il tutto mescoli ben bene la carne facendola passare tra dita e dita, e poscia in monte la lasci riposare ventiquattr’ore, passate le quali, per ogni peso di carne porgavi quattro bicchieri di vino generoso e dopo rimescoli la carne tutta, come fece prima delle ventiquattrore e tantosto faccia li salami, empiendo ben bene le budella e sovra metti burazzi li dimeni, acciò la carne s’ammassi, s’unisca, né resti in essa buco alcuno, e per ciò con ago fori spesso le budella, acciò n’esca l’aria compressa e molto dannificante; indi leghi bene il salame, e poscia fatta tutti li attacchi alla pertica e dia a loro sei, e al più otto giorni di fuoco temperatissimo, tanto che si asciughino, voltandoli per tre o quattro giorni, acciò per ogni parte, ricercandosi soltanto che si asciughi la budella, e non la carne avvertendo anzi che il troppo fuoco è il pregiudizio di cui li salami si risentono».

    A questo punto, pur apprezzando vari aspetti del racconto, non può passare sotto silenzio, l’indicazione relativa all’uso dell’ago per forare le budella al fine di fare uscire l’aria (che sicuramente, se presente, alla distanza arrecherà danni come l’irrancidimento). Se tale pratica è valida per salami e cotechini, per la salamina è assolutamente proibitiva in quanto lede l’integrità del budello o della vescica.

    Ma proseguiamo la descrizione del Chendi in merito alla conservazione e stagionatura di quella che se pur con qualche limite possiamo già considerare salamina. «Così ben asciutti si ripongono in luogo arso ed asciutto nell’ore più temperate dando loro aria, ma non nell’ore umide. Succedendo stagione umida, e piovosa, diasi ai salami in luogo dal fuoco lontani, qualche poco di fumo con scaldaletti, padelle, ecc., facendo fumare scorze di forno, grappe secche, erbe odorifere, e cose simili per sotto ai salami, così un’ora per giorno, oppure ogni due giorni, a misura del bisogno, e della più o meno stagione umida. Dopo Pasqua, si mettono in dispensa, o in magazzino, ben asciugati dalla muffa che avranno già fatta, oppure in un vaso squagliandovi sopra appen caldo, ma ben liquido dello strutto, oppure si conservino nella paglia o nella cenere, ed uno alla volta si gustino, che saranno di buon gusto, piaceranno a tutti e non invidieranno ad alcun estero salame».

    Breve commento. Il discorso del Chendi fila liscio, ma pare proprio che sia fatto su misura per un salame all’aglio o da taglio o da pentola, più che per una salamina. Accontentiamoci di quel che passa il convento. Concludiamo la testimonianza del georgico in merito alla cottura e preparazione: «nel cuocere il salame si procuri di non rompere la budella, altrimenti uscirà fuori il succo e diverrà disgustoso ed insipido. Per tali salami è bene servirsi di vesciche grosse di pavone, stanteché riescano belli tondi e ben caldi, senza pelarli o romperli, si portano in tavola colla minestra, e tagliati subito, e così caldi, mandano fuori il succo assai piccante, del quale con un cucchiaio ognuno dei commensali a piacimento ne infonde nella sua parte di minestra, a cui dando un salutifero condimento, satolla e rallegra».

    Qui il discorso si è fatto intenso, esemplare, in gran parte attuale, rivelatore, anche suggestivo, se si pensa all’utilizzo delle vesciche di pavone (certi contadini ferraresi, invece, ricorrevano al gozzo di tacchino), e se a tavola si ricorre al classico cucchiaio, e se si riserva la salamina al condimento di minestre.

    Il Chendi viene giustamente considerato il codificatore storico della salamina, che nel tempo è venuta acquisendo una identità, una tradizione consolidata, una ritualità, delle modalità di produzione, conservazione, consumo ed uso, moderne, soprattutto negli ultimi cent’anni, mentre negli ultimissimi decenni non sono mancate e non mancano insidie alla sua tipicità e qualità.

    Gli studiosi dell’INSOR, già citati meritoriamente, in riferimento al ruolo sostenuto dal Chendi, hanno scritto quanto segue: «più tecnica e aderente alla formula attuale (il raffronto riguarda il conterraneo Antonio Frizzi, severamente criticato) la ricetta lasciataci da un buon parroco di Tresigallo, Domenico Vincenzo Chendi

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