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Plant Asterion
Plant Asterion
Plant Asterion
E-book383 pagine5 ore

Plant Asterion

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Info su questo ebook

«Noi siamo figli senza padre, adottati da un Plant che non ha la forza di sostenerci e di amarci. Per loro, le nostre vite non hanno importanza. Le nostre paure, le nostre gioie, i nostri amori. Niente ha importanza.»

La vita artificiale degli abitanti del Plant Asterion, una struttura verticale dove sopravvive ciò che resta dell'umanità dopo una catastrofe climatica, viene sconvolta da un attentato.
Da quel giorno Pascal, avvocato, riservata ma curiosa, e suo fratello Stan, al servizio delle forze dell'ordine ma irriverente e ostinato, si trovano ogni giorno a mettere più in discussione la loro vita di routine in quella "società perfetta"; nel frattempo, il ripetersi degli attacchi terroristici squarcia sempre più il velo che protegge i misteri dietro il Plant Asterion, chi lo controlla spietatamente, chi vi oppone resistenza e chi vuole sovvertire l'ordine costituito a costo di sacrificare ogni cosa…
Cupo, inquietante, carico di suspense e colpi di scena, il romanzo d'esordio di Martina Spuri appassionerà i lettori di fantascienza distopica, ma troverà pane per i suoi denti anche chi cerca un thriller coinvolgente con un messaggio di fondo netto e coraggioso.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2021
ISBN9788898754984
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    Anteprima del libro

    Plant Asterion - Martina Spuri

    PLANT ASTERION

    Martina Spuri

    NDE

    I edizione digitale: settembre 2021

    © tutti i diritti riservati

    Nativi Digitali Edizioni snc

    Via Francesco Primaticcio 10/2, Bologna

    ISBN: 978-88-98754-98-4

    www.natividigitaliedizioni.it

    info@natividigitaliedizioni.it

    LogoFb     logoTw     logoPt    instagram

    Immagine di copertina su Shutterstock a cura di Tithi Luadthong

    INTRODUZIONE

    Si passò la lingua sulle labbra rugose e secche, strinse gli occhi e scrutò quella folla di piccoli corpi stretti l’uno all’altro che la guardavano impressionati.

    Girò gli occhi, scrutò tutta l'aula con quel suo modo di fare che la faceva sembrare un cavallo pazzo.

    Si grattò per un’ultima volta la testa. Quanto fastidio le procurava quel maledetto fermaglio di perle che aveva deciso di mettere per l’incontro a scuola.

    Si era pentita di averlo messo, lo sentiva in bilico e prima o poi - ne era sicura - si sarebbe staccato dalla testa e le avrebbe portato via un bel ciuffetto di capelli bianchi, i pochi che le restavano.

    Lasciò ciondolare appena le gambe.

    Il maestro tossì e lei incrociò le braccia al petto, per ricomporsi. Poi si schiarì la voce: «Prima della Grande Catastrofe del 2100, la Terra era completamente diversa. Non vi erano gli Stabilimenti così come li conoscete voi bambini. Queste immense palafitte che si innalzano dal suolo e raggiungono i chilometri di altezza, avvolti da una nebbia densa. Non si viveva tutti agglomerati nelle palafitte e in diversi livelli. La vita non era in verticale. I grandi deserti tra un Plant e un altro non esistevano».

    Il maestro si alzò lentamente, spense la luce alle spalle dei bambini e attivò una diapositiva interattiva. La stanza si colorò d’improvviso di verde e di blu. I bambini mandarono dei gridolini di eccitazione.

    «Nel passato, i deserti esistenti erano rari ed erano molto lontani da noi, si trovavano in terre aride e tropicali, in posti che ho potuto vedere solo grazie a una cartina consunta che ho ereditato dai miei avi».

    La diapositiva proiettò nel cielo di cemento degli uccelli che cominciarono a cinguettare a tutto volume per la stanza.

    Alcuni bambini cominciarono ad imitarli.

    «Si viveva sul suolo, un suolo fertile, dove crescevano chilometri di erba verde che camminandoci sopra solleticava i piedi nudi. Una terra che aveva un odore particolare, soprattutto nelle giornate piovose, dove si poteva coltivare la frutta e la verdura, prodotti che nascevano in modo spontaneo, non in laboratorio. Si piantavano i semi, si lasciavano nel terreno e quelli naturalmente crescevano, all’aria aperta».

    Il maestro alzò la voce per cercare di riportare l’ordine nella classe.

    «Quelle erano delle nuvole» le indicò ai bambini che si alzavano e sedevano di continuo urlando contro le immagini delle soffici distese bianche.

    Uno dei piccoli prese a muovere le braccia e a girare attorno alle sedie finché non andò a sbattere contro una coetanea. Il maestro intervenne, correndo a consolarla.

    Senza curarsi del frastuono l’anziana continuò a recitare la sua storia, lasciando ciondolare ancora una volta le gambe:

    «Si viveva senza il bisogno della dose di ossigeno della mattina e della sera. Senza bisogno di medicine per compensare il mal di gravità. La vita era più semplice, più spontanea, non vi erano le gerarchie che ci sono ora. Non si viveva in livelli diversi, ma tutti con i piedi sulla terra. Tutti allo stesso modo. L’aria, l’acqua, la terra erano beni per tutti, non c’erano livelli, né preferenze».

    Si sistemò il vestito scuro, che nell’agitazione del descrivere le era salito sopra le ginocchia.

    «Poi ci fu la Catastrofe del 2100 e da lì iniziarono i guai» scandì con voce profonda. Girò i suoi occhi da cavallo pazzo per tutta la stanza, sotto l’indifferenza dei bambini che avevano preso a rincorrersi per tutta la stanza.

    CAPITOLO PRIMO

    IL FANTASMA DEL PLANT OCCIDENTALE

    Nelle fogne c’era puzza. Puzza ovunque. Un tanfo che strangolava e sgozzava, che confondeva le idee e le rendeva tutte simili e diverse, ma tutte pericolose.

    Era quel genere di odore che impregnava le vesti e ti dava il benvenuto ogni volta che tornavi alla base, ogni volta che ti muovevi, che ti fermavi a riflettere. Era un biglietto da visita terrificante.

    Schioccò la lingua e si mise un’unghia tra i denti. Aveva qualcosa incastrato che lo tormentava da giorni. Sputò a terra. Uno schizzo scuro confluì nel ruscello di acqua putrida che trascinava i detriti nelle fogne.

    Si toccò le labbra, e vide del sangue scuro. Si pulì con il dorso della mano e ingoiò un grumo di catarro e sangue che gli era rimasto bloccato tra il naso e la gola.

    Si tirò su, stirò con le mani gli stracci che aveva addosso.

    I tessuti dei suoi vestiti erano consunti e troppo leggeri per la stagione. Prese la coperta che aveva con sé e se la buttò sulla testa. In lontananza vide le sagome delle persone camminare sotto la luce arancione dei lampioni. I fiori sintetici emanavano profumo di rose e di margherite.

    Nessuno di loro osava immaginare.

    Nessuno di loro aveva idea di come si vivesse nelle fogne.

    Di quello che significasse.

    Alzò piano la gamba destra; gli faceva male, ed era costretto a trascinarla. A volte gli sembrava di non sentirla più. E quel sapore di sangue nella bocca. Sputò una seconda volta, per ripulirla.

    Si maledisse.

    Le gocce di condensa picchiettavano sull’asfalto.

    Era solo.

    Tossì forte.

    «Papà me lo ricarichi?» e la piccola manina si strinse intorno al carillon. Prese piano da quelle manine calde la scatola blu e ne girò quattro volte la chiavetta nella fessura. Piano piano partì.

    «Mi racconti ancora una volta la storia delle stelle?» chiese il bambino infilandosi sotto le coperte.

    «È tardi tesoro. Domani mattina devi andare a scuola» e gli accarezzò con dolcezza la frangetta corta. Aveva i suoi stessi occhi scuri.

    «Ti prego un’altra volta e basta. Voglio sapere come salvi il mondo ogni giorno». Sorrise e allungò le coperte fino al naso del bambino.

    «Va bene. Ma è l’ultima volta, poi si va a dormire».

    Tossì, e tutto il corpo venne percosso da un dolore acuto. Una lacrima spuntò all’angolo degli occhi, ma subito la ricacciò via. S’accasciò a terra. Altri schizzi di sangue macchiarono l’asfalto.

    «Signora, sta bene?».

    Un signore si intrufolò nel vicolo cieco dove lui si era riparato.

    «Signora?». L’uomo poteva forse intuire solo le sue vesti cenciose.

    «Amore» una voce si intromise alle spalle, «Lasciala stare. Non lo vedi come è ridotta?».

    L’uomo si girò per guardarla. «Ma cara…» e si voltò di nuovo verso la figura ricoperta di cenci.

    Quella, però, era scomparsa.

    CAPITOLO SECONDO

    LEISLY BOTT

    1.

    Pascal si sistemò la sciarpa e se la legò dietro al collo. Sfregò le nocche delle dita per riscaldarle e poi affondò le mani nelle tasche. Trovò il pacchetto di sigarette, ne estrasse una e se la sistemò sulle labbra.

    Il cielo del primo livello dell’Asterion era un quadro nero e senza prospettiva; la soffocava.

    Guardò gli altri passanti: alcuni indossavano abiti scuri con i baveri tirati su e c'era chi fumava con la sigaretta incollata al labbro inferiore. I più avevano lo sguardo sfuggente e il passo lento, la testa bassa e le mani in tasca o abbandonate lungo i fianchi.

    Quella era l’ora dei fumatori.

    Si trascinavano per le piazze dell’Asterion mentre tutti dormivano con l’intento di fumare le uniche sigarette concesse.

    A Pascal venne in mente una notte di quasi vent'anni prima, quando Stan, alle prime ore dell'alba, si era alzato dal letto e aveva incominciato a camminare per casa. Pascal era ancora una bambina delle primarie e quando vide il fratello in piedi, incosciente, aveva cominciato ad urlare e a svegliare i genitori.

    «Pascal non è niente. È Stan. È sonnambulo». E la madre prese ad asciugarle le lacrime.

    «Non era Stan, era uno zombie!».

    Pascal sorrise e inspirò un po’ di fumo.

    Holmes trotterellava per la piazzola, prendeva e riportava la palla, si confondeva tra le gambe dei passanti, mentre Pascal cominciava a guardare verso l’orizzonte con la speranza che la prima luce dell'alba affiorasse.

    Forse è troppo presto. Peccato. Guardò l’orologio elettronico al polso: segnava le sei meno cinque.

    L’alba le consentiva di intravedere delle tinte di colori che altrimenti non aveva occasione di vedere mai; le sembrava di scorgere, appena percepibili, delle piccole striature rosa che s’affacciavano a fatica, soffocate dal grigio di un cielo inespressivo.

    Galleggiava una perenne nebbia grigia, che copriva tutto il Plant.

    Cercò di guardare un altro po’ il cielo scuro, controllò Holmes, che nel frattempo era divenuto un puntino lontano che saltellava sopra le panchine. Si massaggiò le gambe, fece dei cerchi con il fumo e poi accartocciò la sigaretta sul ferro di una panchina.

    Se la mise in tasca.

    «Holmesss!».

    Vide il puntino fermarsi e poi correre verso di lei. Gli camminò incontro.

    «Holmes, dobbiamo tornare a casa».

    Il cane, a quella notizia, lasciò cadere la pallina per terra.

    «Holmes, è tardi. Devo fare tante cose».

    Il cane se ne andò trotterellando in direzione opposta.

    «Dai» si era arresa, «un’ultima volta e poi però torniamo a casa».

    Il bassotto tornò scodinzolando con la palla tra i denti e la bocca spalancata.

    Lei s’accucciò a prenderla, si rialzò per lanciarla quando sentì un fragore forte, seguito da un’esplosione: il cielo si accese di rosso porpora, come non l'aveva mai visto.

    Si squarciò in una ferita e Pascal sentì delle urla che arrivavano da lontano.

    Holmes ululò e cominciò a girare su se stesso.

    Lei si bloccò d'improvviso e rimase rigida, inerme. La mano lasciò andare la palla che rimbalzò più volte a terra. Si girò verso il luogo dell’esplosione, con la faccia che venne investita da una doccia di colori roventi.

    Rimase ferma, immobile, a fissare la lingua di fuoco che sfilacciava nell’aria dei detriti di macerie e fiamme rosse. Nel buio le sagome accanto a lei apparivano tutte uguali, tutte scure. Il rumore assordante dell’esplosione rendeva distanti le urla dei passanti e le diedero l’idea che lo spazio e il tempo per un secondo smettesse di scorrere per lasciar dilatare d’intensità il calore e il fuoco dell’esplosione.

    A causa del fumo i suoi occhi cominciarono a lacrimare, formando due linee umide che rigarono tutto il volto scurito dalle polveri. Il suo cuore crepitava al ritmo dell’esplosione.

    Alcune persone, per mettersi in salvo, corsero verso di lei con gli occhi vuoti, come bottoni scuciti che oscillavano sulla pelle scura. Sentì un dolore alla spalla, si girò appena per vedere un uomo grasso correre via senza accorgersi di lei.

    «Holmes?».

    Si accucciò per cercare il bassotto. Non poteva lasciare la piazza senza di lui. Non lo avrebbe sopportato.

    Un’altra sagoma scura, forse di donna, si scontrò con lei senza girarsi. Pascal cominciò a sentire il cuore batterle forte nel petto.

    Le sembrò di vedere in lontananza la sagoma scura del bassotto confondersi nella folla e correre verso l’esplosione. Aveva la coda bassa e tesa.

    «Holmes?».

    Il suono delle ambulanze sovrastava il pianto di alcuni bambini. Pascal si fece largo nella folla, era la sola ad andare controcorrente, verso il luogo dell’esplosione.

    «Holmes?» chiamò ancora e ancora. Aveva la gola secca. Il vento trainava il fumo e la polvere nella sua direzione.

    Il suono delle ambulanze era sempre più forte e scandiva i battiti del suo cuore. Si asciugò gli occhi.

    «Stai attenta!» e un uomo la prese per non farla investire da un’auto della polizia che sfrecciò per la piazza. Pascal si guardò attorno, ma non vide nessuno. Non riconobbe nessuno.

    Erano tutte silhouette senza volti, vagavano per le strade, sbandati, proprio come lei.

    Ma cosa stava succedendo?

    Guardò la macchina della polizia correre verso il luogo dell’esplosione.

    C’era Stan lì dentro?

    Chiamò il fratello al telefono. Era spento. Il fumo aumentò e chiuse in una morsa tutti gli abitanti. Pascal continuò a camminare. Tossì più volte. Gli occhi le si riempirono di lacrime.

    «Holmes?».

    Inciampò su una persona accasciata a terra. Piangeva. Si avvicinò per vederla meglio. Era una donna.

    «Signora, come sta?».

    Ma quella, sommessa, continuò a piangere sovrastata dal fragore delle sirene.

    «Signora, si deve alzare da qui. La investiranno».

    Pascal scosse la donna, la strattonò per cercare di rianimarla. Poi cercò di sollevarla e di trascinarla al riparo.

    Come c’era finita in questa situazione?

    Possibile che fosse tutto reale?

    «Signora, mi deve aiutare. Si deve mettere in piedi». Pascal sentì qualcosa smuoversi nel petto e delle lacrime scesero.

    Si accucciò per tentare di risollevarla, per non essere schiacciata, e per non lasciarla morire lì. Si avvicinò al suo volto scuro riuscì ad udire appena: «C’è mio figlio laggiù» e indicò con un dito nodoso le fiamme dell’esplosione.

    2.

    Si svegliò di colpo, come appena uscita da un’apnea. Riaffiorò in superficie e respirò a lungo, avida di ossigeno. Si guardò attorno. La stanza lentamente riprese i suoi abituali contorni. Ogni singolo oggetto le diede conforto. Rimase per un po’ sdraiata e aspettò di calmarsi.

    Era stato un brutto sogno.

    Allungò un braccio per coprirsi gli occhi dalla luce che entrava dalle fessure e notò delle macchie violacee.

    Il cuore riprese ad accelerare.

    Si guardò l’altro braccio e anche lì trovò dei cerchi scuri.

    Si alzò di scatto e chiamò: «Holmes?».

    Il dolore la investì.

    «Holmes?» insistette disperata.

    Dall’altra stanza sentì zoppicare il bassotto, che scosso si avvicinò al suo letto per cercare un po’ di conforto, incerto se scodinzolare o meno. La zampetta destra era ferita. Pascal lo prese in braccio e gli diede un bacio sulla testa. Sentiva ancora l’affanno del mettersi in salvo e il fiato corto le impediva di tranquillizzarsi. Ma per fortuna lei e Holmes erano salvi. Sospirò.

    Prese il telecomando e accese la TV: «E salgono a 40 i morti dell’esplosione di ieri, 15 ottobre 2213 alle ore 6.05 dalla ruotavia A, Fermata di Piazza dei Quattro Venti. Cordoglio per tutti i parenti delle vittime morte in questo inspiegabile evento. La polizia si sta muovendo per cercare di capire i motivi dell’esplosione, ma sulla questione c’è attualmente il riserbo più assoluto. Il Congresso ha intanto oggi visitato le famiglie delle vittime, dichiarando di unirsi al loro dolore e assicurando che luce sarà fatta sull’intera vicenda».

    Abbassò il volume. Aveva la testa stanca anche se si era appena svegliata. Quindi era tutto vero. Le ritornarono alla mente alcune urla, cercò di scacciarle.

    Si alzò e andò in camera di Stan per vedere se era tornato, ma trovò il letto sistemato e nessuno dei suoi oggetti fuori posto.

    3.

    Il profilo di Stanley Schmitt si delineò nello specchio d’acqua del lavandino della Sezione Speciale Antiterrorismo.

    Allisciò con l’acqua i lunghi capelli neri che sgocciolarono sulla camicia sporca. Gli occhi color nocciola erano circondati da delle venature rosse.

    Alcune gocce gli caddero dalla punta del naso, scontornando la sua immagine scura, riflessa. Pigiò il pulsante di espulsione dell’acqua e quella in un mulinello venne risucchiata nelle fogne.

    Alcune macchie di sangue e di fango rimasero ferme sul fondo del lavandino.

    Stan alzò la testa e guardò il suo viso riflesso nello specchio.

    Gli occhi erano cerchiati di viola. Si sciacquò di nuovo il viso. Quel maledetto rumore di sirene gli riecheggiava nella testa.

    Una sciarpa gialla giaceva accanto ad un corpo irriconoscibile. Un piede amputato che portava una scarpa da ginnastica. Il profilo di una ragazza riemergeva immobile dalle polveri dell’esplosione. Aveva la bocca spalancata colma di macerie bianche. Era soffocata nel pulviscolo, i pugni stretti nell’ultima contrazione vitale.

    Appoggiò la testa in un asciugamano di servizio, strofinò con vigore.

    «Stan, la riunione è iniziata».

    La stanza delle riunioni era intrisa di un odore particolare, quasi di fatica mischiato al tabacco.

    Lester Celati, il Comandate Esecutivo della Sezione Speciale Antiterrorismo, parlava con alcuni membri del Congresso. Aveva i pochi capelli arruffati in testa, attaccati dal sudore come se fosse colla.

    Le pieghe del collo grasso erano umide di sudore e la camicia era fuori dai pantaloni e appariva nei bordi unta di grasso. Stan corrucciò le sopracciglia. Gli sembrò che Lester si fosse lanciato un panino colmo di salsa sul petto. Era irriconoscibile.

    Ma probabilmente lo erano tutti loro.

    Faceva caldo nella sala riunioni. Lester continuò a parlare con i membri del Congresso, ma più di una volta mandò dei segni affermativi ad un tecnico che cominciò a manovrare con il condizionatore.

    Priscilla Lee si sventolò con la mano. Era la sua partner nella maggior parte delle missioni che aveva avuto negli ultimi dieci anni.

    Il sole era immobile nel cielo.

    Lester Celati si passò il fazzoletto di stoffa sulla fronte. Le grasse dita segnarono un arco sulla fronte, le unghie sporche. Fece alcuni cenni con la testa ai Membri del Congresso, come uno scolaretto che era stato sorpreso a rubare. Poi questi se ne andarono.

    Lester si appoggiò alla scrivania e con le mani strinse i bordi del tavolo, quasi a temere da un momento all’altro che le sue parole, dette a voce alta, provocassero un terremoto.

    «Abbiamo appena individuato il motivo dell’esplosione. È stato trovato un ordigno in uno zainetto di un passeggero della ruotavia. Abbiamo le riprese delle telecamere installate nella piazza, e in particolare una telecamera che è rimasta integra dentro la ruotavia, mostra chiaramente che lo zaino conteneva l’ordigno e che poco dopo le sei è scoppiato. Inoltre gli artificieri della sezione ordigni hanno rilevato un ordigno fatto ad arte. Non è l’opera di uno sprovveduto, ma di una persona che ci sapeva fare, e aveva un chiaro intento di combinare un bel casino. E qui il motivo per il quale ho convocato la sezione Antiterrorismo».

    Lester si grattò il mento, intrecciò le mani sulla pancia e continuò: «E ora veniamo al punto centrale, in base alle analisi del DNA e al sistema di tracciamento del Plant, abbiamo rilevato che lo zainetto apparteneva a Leisly Bott, una quindicenne del Quinto livello» prese fiato, la pancia tesa sussultò. «Voglio che indaghiate su questa ragazza. Voglio sapere tutto su di lei».

    4.

    Scostò la tenda. La strada era deserta e avvolta nel buio. Rimase a controllare un altro po’, mordicchiandosi un’unghia. Il Plant appariva immobile, in attesa.

    Si sentiva inquieta e aveva fatto di tutto per non farlo notare ai genitori.

    Lanciò uno sguardo al suo zaino e poi lo prese per bretella controllando ancora una volta che ci fosse tutto. Contò a mente tutti gli strumenti di cui aveva bisogno e che aveva comprato i giorni passati: c’era tutto.

    «Leisly che fai?». Il bambino indugiava sulla porta della cameretta della sorella, con i pugni chiusi davanti agli occhi, per nascondersi dalla luce accesa della lampada.

    «Niente Archie, vai a letto» e si diresse verso di lui.

    «Ma è buio. Perché sei già vestita?» e sbadigliò prendendo la mano della sorella.

    Leisly lo riaccompagnò verso alla sua stanza e parlò piano «Perché devo fare gli esercizi per i polmoni, ricordi?».

    Il bambino fece sì con la testa e si infilò nel letto. Leisly gli sistemò le coperte e si avvicinò all’altro fratellino. Sorrise. Le luci delle stelle fluorescenti appese al soffitto brillavano sui loro volti. Erano dei piccoli astronauti addormentati. Con calma chiuse la porta della stanza.

    Passò davanti alla stanza dei genitori, si fermò per qualche secondo, indugiò. Sentì, per la prima volta da tanto tempo, di non provare più rabbia.

    Ma poi ci ripensò e nel petto le crebbe l’agitazione. Lasciò la casa ancora avvolta nel sonno, attenta e sempre pronta a difendersi.

    5.

    LEISLY BOTT: LA RAGAZZAKILLER

    «Leisly Bott è il nome identificato dagli investigatori. La ragazza, morta nell’attentato e proprietaria dello zainetto che conteneva il terribile ordigno, ha portato alla morte di quaranta persone innocenti. Sono numerose le videoriprese che la riprendono nei momenti immediatamente precedenti all’esplosione mostrandone una straordinaria calma».

    La giornalista televisiva fece una pausa studiata di cordoglio, con lo sguardo fisso verso la telecamera. «Ma cosa sappiamo di questa giovane ragazza?».

    Partì automaticamente il secondo servizio:

    «Ma è evidente che nell’Asterion il malcontento cresce: siamo quarantamila, i giovani hanno bisogno di maggiori spazi culturali. Hanno bisogno di una maggiore comprensione, di qualcuno che li stimoli. Ma li avete visti i dati recenti? Tra epidemie e suicidi dalla Piazza degli Innamorati il numero della popolazione si sta abbassando vorticosamente. È chiaro che siamo di fronte ad un fenomeno che ha una portata molto più ampia di quello che vogliamo vedere. È il male di vivere signori» disse una donna con gli occhiali e una lunga criniera di treccine.

    «Baggianate» intervenne un altro sulla quarantina «E noi come vivevamo? Siamo tutti cresciuti qui. E c’era anche chi non è nato al quinto livello. È proprio questa permissività che consente ai giovani una facile dismissione di responsabilità. Gli facciamo credere che sono meglio degli altri, e che tutto è possibile. Poi non raggiungono un risultato e che fanno? Si suicidano e portano con sé quaranta persone. Questa è follia, diamoci delle regole».

    Pascal oscillava appesa ad un gancio nella ruotavia che l’avrebbe portata al lavoro.

    La testa bionda di Leisly Bott sorrideva alla telecamera. I capelli le arrivavano alle spalle e gli occhi erano azzurri e limpidi.

    Cosa le poteva essere passato per la testa?

    Il braccio della donna che la stringeva e le indicava il luogo dell’esplosione.

    «Lì c’era mio figlio».

    E Pascal aveva guardato le fiamme. Le lingue di fuoco si erano allungate fino ai piani più alti dei palazzi.

    «Lì c’era mio figlio». La mano stretta sul suo braccio.

    Che poteva fare?

    Suonò l’allarme.

    La ruotavia si fermò. Partì un fischio continuo. Le porte di bloccarono.

    «Attenzione! Passeranno tra i passeggeri le guardie speciali per controllare le vostre borse. I controlli verranno fatti su tutte le persone a prescindere dall’età».

    Le luci della ruotavia divennero più fioche. Entrò un plotone di guardie con le mascherine e le armi puntate sui passeggeri.

    Che esagerazione, pensò Pascal.

    Un agente si avvicinò a Pascal e le fece il gesto di allargare la cartella per controllarne il contenuto. «Mostri i documenti d’identità».

    Pascal mostrò il braccialetto. L’agente lo passò sotto la macchina identificativa.

    «Avvocato Schmitt. Ha una notifica del Congresso. Deve rispondere» disse l’agente dai piccoli occhi nascosti dalla mascherina. Pascal guardò l’orologio.

    Era vero.

    Era stata convocata al Commissariato.

    L’aria puzzava ed era umida. Li stavano lasciando senza ossigeno per renderli più mansueti ed evitare che si lamentassero durante i controlli.

    Le girava la testa. Si resse ad una maniglia.

    «Deve scendere e recarsi immediatamente presso il Commissariato»

    Pascal annuì.

    Sentiva che la voce dell’agente a poco a poco si allontanava e le gambe si facevano più pesanti.

    6.

    Il Commissariato era gremito di persone. Alcune di queste erano sedute in piccoli gruppi e avevano sulle spalle le coperte grigie con i cerchi blu e gialli del distretto di polizia.

    Per lo più erano anziani e fissavano storditi un punto nel vuoto, tenendo strette tra le mani una tazza di tisana che a Pascal sembrò ormai fredda.

    Da quanto quelle persone erano lì? Da quando Pascal si era alzata dal suo letto l’esplosione le era apparsa come un evento lontanissimo. E invece per molti in fondo erano passate solo otto ore.

    Individuò dei poliziotti in lontananza che compilavano dei questionari con le risposte che le persone gli fornivano.

    Erano i testimoni oculari. Pascal ne aveva visti tanti in vita sua. Probabilmente avrebbero sentito anche lei quel pomeriggio.

    Ma lei non avrebbe risposto quasi a niente. L’ultimo ricordo che aveva era la mano nodosa dell’anziana donna che le stringeva il braccio e le indicava il posto dove si trovava il figlio.

    Poi non ricordava più niente.

    La fecero accomodare in una piccola stanzetta calda e disordinata, costruita con delle lastre trasparenti e sporche, che la dividevano da altre stanze identiche, in cui stavano avvenendo ulteriori interrogatori.

    «Favorisca i documenti» disse un agente annoiato.

    Li mostrò.

    «Avvocato, è stata chiamata al Congresso circa tre ore fa. Come mai viene solo ora?» con lo sguardo a inquadrare i lineamenti di Pascal.

    «Ero… ero sotto shock… mi sono ripresa solo adesso», era incerta su ciò che doveva dire.

    «Ha un certificato medico?», la voce si era leggermente addolcita.

    «No. Sono tornata a casa. Non sono passata in ospedale».

    «Non si è fatta controllare? Potrebbe aver riportato delle ferite. Come è tornata a casa?».

    «Non lo so…»

    Pensò al vuoto di memoria e alle braccia livide.

    Si concentrò sull’esterno della saletta e mise a fuoco la figura del fratello che con la mano sollevata cercava di salutarla da dietro le lastre di plastica. Aveva la camicia bianca fuori dai pantaloni e le occhiaie scure che gli davano un’aria più tetra. I capelli erano legati in un codino basso. Entrò nella piccola stanza degli interrogatori:

    «Pascal»

    Sentì la voce calda del fratello.

    «Stan» e si alzò dalla sedia.

    Il cuore le si dilatò nel petto.

    «Può andare mia sorella, Rick?» chiese Stan rivolto al poliziotto che le stava facendo le domande. Rick fece di sì con la mano «Falla passare più completare le ultime domande del verbale» e guardò già la nuova ragazza che entrava con il braccio ingessato.

    Stan prese per mano Pascal e la portò lontano dalle stanze degli interrogatori. La guardò fissa negli occhi, poi le toccò le spalle e le braccia quasi a voler assicurarsi della solidità della sorella.

    Pascal abbracciò il fratello e gli sorrise. Il primo sorriso della giornata.

    «Mi sono spaventato quando ti ho visto sdraiata sul marciapiede senza coscienza. Ho avuto paura Pascal» e il fratello l’abbracciò ancora una volta.

    Pascal chiuse gli occhi e delle lacrime rimasero impigliate agli angoli.

    Il fratello le raccolse il viso tra le mani e le disse: «Ti abbiamo convocato perché sei una testimone oculare dell’esplosione e poi perché sono stati ritrovati tanti oggetti. Devi vedere se c’è qualcosa che ti appartiene».

    «Ma io non mi ricordo niente dell’esplosione…c’era una signora che mi parlava del figlio e poi… poi il buio…».

    «E allora, Pascal, racconterai del buio».

    7.

    La pedana in movimento mostrava delle sciarpe scurite dall’esplosione, una scarpa rossa con il tacco rotto, una scarpa da ginnastica, un paio di zaini bruciati, un orologio elettronico, un tablet, alcuni cappotti, un paio di occhiali rigati.

    Pascal guardò con educazione gli oggetti scorrerle davanti e ogni tanto scuoteva la testa. Sapeva che nessun oggetto era il suo, perché di fatto non aveva perso nulla.

    Ogni oggetto portava un’etichetta.

    «Pascal! Anche tu? Che tragedia incredibile! Sono sconvolta!».

    Era Sahara Morgan, una sua collega. Avevano studiato insieme durante gli anni dell’università.

    «Ehi ciao Sahara. Sì, è una cosa… una cosa…» le parole non le uscivano dalla bocca.

    «Una tragedia. Non ci sono altre parole. Mi mette così tanta tristezza vedere tutti questi oggetti smarriti. Chissà che fine hanno fatto i loro proprietari».

    Pascal sospirò appena.

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