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È felice Sisifo? Farneticazioni filosofiche nel crepuscolo
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È felice Sisifo? Farneticazioni filosofiche nel crepuscolo
E-book248 pagine3 ore

È felice Sisifo? Farneticazioni filosofiche nel crepuscolo

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Info su questo ebook

Il saggio sviluppa un discorso filosofico intorno alla condizione di incertezza in cui l’uomo si dibatte, affrontando alcune delle questioni fondamentali, sulle quali la filosofia si è sempre interrogata.

Attraverso moltissimi riferimenti ai pensatori, che nel tempo su questi temi hanno riflettuto, vengono messi a confronto i vari orientamenti.

Il nostro progredire nella conoscenza appare come la fatica di Sisifo, di cui non si intravvede la fine e che quindi sembra essere senza senso.

Un senso tuttavia lo si può scorgere: ce lo suggerisce Camus, il quale, nel suo Il mito di Sisifo, coglie Sisifo nel momento in cui ridiscende dopo essere giunto sulla cima del monte e scorge in lui una fugace soddisfazione per la, pur effimera, meta raggiunta.

Anche l’uomo, nel percorrere la via della conoscenza, può aspirare solo a risultati parziali, spesso precari, ma con essi egli può dare un senso alla sua ricerca, perché, come dice Camus, «anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo».
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2016
ISBN9788892633674
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    Anteprima del libro

    È felice Sisifo? Farneticazioni filosofiche nel crepuscolo - Remo Mantovanelli

    Indice

    Premessa

    1. Incertezza

    2. Scetticismo

    3. Dogmatismo

    4. Scienza

    5. Fede

    6. Male

    7. Morale

    8. Giustizia

    9. Libertà, volontà

    10. Caso, destino

    11. Conoscenza

    12. Verità

    13. Interpretazione

    14. Inesperienza

    15. Imbecillità

    Conclusione

    Appendice

    Bibliografia

    Remo Mantovanelli

    È felice Sisifo?

    Farneticazioni filosofiche nel crepuscolo

    Sapere aude

    ISBN | 9788892633674

    Prima edizione digitale: 2016

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di

    scambio, commercio, prestito e rivendita e

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    dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata

    civilmente e penalmente secondo quanto

    previsto dalla legge 633/1941.

    Aufklärung ist der Ausgang des Menschen aus seiner selbst verschuldeten Unmündigkeit. Unmündigkeit ist das Unvermögen, sich seines Verstandes ohne Leitung eines anderen zu bedienen. Selbstverschuldet ist diese Unmündigkeit, wenn die Ursache derselben nicht am Mangel des Verstandes, sondern der Entschließung und des Mutes liegt, sich seiner ohne Leitung eines anderen zu bedienen. Sapere aude! Habe Mut dich deines eigenen Verstandes zu bedienen! ist also der Wahlspruch der Aufklärung.

    (Immanuel Kant: Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?)

    Illuminismo (Aufklärung) è la liberazione dell'uomo dallo stato volontario di minorità intellettuale. Dico minorità intellettuale, l'incapacità di servirsi dell'intelletto senza la guida d'un altro. Volontaria è questa minorità quando la causa non sta nella mancanza d’intelletto, ma nella mancanza di decisione e di coraggio nel farne uso senza la guida di altri. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto! Questo è il motto dell’illuminismo. (Immanuel Kant: Risposta alla domanda: Che cos' è l’illuminismo?, trad.it. Piero Martinetti)

    Premessa

    Un uomo si sveglia improvvisamente di notte su un treno in corsa.

    Non sa da dove venga né dove vada; non sa nemmeno dove e quando dovrà scendere.

    Fuori è buio pesto, dai finestrini non si vede alcuna luce: i luoghi circostanti sono assolutamente sconosciuti.

    Non c’è nessun controllore a cui chiedere informazioni; impossibile sapere chi sia il macchinista: l’accesso alla locomotiva è interdetto.

    L’uomo può muoversi solo nell’ambito del vagone su cui si trova.

    Egli cerca di decifrare la situazione, ma dispone di pochissimi elementi.

    Nella sua mente si affollano le domande, ma quasi tutte rimangono senza risposta.

    I pochi altri passeggeri, smarriti quanto lui, non gli sono di molto aiuto.

    Cosa può fare a questo punto?

    Non gli resta che affidarsi alla ragione e cercare qualche spiegazione, che però, lo sa fin dall’inizio, lo lascerà sempre insoddisfatto.

    Questa è la metafora (proposta non ricordo da chi) della condizione umana.

    Come quel passeggero non cessiamo di porci domande.

    Certo, ci sono anche passeggeri, che dopo essersi svegliati, ancora assonnati, si mettono più comodi e cercano di riaddormentarsi.

    Noi no, come quell’uomo, vogliamo stare ben svegli e cercare di capire qualcosa.

    Cap. 1 Incertezza

    Assioma di partenza: l’unica cosa certa è che nulla è certo.

    E subito partiamo male.

    Eh già, perché questa è una proposizione che dal punto di vista logico è decisamente malata.

    Come nel ben noto paradosso del mentitore; supponiamo che io dica: sto mentendo.

    Se mento veramente, allora affermo una cosa vera; ma a questo punto mento o non mento?

    Si rimane prigionieri di una circolarità perversa senza via di scampo, appunto come nell’affermazione dalla quale sono partito.

    Allora ricominciamo e rivediamo il postulato iniziale.

    Diciamo dunque: nulla è certo.

    Va già meglio, anche se in tal modo accetto l’idea che pure questa affermazione sia incerta.

    Non c’è scampo all’incertezza.

    Navighiamo "in gurgite vasto" a vista, senza strumentazione: dobbiamo fidarci dei nostri poveri sensi.

    Ma i sensi quanto della realtà ci raccontano?

    Beh, fanno quello che possono; sono le nostre uniche porte della percezione (e qui mi corre l’obbligo di salutare Aldous Huxley e Jim Morrison), sono il nostro collegamento con l’esterno.

    Teniamoceli stretti, anche se non dobbiamo prendere per oro colato tutto quello che ci dicono.

    In ogni caso c’è pur sempre, dentro di noi, o almeno dovrebbe esserci, una vigile scolta che, come Minosse, esamina i messaggi all’entrata, li valuta, li interpreta.

    Li interpreta: ecco la parola chiave!

    Esiste una realtà oggettiva che si dà in toto alla nostra coscienza?

    Macché!

    Noi interpretiamo le sensazioni e diamo significato a quella che chiamiamo realtà e che invece è solo una personale rappresentazione del mondo.

    I miei occhi non vedono esattamente quello che vedono i vostri.

    Con buona pace dei positivisti, gli idolatri del fatto, che l’ inesorabile Nietzsche liquidò, affermando: «non esistono fatti, ma solo interpretazioni»¹.

    Donde la domanda cruciale: Quid est veritas?, che già Ponzio Pilato² pose, non ottenendo peraltro risposta (o non lasciando il tempo a Gesù di rispondere? Il Vangelo dice infatti: «e detto questo uscì di nuovo»).

    Già, la verità; ci torneremo.

    Dunque tutto ciò che ci circonda è vago, di difficile definizione, magari un’illusione, come sosteneva Berkeley.

    Dove cercare allora qualche punto fermo, qualche appiglio a cui aggrapparsi?

    Dentro di noi, forse?

    Cartesio con il cogito credette di aver individuato, una volta per tutte, questo punto fermo al di là di ogni dubbio.

    Una volta per tutte! Ogniqualvolta l’uomo crede di essere giunto alla meta, solo per poco assapora compiaciuto l’ebbrezza della vetta, perché in breve si rende conto di dovere, come Sisifo, tornare indietro e ricominciare daccapo.

    Pur tuttavia durante l’età moderna ci si è cullati con l’idea che l’io fosse evidente di per se stesso, con l’idea cioè dell’ autotrasparenza dell’io a se stesso.

    Ci si ingannava.

    Sappiamo ormai che dentro di noi si agitano forze che sfuggono al nostro controllo, «un groviglio di serpi selvagge [Ein Knäuel wilder Schlangen³, come disse l’impagabile Fritz.

    Fu del resto proprio lui a parlare di "quel piccolo esso [Es] nel quale si è volatilizzato l’onesto vecchio io"⁴.

    E allora? Che senso ha continuare ad interrogarsi, ad inseguire chimere di conoscenza che probabilmente rimangono irraggiungibili, come l’orizzonte verso il quale si cammina e che resta sempre distante?

    La fatica inutile di Sisifo.

    Inutile?

    Non è detto. Forse ha ragione Camus quando dice: «Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice»⁵.

    Cap. 2 Scetticismo

    Sono dunque uno scettico?

    Ebbene sì, ma intendiamoci bene sul termine.

    Mica quello che il mondo rese glacial, che si atteggia a cinico sprezzatore del mondo, quello che niente mi può sorprendere.

    Per carità!

    Lo scettico è colui che pratica la scepsi (dal gr. Σκέψις, skepsis) ovvero, e qui ci soccorre la Treccani, "l’esercizio dello σκέπτεσθαι, del controllo critico circa gli oggetti del sapere".

    In sostanza é uno a cui le spiegazioni preconfezionate stanno bene solo se lo convincono.

    Cerca l’evidenza; se non la ottiene preferisce sospendere il giudizio, in attesa di, se mai verranno, chiarimenti definitivi. Già, la sospensione del giudizio, l’epoché (έποχή) degli antichi.

    Per alcuni un atto di viltà, la rinuncia a decidere, a prendere posizione.

    Pascal sicuramente l’avrebbe pensata così: la sua fede bruciante non ammetteva mezze misure.

    Per lui la scelta di campo è ineludibile, nessuno può sottrarvisi; anzi la neutralità, egli dice, è di per se stessa un atteggiamento da scettico⁶.

    Invece ognuno è obbligato a scommettere.

    E’ il tema famoso della scommessa, provocatorio ed estremizzante.

    Pascal del resto, per i suoi studi sul calcolo delle probabilità, bazzicava con la roulette, che in francese vuol dire pure cicloide, curva affascinante anch’essa oggetto del suo interesse di matematico.

    Ma viene da chiedersi: è veramente possibile sospendere completamente il giudizio?

    Cioè porsi, davanti ad una questione, in modo assolutamente distaccato?

    Sembrerebbe di no, visto che, di fronte ad un dilemma, pare proprio che dentro di noi si formi sempre e comunque, secondo un processo di cui ci sfugge il controllo, una propensione verso un corno (del dilemma, naturalmente…) piuttosto che verso l’altro.

    Un moto spontaneo, diremmo, a livello istintivo o, meglio, intuitivo.

    Solo in un secondo tempo l’arcigna ragione viene a dire la sua su quella scelta ed eventualmente a bocciarla.

    Ma quella propensione come si genera?

    Quanto di razionale c’è nell’atto di volizione?

    Anche su questo dovremo tornare.

    In ogni caso risulta chiaro che chiamarsi fuori non è facile; pare proprio che un certo grado di coinvolgimento sia inevitabile.

    Lo scettico sa fare i conti anche con questo; si muove nell’incertezza, e lo sa.

    Per questo non cessa di interrogarsi.

    Non ha certezze adamantine da difendere, perciò non teme di trovare risposte sovversive.

    Se la risposta trovata è migliore, più convincente delle precedenti, perché non accettarla?

    Interrogarsi vuol dire anche mettere in discussione, dubitare.

    Senza il dubbio non si sente il bisogno di porsi domande, di approfondire.

    Il dubbio come motore della ricerca, come strumento di crescita.

    Praticare o meno il dubbio costituisce il discrimine tra scettici, nel senso suddetto, e dogmatici.

    Due modi diversi di porsi davanti al mondo, di vedere il mondo.

    È la contrapposizione tra relativo ed assoluto.

    Cap. 3 Dogmatismo

    Il dogmatico possiede certezze.

    Arrivato alla vetta della certezza, egli ha piantato la bandiera vittoriosa della sua convinzione.

    La scalata è finita: non plus ultra.

    Dall’alto guarda compiaciuto chi sta ancora arrancando nella salita.

    È dogmatico sia chi crede con certezza che una cosa sia vera sia chi crede con certezza che una cosa non sia vera.

    È l’assoluta certezza che fa di lui un dogmatico.

    Egli non dubita, vede con chiarezza, sì o no, bianco o nero.

    Come non invidiarlo? Come tutto è più semplice per lui!

    La convinzione da lui conseguita lo pone al riparo dalle esitazioni e fa sì che egli si muova con sicurezza; nessuna obiezione, per quanto ben costruita possa essere, potrà mai scalfirla.

    Al contrario lo scettico, il dubbioso, si muove a passi incerti. Davanti a lui la strada è piena di bivi, senza segnalazioni; egli sa che il rischio di trovarsi in un cul de sac è sempre presente.

    Di quella strada egli non vede mai la fine; egli è sempre in cammino.

    Diversamente dal dogmatico, il quale ha raggiunto la fine della sua strada e sente di essere pervenuto alla meta.

    Ma… se egli si trovasse, invece, solo su un binario morto e non se ne rendesse conto?

    In tal caso avrebbe interrotto il suo cammino prematuramente, precludendosi la possibilità di andare oltre.

    Un atteggiamento ingenuo, se non miope, dunque.

    Come lascia intendere Nietzsche, il quale ritiene che «in filosofia ogni dogmatizzare» sia «soltanto una nobile fanciullaggine e una cosa da principianti»⁷.

    Cap. 4 Scienza

    C’é il dogmatismo della scienza …

    Il fisico Michelson, verso la fine dell’ 800, affermò sostanzialmente che ormai nella fisica rimaneva ben poco da scoprire.

    I successivi trent’anni lo smentirono clamorosamente.

    Egli stesso del resto contribuì a rimettere tutto in discussione: il suo esperimento volto a dimostrare l’esistenza dell’etere, infatti, dimostrò l’esatto contrario.

    Questo dovrebbe aver insegnato la cautela ed invece non è così.

    Quante volte sentiamo dire: con assoluta certezza possiamo affermare…?

    È appunto il dogmatismo della scienza.

    Sento già l’obiezione: la scienza può permetterselo, perché è fondata sull’esperimento, quindi su riscontri incontrovertibili.

    Vero, ma la cosa non è così semplice.

    Con le teorie di Newton si era creduto che fossero state fissate in modo definitivo le leggi che regolano i moti dell’universo.

    Le rilevazioni sperimentali del resto lo confermavano.

    Laplace era convinto che, conoscendo tutti i dati di partenza, sarebbe stato possibile calcolare gli stati futuri dell’universo. Egli vedeva, quindi, un avvenire deterministicamente calcolabile.

    Poi si constatò che l’ammirevole castello delle teorie newtoniane non reggeva nel dar conto di situazioni in cui fossero in gioco velocità altissime, prossime a quelle della luce.

    Einstein le spiegò mirabilmente con la teoria della relatività. Anche in questo caso i riscontri sperimentali confermarono le teorie.

    Ma nell’estremamente piccolo, a livello subatomico, si dovette ricorrere ad un’altra teoria, la meccanica quantistica.

    Essa presenta aspetti talmente paradossali, che Einstein ne prese le distanze; Dio non gioca ai dadi, disse.

    Eppure anche queste teorie erano suffragate da riscontri sperimentali.

    Dunque l’esperimento che confermava una teoria, cambiando l’ambito di osservazione, la scala di grandezza dell’osservazione, veniva di volta in volta smentito.

    Allora l’esperimento, il riscontro fattuale, lungi dal produrre un risultato definitivo, sembra a questo punto avere solo un valore relativo o quantomeno parziale.

    Aveva dunque ragione Kant quando affermava: la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno […] e deve costringere la natura a rispondere alle sue domande, senza lasciarsi guidare da essa sola⁸?

    Kant, si sa, aveva operato un rovesciamento epocale: la natura non ha in sé leggi da andare a scoprire, ma è l’uomo che assegna le leggi alla natura.

    Un cambiamento di prospettiva audacissimo, che egli stesso paragonò alla rivoluzione operata da Copernico, il quale con la sua nuova visione dell’universo aveva prodotto effetti dirompenti.

    Questo ovviamente non toglie nulla all’importanza dell’esperimento, che rimane lo strumento insostituibile per verificare se la ricerca sta seguendo la rotta giusta.

    Un eventuale suo esito negativo porta a modificare la teoria: si tratta di un processo ricorsivo.

    Nella conoscenza si procede dunque per successive approssimazioni; le leggi che l’uomo assegna alla natura, per dirla con Kant, si affinano sulla base dell’esperienza.

    Ma la domanda che qui ci poniamo è appunto: potrà mai avere fine questo processo?

    In altre parole, potremo mai arrivare alla certezza definitiva?

    E rieccoci al punto di partenza.

    Prima la meccanica quantistica e poi la recente teoria del caos, che tratta sistemi dinamici non lineari caratterizzati da imprevedibilità, hanno definitivamente mandato in frantumi ogni ottimismo deterministico.

    Gödel, dimostrando che l’aritmetica è incompleta, gettò lo scompiglio anche nella matematica, in quel mondo, cioè, che orgogliosamente si vanta di poggiare su solide certezze.

    La deducibilità delle verità aritmetiche rivelava, infatti, una intrinseca fragilità, perché lasciava spazio a proposizioni formalmente indecidibili [formal unentscheidbare Sätze].

    Mano a mano che si progredisce nella conoscenza, si scopre una realtà sempre più complessa.

    Spesso una nuova scoperta apre scenari inaspettati; la sensazione che quello che rimane da scoprire aumenti anziché diminuire diventa sempre più consistente.

    A che titolo, dunque, la scienza può parlare di certezza?

    Anche l’evidenza di conoscenze assodate può essere messa in discussione; l’ha dimostrato Marconi.

    Le onde elettromagnetiche, dicevano gli scienziati, non possono superare la curvatura terrestre.

    Marconi non li ascoltò ed ebbe ragione.

    Gli scienziati si sbagliavano? No, ma non avevano tenuto conto della ionosfera, che fa rimbalzare sulla terra le onde.

    Un elemento non considerato.

    Quando ci impadroniamo di una certezza, siamo sicuri di aver tenuto conto di tutte le variabili in gioco?

    Ma prima ancora, siamo sicuri di conoscere tutte le variabili in gioco?

    Non dimentichiamo, infine, che già Hume, nel ‘700 aveva messo in discussione il principio base della scienza: il principio di causalità, che stabilisce un nesso di consequenzialità tra causa ed effetto.

    Noi diciamo che ad un certo evento segue un altro ben preciso, perché da sempre abbiamo constatato che è così. Però, e qui sta il bello, questo non ci autorizza ad avere la certezza assoluta che sempre sarà così.

    Appunto.

    Cap. 5 Fede

    … e c’è il dogmatismo della religione.

    Restiamo nell’ambito del Cristianesimo, la religione che dovremmo conoscere.

    Già, dovremmo, ma è veramente così?

    Quanti, che si proclamano Cristiani, hanno chiari i principi base della religione alla quale dicono di appartenere?

    Quante cose invece si conoscono in modo approssimativo?

    Qual è il significato della Pentecoste? Della Cresima?

    Qual è il significato di indulgenza? Sono chiari i concetti di pena e peccato?

    Cosa vuol dire Immacolata concezione?

    Cosa vuol dire transustanziazione?

    Se si fanno queste domande, si ottengono le risposte più disparate e spesso sorprendenti.

    Nella stragrande maggioranza dei casi la reale conoscenza è del tutto superficiale e sconfina nell’ignoranza.

    E la pratica è

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