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Immagini parassita e fashion communication tra etica e creatività
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E-book251 pagine3 ore

Immagini parassita e fashion communication tra etica e creatività

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Il volume esplora un importante nodo gordiano della cultura visuale contemporanea: il rapporto tra la fashion communication e le cosiddette “immagini parassita”, ossia le immagini che, per la loro piacevolezza visiva, bypassano il senso critico di chi le osserva. Nella prima parte del libro ci si sofferma sulle questioni connesse alla creazione e alla diffusione delle immagini parassita nell’ambito della moda e alla riflessione filosofica che ne può scaturire alla luce della visual ethics. Nella seconda parte ci si concentra sul campo d’indagine della ricerca universitaria effettuata presso l’Istituto Universitario Salesiano Venezia-Verona (IUSVE) da metà 2019 a tutto il 2020, dedicata alle immagini parassita nella fashion communication, restituendone milieu culturale e sociale, progettazione e metodologia. Le conclusioni confermano che, più gli osservatori negano di aver interiorizzato delle immagini parassita, più ne sono carichi, perché ciò che manca loro è un pensiero critico che si trasformi in un atto di visione consapevole.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2021
ISBN9788892953963
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    Anteprima del libro

    Immagini parassita e fashion communication tra etica e creatività - Paolo Schianchi

    Creare immagini, riflettere sulle immagini

    prima parte

    Capitolo 1

    Immagini parassita, creatività e visual marketing

    di Paolo Schianchi

    1.1. Introduzione. Immaginario e immagine parassita

    Tra il 1930 e il 1933 Christopher Isherwood (1904-1986), durante il suo soggiorno berlinese, scrisse il romanzo semi-autobiografico Addio a Berlino. In apertura del primo capitolo, intitolato Un diario berlinese (autunno 1930), riporta: «sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa. Registro l’uomo che si fa la barba alla finestra dirimpetto e la donna in kimono che si lava i capelli. Un giorno tutto questo andrà sviluppato, stampato con cura, fissato» (Isherwood 1939, p. 13).

    Siamo in pieno declino della Repubblica di Weimar, un tempo che a quasi cent’anni di distanza appare lontano. Eppure, in questa frase si può rintracciare quanto oggi ci lega al concetto di immaginario e al suo rapporto con le immagini parassita¹.

    Si faccia un balzo temporale per arrivare al 1972, quando Liza Minnelli fu la protagonista di Cabaret. Un film con la regia di Bob Fosse, vincitore di molti premi, fra cui otto Oscar, ispirato dal citato libro di Christopher Isherwood che, a sua volta, era già stato fonte del testo teatrale I’m a Camera di John William Van Druten. Ed è così che le atmosfere della Repubblica di Weimar dalle parole del romanziere americano si sono trasformate in immagini, per poi giungere a noi in una piacevolezza visiva in grado di toccare pure le nuove piattaforme televisive. Si pensi per esempio alla miniserie Babylon Berlin che pur non essendo ispirata o tratta dal lavoro di Christopher Isherwood, ma dai libri di Volker Kutscher, riporta quelle stesse atmosfere in cui il piacere è tutto nell’osservare e lasciarsi osservare per immaginare.

    In tanto fluire di raffigurazioni, si torni a quanto scritto in apertura di Addio a Berlino, dove l’autore si definisce: «una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa» (ibidem). In definitiva, parole che anticipano il contemporaneo rapporto con le immagini: le guardiamo, le lasciamo entrare in noi, senza pensare, passivi e ignari di quanto modifichino la percezione di un momento storico, di uno stile, di un linguaggio, di un’idea ecc. Allora, da quel lontano 1930 non è tanto cambiato il contenuto, ma due aspetti culturali. Prima di tutto il fatto che siamo traghettati definitivamente nella cultura visuale², in cui le immagini hanno sostituito, almeno in diversi campi della comunicazione, le parole. In seconda battuta quell’atteggiamento passivo, anticipato da Christopher Isherwood, è divenuto l’origine di quegli immaginari che hanno impregnato di immagini parassita ognuno di noi, in particolare dopo la diffusione dei new media.

    Per comprendere meglio, si passi alla seconda parte della frase: «registro l’uomo che si fa la barba alla finestra dirimpetto e la donna in kimono che si lava i capelli» (ibidem). Ovvero immagini in forma di parole.

    A chi, leggendole, non viene in mente un uomo, probabilmente in canottiera, con le bretelle e i calzoni a vita alta, illuminato dalla luce del mattino mentre si rifrange nello specchio appeso alla maniglia della finestra? Virilmente compie un gesto quotidiano, avvolto da colori vibranti e sfumati, anche se il bianco lucente domina su tutto. A ben pensarci, descritto in questo modo, quanto differisce da un hipster immortalato in una pubblicità? Oppure da un servizio apparso su di una rivista di moda maschile? Probabilmente nessuna.

    Ora si passi a lei, qui i colori si fanno pastellati, dove l’assenza di ombre e le tonalità medio alte danno all’immagine un senso di sogno. Ovviamente il kimono, pur rimandando all’epoca in cui è stata scritta la frase, visivamente si contamina della contemporaneità. La stessa in cui aleggiano le ormai sue infinite versioni, monocrome, stampate o ricamate. Un capo d’abbigliamento che allude alla sensualità domestica, mai sfacciata, in un certo senso quasi colta. Ma si torni al gesto, altrettanto sensuale, che compie: si lava i capelli. Questi inevitabilmente li si immagina lunghi e fluenti. Pure in questo caso quanto differisce da un video promozionale o uno scatto postato su Instagram? Ci si può solo ripetere: probabilmente nessuna. Al limite in piccoli dettagli, quelli in grado di renderla più o meno intellettuale³. In verità, però, questi ultimi dipendono solamente dal nostro vissuto, dalle immagini che nel corso della vita si sono incontrate.

    Quanto appena riportato è un esempio di come funziona il rapporto tra immaginario e immagini parassita, il cui catalizzatore si trova nella piacevolezza visiva propria di queste ultime, in quanto capaci di scatenare un ricordo in chi guarda. Attenzione però, quest’ultimo non è il frutto di una fantasia individuale, ma di un insieme di immaginari giunti alla nostra epoca, quella ormai votata alla pura visione. Un processo che funziona come una clessidra, in cui l’uno alimenta l’altro, facendo scendere l’arena dal contenitore dell’immagine parassita in quello dell’immaginario, per poi essere subito capovolta, ribaltandone la provenienza. Un fluire della sabbia, insomma, che scandisce un tempo non lineare, perché racchiuso nel continuo scorrere dall’immaginario all’immagine parassita e viceversa.

    Non a caso Christopher Isherwood conclude la frase, che ha dato spunto a questa riflessione, con: «un giorno tutto questo andrà sviluppato, stampato con cura, fissato» (ibidem).

    E oggi come possiamo farlo, dato che tutto è diventato immateriale come un file e senza tempo come la rete? Nella nostra memoria, perché è proprio l’uomo il primo medium in cui le immagini accadono⁴.

    In effetti in ogni lettore, le stesse parole dello scrittore americano, nel giorno stesso in cui le legge, sviluppano, stampano e fissano delle raffigurazioni. Così come le immagini, mentre si sfoglia una rivista o si fruisce di una pagina web, vengono sviluppate, stampate e fissate in chi le guarda. A ben vedere quindi è nel pensiero che immagine parassita e immaginario lavorano per far apparire quanto si vede piacevole e di gusto, al di là del senso critico di ogni osservatore.

    Per comprendere meglio, si riporti la mente all’uomo e alla donna che appaiono in apertura di Addio a Berlino: come appurato, è facile farli slittare nella contemporaneità, al preciso scopo di modificare la percezione estetica di un determinato tipo di pubblico. Ed è in un tale cambiamento che si trova il principio base di ogni immagine parassita, in particolare da quando l’immaginario da cui deriva, o dà origine, è stato contaminato dai media visivi contemporanei. Allora, se si chiede a qualcuno di raccontare un’immagine raffigurante il divertente disagio artistico di inizio anni Trenta del Novecento, probabilmente la maggior parte degli intervistati non si rifarebbe all’opera di Christopher Isherwood, ma all’immaginario che ha prodotto. Ed ecco apparire nel pensiero dei più, quasi magicamente, un puzzle di raffigurazioni, che spaziano da Liza Minnelli in Cabaret a Babylon Berlin, però riassunte in una sola raffigurazione mentale: quella che li ha parassitati. A costo di ripetersi, questa si compone nell’immaginazione, nel corpo come primo medium, perché ritenuta bella, di gusto e autentica.

    Quanto riportato è una sintesi della complessità che si trova a monte di un tale processo, ma è utile per comprendere sin a che punto siano presenti gli immaginari e le immagini parassita nel pensiero di ognuno. In un certo senso funziona come quando si immagina la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, immediatamente, la maggior parte vede in bianco e nero. Atteggiamento della memoria che non accade se si pensa al Settecento, in quanto quel periodo apparirà colorato, luminoso, dai cieli azzurri pieni di nuvole e sicuramente con qualche sprazzo d’oro.

    E gli abiti? Anche quelli percorrono una strada simile, perché se non si è esperti di storia del costume, sarà l’immagine parassita a definirne l’appartenenza o la provenienza. Si pensi per esempio a tutti i revival degli ultimi trent’anni, gli stessi che hanno modificato la nostra percezione della linearità del tempo in relazione al linguaggio visivo dell’abbigliamento. Allora, un dolcevita color bottiglia è fine anni Sessanta o millennial, come nella miniserie televisiva La regina degli scacchi? E la frangetta della protagonista è di nuovo millennial, oppure un dettaglio dell’acconciatura che identifica le donne intelligentemente ribelli, dall’attrice statunitense Louise Brooks (1906-1985) fino al Favoloso mondo di Amélie? Di nuovo immaginario e immagine parassita viaggiano all’unisono per fare centro, ovvero mutare in chi guarda la percezione di quanto osserva. A quale scopo? Ottenere un cambiamento di gusto, di codice, ideologico ecc.

    Ora si esplori lo stesso percorso del pensiero dal punto di vista della teoria delle immagini.

    William John Thomas Mitchell in Scienza delle immagini scrive: «la picture è un oggetto materiale, una cosa che si può bruciare, rompere o strappare. Una image è ciò che appare in una picture, è ciò che sopravvive alla sua distruzione – nella memoria, nelle narrazioni, nelle sue copie e nelle sue tracce in altri media» (Mitchell 2015, p. 28).

    Trasportando la definizione dell’accademico e studioso statunitense in questo ambito di analisi, si può anche sostenere che gli immaginari appartengano al campo delle images, mentre la loro raffigurazione parassita si trovi nelle pictures. Tornando all’esempio di apertura, quindi, l’image proposta da Christopher Isherwood si è trasformata, con il film Cabaret, in una picture. Ma al tempo stesso, quest’ultima ha dato il via a un’altra parassita, di tipo visivo e non più letterario, rintracciabile in come ci si immagina la raffigurazione del divertimento e del disagio artistico durante la Repubblica di Weimar.

    Una distinzione, quella fra image e picture, che in ambito moda si ritrova, per esempio, in quel genderless che sta coinvolgendo l’ormai tanto inseguita generazione Z. Un linguaggio visivo dell’abbigliamento, raffigurazione di un modo di essere, che non è poi così lontano dal rapporto fra immaginario e immagine parassita. Insomma, proviene da una piacevolezza visiva che si è trasformata in un gusto e lo ha fatto attraverso le picture giornalistiche, pubblicitarie, artistiche, cinematografiche, televisive del XX secolo. In seguito, rigettate in quell’insieme immateriale chiamato Internet⁵. In altre parole, picture la cui image ha sviluppato, stampato e fissato nel pensiero di chi l’ha incontrata una rinnovata idea di gusto, un desiderio inaspettato e una ritrovata autenticità. Allora, per comprendere il rapporto tra genderless, immaginario, immagine parassita, image e picture, se ne esplorino due tappe, distanti temporalmente, ma legate da un unico filo conduttore.

    Per la prima si compia un salto indietro di quasi cent’anni per raggiungere gli anni Venti e Trenta del Novecento, quando, in piena epoca modernista, si è sviluppato quel cambiamento culturale da cui deriviamo.

    Siamo nelle grandi metropoli, base del fermento culturale post Grande guerra, Parigi, prima di tutte, ma pure Berlino e New York sono state travolte da tanta novità. Le donne scoprono la libertà del corpo e del pensiero, o almeno le intellettuali e le artiste. Le Flapper sono ormai un fenomeno del sistema occidentale, le ereditiere si sono tagliate i capelli e fa la sua comparsa la già citata frangetta. La moda assorbe tessuti e tagli maschili e Coco Chanel (1883-1971) li trasforma in abiti desiderati dalle signore del bel mondo. In un tale contesto si muove una donna rivoluzionaria, forse ancora fra le meno conosciute del periodo, eppure negli ultimi anni diventata un’icona di stile: la scrittrice e fotografa svizzera Annemarie Schwarzenbach (1908-1942).

    Definita dalla studiosa di fotografia e cultura visuale Federica Muzzarelli «androgino lesbo-chic» (Muzzarelli 2013, p. 85), con le sue fotografie e i suoi ritratti contamina definitivamente i generi maschile e femminile. Una neodandy che eredita dalla fine dell’Ottocento un gusto tipicamente maschile per traghettarlo in una modernità tutta al femminile.

    Nel 1939, in Tutte le strade sono aperte, l’autrice elvetica scrive: «ma non siamo noi a decidere dei nostri sogni […] non sta a me decidere di incontri e separazioni e tracciare il confine fra realtà e visione» (Schwarzenbach 2000, p. 60).

    L’aspetto interessante di questa frase si trova nella parte finale, dove mette in relazione ciò che vediamo, le pictures, con quanto ne risulta reale, le images. E come in un sogno non si può più scegliere un’identità, ma prendere atto di un tale cambiamento, superando così i confini culturali. Un atteggiamento alla visione rintracciabile tanto nei suoi scatti come nelle picture che la ritraggono. In queste ultime, in particolare, appare attraente e seducente, avvolta in quell’atteggiamento androgino in abiti maschili che non perde il carattere ribelle di donna del suo tempo. In altre parole, la raffigurazione di sé stessa, la sua image.

    A tal proposito sempre Federica Muzzarelli riporta: «l’effetto che la giovane svizzera provoca in chi la incontra è un mistero di fascino ambiguo per la sua sessualità incerta e di ammirazione per lo stile innato e il gusto raffinato nel modo di vestire» (Muzzarelli 2013, p. 118). Ed è un tale stile raffinato, la sua image, che si è propagato nel corso del XX secolo, fino a diventare l’immagine parassita, la picture, dell’intellettuale al limite del lesbo-chic, libera da ogni definizione di genere, di cui si hanno molti esempi specialmente nella filmografia d’autore.

    Per raggiungere la seconda tappa si deve compiere un altro salto temporale, approdando nella Londra di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta del Novecento. Non è tanto Ziggy Stardust, l’alter ego di David Bowie, a interessare, anche se ne è un precedente fondamentale, ma il movimento New Romantic, rappresentato visivamente dagli Spandau Ballet. Con questo gruppo musicale il neodandy si fa di nuovo strada fra i movimenti giovanili.

    In questo caso però va fatto notare che l’immaginario e l’immagine parassita del genderless tornano apparentemente al maschile, anche se, a ben vedere, estrae dagli armadi di madri, padri, nonni e nonne abiti che tutti possono rielaborare e indossare, al di là del genere di appartenenza. Un gioco di specchi fra maschile e femminile che ha trovato la sua massima espressione presso il famoso Wine bar Blitz di Londra.

    Scrive David Johnson in un articolo per «The Guardian» online del 2009: «i Blitz Kids furono i primi figli dell’era televisiva, saggi nei modi dei media popolari, e si misero a sovvertire i regni che i giovani conoscono meglio, la musica e la moda»⁶.

    Una generazione che farà di MTV il proprio palcoscenico, raggiungendo in pochissimi istanti come picture tutti gli adolescenti del mondo. Un propagarsi di raffigurazioni degli Spandau Ballet con le loro ballerine ai piedi, rigorosamente portate con calze bianche, abbinate a camicie colorate e morbide dalle maniche a sbuffo. Oppure calzoni decorati da cerniere e magliette dal collo a ciambella. E di nuovo nastri, trucco, grembiuli come gonnellini abbinati a kilt, spille di strass e giubbotti militari, ma arricchiti di foulard. Insomma, in quegli anni un nuovo dandysmo ha invaso il mondo giovanile con una ritrovata libertà d’espressione priva di genere.

    Un’esperienza che non si è chiusa con gli anni Ottanta del Novecento, ma in forma di image ha parassitato molti gruppi underground successivi. Si pensi per esempio ai frequentatori dei club techno della Berlino di fine millennio. E, in questo giro del mondo sempre più accelerato da Internet, i ritrovati neodandy in chiave globale della Corea del Sud di inizio terzo millennio. Questi ultimi, ragazzi che dapprima hanno sfilato sulle passerelle di Instagram e in seguito dei brand, a loro volta impersonificati da una nuova generazione di modelle e modelli dal genere non binario.

    Un percorso quello appena raccontato in pochi passaggi che fa comprendere come un immaginario e la sua immagine parassita non si arrestino, anzi identifichino un gusto, lo elaborino e infine lo trasformino in qualcosa di piacevole, molto spesso tralasciandone la storia, almeno in chi ne viene parassitato.

    E la citata Annemarie Schwarzenbach come gli Spandau Ballet, questi ora sono icone in forma tanto di picture che di image. La scrittrice e fotografa svizzera per gli intellettuali e gli accademici, il gruppo musicale per storici e studiosi di costume. Ed è così che il genderless, in tutte le sue diverse sfumature, è arrivato a coinvolgere pure le generazioni più adulte, tanto nella sua versione più colta che in quella di storia delle culture giovanili. Insomma, ora piace e coinvolge tutti, o almeno i più.

    Come si sarà compreso in questo contesto di studio non è tanto il periodo storico di una raffigurazione il punto focale dell’indagine, quanto il percorso che compiono gli immaginari, o image, per dare un senso a quanto piace. Per poi ritrovarli come immagine parassita in una nuova picture visivamente rinnovata.

    A tal proposito diventa quasi profetica una frase dello scrittore austriaco naturalizzato britannico Stefan Zweig (1881-1942), quando in apertura della sua opera autobiografica Il mondo di ieri riporta: «il periodo storico offre le immagini, a me il compito di aggiungervi le didascalie» (Zweig 1942, p. 3). Certamente l’ha scritta prima del dilagare della cultura visuale, eppure, estrapolandola dal suo contesto, come ormai si fa con le immagini e le citazioni, assume un ritrovato significato in grado di tuffarci nella contemporaneità degli immaginari e delle immagini parassita. Infatti, se viene chiesto di dare forma a una raffigurazione o di scegliere un abito, è proprio il connubio fra questi ultimi due ad agire, influenzando il senso estetico, intellettuale e ideologico di chi viene interrogato. In altre parole, si creano delle didascalie, per dirla con Stefan Zweig, frutto di

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