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Roosevelt Avenue
Roosevelt Avenue
Roosevelt Avenue
E-book596 pagine8 ore

Roosevelt Avenue

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Info su questo ebook

Romanzo.
LinguaItaliano
EditoreRyan Tormy
Data di uscita17 dic 2016
ISBN9788822878342
Roosevelt Avenue

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    Anteprima del libro

    Roosevelt Avenue - Ryan Tormy

    Ryan Tormy

    Roosevelt Avenue

    UUID: b081fef8-c46f-11e6-82a3-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Quando un uomo nasce

    viene sbalzato da una situazione ben definita

    in una situazione incerta e indefinita.

    Vi è certezza solo per quanto riguarda il passato,

    per ciò che riguarda il futuro,

    solo la morte è certa.

    Erich Fromm

    Un omicidio

    è un evento normale

    in una grande città,

    presto dimenticato,

    coperto dall’onda lunga dell’oblio,

    dopo aver solleticato un breve,

    morboso interesse.

    Un omicidio,

    come la violenza di un uragano,

    sconvolge e distrugge la tranquillità,

    la serenità di una famiglia normale.

    Gli affetti spazzati via

    non saranno mai più restituiti

    lasciando solo laceranti vuoti.

    Un omicidio,

    normale avvenimento per un detective,

    entra nella vita di Deanna Taylor

    scalfendo prima e attraversando poi

    la corazza di logico e freddo raziocinio

    costruita in anni di investigazioni, di morti,

    coinvolgendola emotivamente.

    Nota dell’Autore

    Questo romanzo è opera della fantasia.

    Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti 

    sono il prodotto dell’immaginazione o,

    se reali, utilizzati in modo fittizio.

    Ogni riferimento a fatti, persone,

    viventi o scomparse, è del tutto casuale.

    Roosevelt Avenue

    Ryan Tormy

    Sudato, ansimante, infastidito da un tardivo ma non convinto pentimento, impestando l’aria con maleodoranti rutti, si rigirava in continuazione nel letto cercando la posizione giusta per rag­giungere l’agognato sonno. Che non arrivava. Più si obbligava a dormire, più si agitava. Nei pochi, brevi momenti in cui riusciva ad addormentarsi, racca­priccianti incubi lo risve­gliavano spaventato; e ogni volta guardava i numeri verde fosforescente della sveglia nella speranza che fosse già mattina. Ma questi si succedevano con irritante lentezza e lo innervosiva dover accettare che non erano trascorse nemmeno due ore da quando si era coricato.

    Anche questa volta aveva esagerato; anche questa volta aveva lasciato che l’ingordigia, trava­licando l’effimero confine fra la de­cenza e l’indecenza, si fosse trasformata in una ri­provevole ab­buf­fata. Troppo, smo­datamente troppo anche per uno stomaco capiente come il suo. Di corporatura ro­busta, da sempre con qualche chilo in più di quel peso forma che i medici non erano mai riusciti a fargli conquistare, Sam, da quando è in pen­sione, è entrato a far parte di quel quarto di suoi connazionali che le statistiche annoverano fra gli obesi.

    Louise, abituata al rumoroso e in­va­dente marito, ma prima di tutto stanca, pareva non sentirlo; ester­nava la sua rasse­gnazione so­spi­rando ed emettendo, di tanto in tanto, malinconici suoni gutturali.

    Per tutto il pomeriggio avevano trafficato per preparare filetti di manzo - quello al­le­vato nel Texas, per lui il migliore -, costine di maiale, salsicce e sala­melle cotti sul bbq in pie­tra, co­struito nel giardino dietro casa, protetti da un grande ombrellone da sole aperto per ripa­rarsi dalla leggera pioggia, profu­mando l’aria di invitanti profumi. Louise aveva anche pelato, fatto a pezzi, arrostito nel forno una gran quantità di patate spezziate con salvia, rosmarino, ori­gano e cucinato una smi­surata cheese-cake, la sua specialità. Sarebbero stati in otto a cena e c’era da mangiare per almeno il doppio. Festeg­giavano la vit­toria della squadra, e il terzo posto di Sam nell’individuale, al torneo di bowling del quartiere. Avevano in­vitato gli altri tre giocatori e le loro mogli.

    Alla fine della cena non era avanzato niente, come testimo­niavano i vassoi im­pilati sul ri­piano della cu­cina e il plotone di bottiglie vuote di Samuel Adams, la sua birra preferita.

    Se­duti a tavola dalle sette, gli amici, sempre meno lucidi e oltre­modo sazi, verso le un­dici, sbiasci­cando una litania di saluti e rin­graziamenti, tornarono a casa e loro, non avendo voglia e forza per riassettare, lasciarono tutto com’era e salirono al piano superiore per an­dare a dormire.

    Restare a letto era ormai diventato solo un tormento. Decise di alzarsi: una boccata d’aria fresca gli avrebbe fatto bene. Cercò la lampada sul como­dino, spinse l’interruttore, ma non si accese. Si ri­promise, l’indomani, di cambiare la lampadina. Convinto che Louise dor­misse, per non svegliarla si alzò nel buio; barcollando, appoggiandosi ai muri, andò nella stanza usata dai figli quando vengono a tra­scorrere qualche giorno da loro. Sempre più rara­mente. Lei lo sentì; non disse nulla augu­randosi che non tor­nasse subito, che la sua as­senza le permettesse di prendere finalmente sonno e riposare tran­quilla. Sempre cammi­nando tentoni, arrivò alla finestra. L’aprì. Inspirò profon­damente. Sentiva però che c’era qual­cosa di strano, di diverso quella notte. Non riusciva a capire cosa. Si sporse, guardò in­torno nel si­lenzio, nel buio. La luce. Mancava la luce. Tutto il quartiere era al buio; anche i lampioni nella strada erano spenti. Nem­meno la luna, che in quel periodo era piena, riusciva a far fil­trare il suo chia­rore oltre la fitta coltre di nubi che da giorni copriva Richmond.

    Gli venne voglia di accendere un puzzolente, come Louise chiama i sigari che lui ama fu­mare. Li te­neva in salotto e per farlo do­veva scendere. Non si sentiva sicuro: gli effetti della tanta birra bevuta ren­de­vano instabili i suoi movimenti. Il desiderio prese il so­prav­vento e decise di tentare. Frugò nell’armadio cercando qualcosa per coprirsi. Trovò una coperta, la spiegò, tossendo infastidito dall’odore della naftalina che la moglie metteva ovunque, la avvolse intorno alle spalle come fosse un mantello. Scese le scale ra­sen­tando il muro, stringendo forte il corrimano, camminando lento, un gradino per volta. Arri­vato in fondo alla scala strisciò i piedi sul pavimento in parquet; spontaneo gli si formò un sorriso sulle labbra mentre pensava all’irritazione di Louise se l’avesse visto e all’inevitabile, este­nuante discussione che sarebbe seguita. Distese le braccia muovendole per esplorare lo spa­zio davanti a sé ed evitare gli osta­coli che sapeva di incontrare. Non si ricordò del basso tavolino in ve­tro: impattò violento lo stinco contro il bordo acu­minato. Snocciolò una lunga e colorita serie di im­precazioni.

    «Ha ragione chi sostiene che il fumo fa male» sentenziò caustico continuando a massag­giare la contusione per lenire il dolore.

    Prese un sigaro dalla scatola e, senza altre difficoltà, aprì la porta e uscì sul prato di fronte alla sua casa. L’erba, la terra intrise d’acqua, bagnarono le pantofole. Si rese conto della sua sba­dataggine quando sentì la pelle dei piedi umida e un intenso brivido di freddo perva­derlo. Strinse più stretta la co­perta, portò alla bocca il si­garo, lo tenne fermo con i denti e dopo due ten­ta­tivi la fiamma dell’accendino brillò nell’oscurità. Quel gesto non sfuggì al signor Brown se­duto sui gradini dell’ingresso della casa di fronte, sul lato opposto della via; aveva una torcia che ac­cese e ri­volse in direzione del te­nue rossore del tabacco che bruciava, accompagnando il movi­mento con una do­manda che, in quel si­lenzio, sembrò urlata: «Sam… Sam sei tu?»

    «Arkye? sei tu? che fai lì? vieni qua, fammi luce.»

    Attraversò la strada e puntò la pila sulla faccia paciosa di Samuel Hammer.

    «Maledizione, abbassa quella luce» disse stizzito, «mi stai accecando.»

    «E tu abbassa la voce o sveglierai tutti! È da più di un’ora che non c’è corrente, da prima di mezza­notte; stavo guar­dando la partita dei Richmond Braves, quando è mancata.»

    «Ma non ci sono partite a quest’ora. E poi hanno giocato ieri.»

    «Lo so, è la registrazione. L’altra sera avevamo gente e non ho potuto vederla. Oggi siamo stati tutto il giorno a cercare un divano perché a Flossie non piace più quello che abbiamo. Quindi me la stavo go­dendo adesso. Ti va bene così?»

    «E l’avete trovato?»

    «Ti pare che a Flo basti un giorno per trovare quello che cerca?»

    «Beh, io l’ho vista. È stata una bella partita. Peccato che abbiano perso.»

    «Grazie per l’informazione! Per tutto il giorno non ho visto i notiziari, non ho comprato apposta il giornale e tu, come al solito, rovini tutto.»

    Sam gongolò contento: anticipargli i risultati era un suo fanciullesco divertimento.

    «Ho chia­mato la società elettrica» riprese Arkye, «c’è un guasto da qualche parte e non sanno an­cora quando riusciranno a ri­pa­rarlo. Così hanno detto. Spero non mi si rovini la carne nel congelatore.»

    «Questo buio, questo silenzio, mi ricordano la mia infanzia nella fattoria di Waynesboro» confidò Sam, «ora però non sono più abituato e ti confesso che mi fa un po’ paura.»

    «Anche a me, ma non volevo dirlo per primo. So che me l’hai già detto, ma dov’è quel posto? Nord o Sud Caro­lina?»

    «Georgia, Georgia. Al confine con la Carolina del Sud. In quella zona tanti paesi fini­scono in boro. Ricordo Swainsboro, Statesboro, Walterboro…»

    «Marlboro» sogghignò Arkye.

    «Stupido» ribatté ridendo anche lui. Poi, per non disturbare l’innaturale quiete, non parlarono più.

    «Ascolta» disse Sam distogliendo l’amico dai suoi pensieri, «le sirene.»

    Arkye, che era un po’ sordo, non sentiva nulla.

    «Credo stiano venendo da questa parte.»

    «Adesso le sento.»

    Puntando a terra il fascio della torcia, raggiunsero il marciapiede. Sam schiacciò con forza i piedi nel tentativo di far uscire un po’ di acqua dalle pantofole. Il suono delle si­rene cre­sceva d’intensità. Vede­vano ora anche le luci dei fari, dapprima tenui poi sempre più forti, allinearsi dopo la sbandata per la curva in fondo al viale. Due macchine della polizia sfrecciarono da­vanti a loro fre­nando scomposte, poco più avanti, sull’asfalto viscido, seguite a breve di­stanza da altre tre. Mentre le ulti­me vetture non si erano ancora fermate, dalle prime già scen­devano gli agenti che correvano verso la porta d’ingresso della casa al nu­mero 1242 di Roosevelt Avenue.

    Si presero sotto braccio e s’incamminarono in quella di­rezione facendo attenzione a non scivolare sulle foglie secche dei negundi piantati ai lati della strada che le violente piogge degli ultimi giorni, dopo un’estate lunga, calda e arida come da tanti lustri non ac­cadeva, ave­vano anzi tempo fatto cadere, come se fosse già autunno. Un alquanto pre­coce autunno.

    La torcia non serviva più: le po­tenti luci dei fari sui tetti delle auto prima e delle fotoelettri­che poi, rischiaravano a giorno la villetta e intorno. Prima che potes­sero avvi­cinarsi, furono rude­mente fermati dagli agenti che stavano ten­dendo il nastro giallo fosfo­re­scente con un’infinita serie di "CRIME SCENE DO NOT CROSS" scritta a neri caratteri cubitali a delimitare la zona e vietarne l’accesso.

    Questo tram­busto aveva svegliato molti degli abitanti che, dopo aver curiosato dalle finestre, erano usciti in strada e tempesta­vano di domande Sam e Arkye che, sebbene presenti all’arrivo della polizia, erano del tutto ignari di cosa fosse suc­cesso. Due agenti, le pi­stole in pu­gno, si avvicinarono alla casa. Keith Paltrow tentò di aprire la porta: era chiusa. Corse l’agente Arbos che facendo leva con una spranga di ferro incu­neata fra lo stipite e la porta, ac­compa­gnando il gesto con stravaganti imprecazioni, forzò la ser­ratura, scar­dinandola. Keith spinse l’uscio con un piede; strisciò la schiena contro lo sti­pite; entrò muovendo a destra e a sinistra le braccia tese in avanti. Hector Forteza, dietro di lui, fu colpito al volto dalla pi­stola di Keith voltatosi di scatto; bar­col­lando, inciampò sui gra­dini e cadde. Keith si ap­pog­giò al muro e si piegò per vo­mitare. Anche Forteza, rialzatosi, si allontanò sputando disgustato.

    Gli si avvicinò il sergente Emerson: «Che c’è Hector?»

    «Una puzza… una puzza…» rispose tossendo e sputando, «non ho visto niente, solo una puzza in­sopportabile; ci servono le ma­schere» aggiunse. «Vado a prenderle.»

    «No, lascia stare. Vai a farti medicare» gli impose vedendo il sangue che colava sulla guancia. «Duke» gridò rivolgendosi ad alcuni poliziotti dietro di lui, «Duke, prendi le maschere e vai con Keith» gli ordinò energico. «Ehi, Percy… Percy, dove cazzo sei? Piazza un’alogena all’ingresso. Svelto.»

    Hector fu ac­com­pagnato all’ambulanza per curare il taglio sullo zigomo sinistro. Keith, ripre­sosi, accompagnato da Con­rad Duke, rientrò nella casa. Si muovevano con circospezione, scrutando nella penom­bra, oltre la zona illuminata. Avanzarono per un paio di metri. Conrad chiamò il collega: «Keith, lì, guarda lì.»

    Si avvicinarono lentamente. Poco oltre la soglia della porta videro i piedi scalzi di un corpo steso per terra. Conrad portò la testa in avanti; subito chiuse gli occhi. Paltrow gli si affiancò e guardò nella stessa direzione provando a sua volta ribrezzo: una giovane donna, con un profondo ta­glio sul ven­tre, giaceva supina in una posi­zione innatu­rale. Dall’addome lacerato, l’intestino non più tratte­nuto era uscito lor­dando la pelle bianca, i ve­stiti, il pavimento. Il lieve rumore del fri­gorifero che ritornava a fun­zionare per la ripresa dell’erogazione dell’elettricità fece sobbal­zare i due poliziotti rimasti allibiti e im­mobili. Conrad, spingendo a caso alcuni interruttori, accese le luci. La fotoelettrica piazzata all’ingresso fu spenta. Gli agenti non toccarono altro e, lasciando la porta d’ingresso spalancata per far en­trare aria che ren­desse più respirabile quella che ristagnava dentro, uscirono raggiungendo Emerson.

    «Sergente» gli disse Conrad togliendosi la maschera, «il nostro lavoro è finito. Adesso tocca al coro­ner e a quelli della scientifica.»

    Sbigottiti, e nello stesso tempo eccitati, gli spettatori avevano smesso di bisbigliare; adesso facevano commenti e congetture alzando sempre più il tono della voce. 

    Per Nick Kola, tenente ispettore della squadra omicidi della poli­zia di Richmond, noio­samente si­curo di sé, che aveva sempre una risposta e una spiegazione a tutto e per tutto, avere due quesiti ancora irrisolti era un cruccio che ogni tanto lo angu­stiava; anche se questo as­sillo durava poco, presto rimosso da questioni, per lui, più impor­tanti.

    Si chiedeva perché i suoi ge­nitori aves­sero scelto proprio quel nome. Non perché fosse brutto: l’America è piena di Nick; ma pro­nun­ciato insieme al co­gnome era stato spesso motivo di confusione. Non l’aveva mai chie­sto e ora non poteva più farlo. Un anno fa, in poco meno di sei mesi, se n’erano andati en­trambi. Prima mamma Gloria, improvvisamente e inaspettatamente, per un infarto. Poi Charles, suo padre, lentamente, prevedibilmente, che non aveva ac­cettato, non aveva voluto accet­tare, la morte della moglie.

    "Che senso ha chiederselo?" gli domandavano quando lui esternava questa sua perples­sità, "gli è piaciuto e così ti hanno chiamato" tagliavano corto evitando di addentrarsi in una que­stione ritenuta priva di importanza quelli a cui sollecitava una risposta, "non vorrai odiarli per questo?"

    Non capivano, non riuscivano a capire che lui doveva saperlo. E capivano ancora meno quando parlavano di risentimento o, addirittura, di odio. Odio che non aveva mai provato per nessuno. Neppure per i più feroci as­sas­sini che aveva incon­trato nella sua car­riera e per i molti nemici che si era fatto in quegli anni. Li combatteva, li compativa, li commiserava, ma non riusciva a odiarli.

    Così come non odiava nemmeno Deanna, pur continuando a non comprendere perché, quattro mesi prima, l’avesse lasciato. Sembrava l’unico a non averlo ca­pito e ancora, benché di­cesse di sforzarsi di farlo, non lo capiva. Anche questa volta non aveva chiesto spiegazioni, ac­cettando la sua scelta senza contrastarla. Subendola, faceva intendere le poche volte che ne parlava, la­sciando a lei la responsabilità di quella decisione.

    Deanna, la bionda detective al suo fianco, seduta al volante della macchina senza le inse­gne della po­lizia, guidava veloce e sicura per le strade buie e bagnate dalla pioggia che an­cora scen­deva leg­gera, im­palpabile come nebbia. Da quindici anni compagni di lavoro; da dieci compagni nella vita. Sareb­bero stati dieci anni in questi giorni se lei, una sera, l’ultima di una lunga serie di inconclu­denti tenta­tivi, non gli avesse detto che non era più il caso di vivere insieme. Una frase che di­ceva sem­pre più spesso negli ultimi mesi; ma lui non credeva a quelle parole con­vinto che scher­zasse. Ma questa sua si­cu­rezza non gli fa­ceva vedere la sofferenza che segnava quel viso dolce e le la­crime che si affollavano dentro gli occhi nocciola. Non aveva mai dato peso alle parole che, nelle in­ten­zioni di Deanna, erano provocazioni nel dispe­rato tentativo di sal­vare un matri­monio nel quale aveva creduto, cre­deva e ancora avrebbe voluto cre­dere, ma che, dovette poi convin­cersi, non aveva senso continuare.

    A Deanna piaceva e molto il detective Kola: professionale, serio, meticoloso, lucido, razio­nale. Pregi sul lavoro che, entrati prepotentemente anche nella vita familiare, con il tempo si mutarono in difetti. Un lento stillicidio al quale Deanna non aveva inizialmente dato importanza, ma che con il tempo, sub­dolamente, iniziò a darle fastidio fino a quando il suo comportamento divenne per lei insopportabile. Come insopportabile era che l’unico argomento di dialogo fra loro fosse il la­voro. Aveva anche smesso di domandarsi perché lui non reagiva quando lei evitava, con banali scuse, i sempre più rari momenti di intimità. Fu lei a deci­dere. Lui non l’avrebbe mai fatto. Questa sera si erano incontrati alla centrale; lei in servizio, lui ancora in ufficio benché il suo ora­rio di lavoro fosse da tempo terminato. Per lui era nor­male, l’aveva sempre fatto e avrebbe continuato a farlo.

    Fu frequentando il corso per detective che Deanna conobbe Nick. Dopo cin­que anni il ma­trimo­nio. Dopo dieci il divorzio.

    «Vieni Nick, dai... non fare il segaiolo. Sono bellissimi, sono dei giocherelloni.»

    «No, no, no!»

    A bordo del motoscafo dell’Underwater Expe­rience Society ancorato al largo di Freeport davanti a Kay Peterson, nel pro­fondo blu dell’Oceano Atlantico, Nick restava irremovi­bile sulle sue posizioni; l’unica cosa in cui riu­sciva a stare fermo, poiché il beccheggio della barca gli dava problemi di equilibrio e di stomaco, inner­vo­sendolo. Deanna era in acqua che giocava con tre stupendi delfini, sotto il controllo vigile di un istruttore.

    «Vai tu. Io ti riprendo con la videocamera.»

    «Va bene, ma questa me la paghi.»

    Nick non amava il mare e non gli pia­ceva nemmeno la montagna. Aveva avversione per i luoghi af­fol­lati e chias­sosi; quelli tranquilli lo rendevano malinconico. A Disne­yland, l’ultimo posto dove erano stati insieme e dove aveva ac­cettato di andare dopo lunghe insistenze di lei, finché era riuscito, aveva finto interesse, aveva finto di divertirsi. Non durò molto. Deanna, contagiata dai suoi fre­quenti mo­menti di ma­lumore, smise di divertirsi, epilogo di una situazione già vissuta troppe volte. In ogni luogo dove erano stati, dove con malcelata malavoglia l’aveva seguita, aveva sempre ottenuto il ri­sultato di avvol­gerla con la sua apatia, facendole pensare: Questa è l’ultima volta. Pro­positi mai mantenuti.

    Dalla finestra rivolta a ovest dell’albergo, vedeva il cielo ancora nero punteggiato da tre­molanti stelle, libero dalle nuvole del giorno prima spazzate via dal forte vento della notte. In­dossò i pantaloni della tuta, infilò un pesante maglione di lana; si piegò sulle ginoc­chia per chiudere la cerniera dei dopo-sci; senza far rumore aprì la porta e uscì dalla stanza chiudendo adagio. Il legno del parquet del cor­ridoio scricchiolava sotto i suoi passi. Scese due piani di scale e si trovò nella hall de­serta. Il por­tiere di notte si era appisolato sulla se­dia con la testa appoggiata sul bancone.

    Uscita dalla porta po­ste­riore, re­spirò l’aria frizzante della prima mattina. La neve ca­duta fino a tarda sera, aveva coperto tutte le im­pronte e i segni lasciati dagli ospiti dell’hotel. Appog­giò su quello strato bianco, in­contami­nato, il piede destro che affondò leggermente, crocchiando sonoro. Portò avanti an­che il sinistro e poi tornò indie­tro ad osservare le sue orme.

    Alzò poi gli occhi restando, come ogni volta, affasci­nata dall’alba: le montagne si stagliavano nere, appiattite; le linee nitide dei loro con­torni fra­stagliati spiccavano nell’arancio ap­pena un po’ sbiadito che sfumava in un evanescente rosa che ve­loce si dis­sol­veva nel bianco per di­ventare subito delicato azzurro che lentamente si sosti­tuiva al blu in­tenso. Si passò le mani sulle brac­cia per scaldarle, e dopo sulle gambe. Ri­mase ancora qual­che minuto a vedere la luce del giorno avanzare inesorabile. Adesso, sulle cime delle montagne, lucci­cava candido il bianco dei ghiac­ciai; scorgeva il grigio delle rocce più sotto e, più in basso, il verde scuro degli abeti e di tutti gli altri alberi di cui le avevano più volte detto i nomi ma che lei si ostinava a non ricordare. Rientrò. Il por­tiere stava an­cora dormendo. Salì le scale senza fretta, godendosi il piacere del caldo che a poco a poco attenuava il freddo sulla pelle. Ritornata in camera accese l’abat-jour, accostò due cuscini alla testata del letto, si appoggiò con la schiena e terminò di leggere Il Dio del fiume.

    La setti­mana bianca, irrinunciabile per Deanna, una vacanza che faceva fin da piccola quando an­dava con i suoi genitori per impa­rare a sciare, Nick la tra­scorreva da solo sulla terrazza dell’albergo. Va bene così Dé, mi ri­poso, mentiva male men­tre lei sciava. Alla sera si addor­mentava davanti al camino nel sog­giorno dell’hotel, per con­ti­nuare in camera. Prendere l’iniziativa, propo­rre qualcosa da fare, ve­dere, non rien­trava fra i suoi in­te­ressi. Una situazione triste, che sembrava tale solo per lei e che la faceva sentire a disagio, persino in colpa per averlo costretto a seguirla.

    Nick dormiva e non si era accorto di nulla. Più tardi, da sola, scese a far colazione. Si mise in fila per pren­dere lo skilift e fare la prima discesa della giornata.

    Rinunciò anche a questo senza riversare su di lui la sua nostalgia.

    All’inizio, queste sue avversioni, questa sua idiosincrasia, erano rimaste quasi del tutto sopite. Ma poi, im­pos­sibili da controllare, avevano preso il sopravvento. Dapprima Deanna aveva cer­cato di farlo rea­gire, sti­molarlo, scuo­terlo da quella ignavia in cui stavano sprofondando. Un’abitudinaria iner­zia in com­pleta antitesi con la vivacità, l’iniziativa che lui aveva per il la­voro. Aveva ac­cet­tato anche que­sto e non lo considerò una resa, ma un momento da supe­rare insieme. L’amore per il suo uomo era forte e le faceva fare scelte, avere compor­ta­menti che ancora adesso non ritiene sbagliati. Sa­peva di farsi vio­lenza ma, testarda e inna­mo­rata, era sicura si trat­tasse di una situazione di breve durata, che tutto sa­rebbe tornato com’era all’inizio, quando si erano conosciuti, come nei primi anni di matri­monio. Ma il ba­ratro dell’incomunicabilità, che si allargava ogni giorno di più, era diventato una voragine senza fondo. Poiché quel momento non finiva mai e soprattutto non capiva come potesse finire, do­vette am­mettere la scon­fitta, accettare che la sua era solo una chimera, un’illu­sione e che tale sa­rebbe rimasta. Era davvero giunto il momento di cambiare.

    Ricordate sempre: in un’indagine non va tralasciato nulla, proprio nulla. Non dovete, non dob­biamo es­sere super­fi­ciali; quello che può sembrare insignificante, io non uso mai la parola «inu­tile», di­cevo, quello che può sembrare non servire alle nostre investigazioni, spesso, per contro, si è ri­velato di fon­damentale impor­tanza. La soluzione va costruita raccogliendo tutti, tutti! i pezzi. Con tutto quello che con infinita pazienza raccogliamo. Anche se al momento ci sembra non abbia rela­zione con ciò che stiamo cercando di scoprire. Perché è proprio questo il nostro lavoro: scoprire chi è responsabile di un delitto. Ma anche cosa e perché. Tante volte, ve ne renderete conto, si arriva a «chi», il colpevole, comprendendo «perché» ha agito, «cosa» lo ha fatto agire. Sono le tre w: who, what, why. Dovete im­pa­rare a ra­gionare con mille teste: con quella di chi stiamo cer­cando, ogni volta diversa, senza mai però perdere la nostra di testa. E con testa intendo la nostra razionalità e la nostra intelli­genza, la nostra ca­pacità di discernere e di ra­gionare, la nostra preparazione e la nostra profes­sionalità. Soprattutto senza mai farci coinvol­gere emotiva­mente, sentimen­tal­mente. È successo e suc­cederà, non sembri così strano. Sono parole che possono sembrare capziose, ma sono la base, le solide fondamenta di un buon investigatore. Insieme alla tec­nolo­gia che col tempo si è sviluppata, arricchita di strumenti, di esami sempre più raffinati e precisi. Dietro a questi ci sono quegli spocchiosi della scientifica; spesso la loro boria mi da il volta­stomaco ma sono indi­spensabili; senza di loro non avremmo raggiunto l’alta per­centuale di soluzioni che ora ab­biamo. Per oggi mi fermo qui; ci ve­diamo, dunque… giovedì alle otto.

    A turno, i detective in servizio, durante i corsi avevano degli incontri con i futuri colleghi che li af­fiancavano anche nelle inda­gini e a Deanna erano bastate le tre o quattro volte che aveva seguito Nick per con­si­derarlo un presuntuoso, indisponente, tronfio cafone. Non l’aveva mai de­gnata di uno sguardo se non per farle pesare il fatto che fosse lì a intralciare il suo lavoro, lì solo a dargli fa­sti­dio. Lo faceva con tutti perché lui odiava spie­gare cosa, come e per­ché. Lui faceva e basta.

    «Questa è un conti­nuo rompere le palle con do­mande, chiedere spie­gazioni. Come si può spiegare un’intuizione, una sen­sazione, un’idea venuta per caso ricor­dando al­tre indagini, altri omicidi che lei non cono­sce? Collegamenti logici che perdono tutta la loro lo­gicità quando sei co­stretto a spiegarli. Per­ché non se ne sta zitta come gli altri? perché è capitata proprio a me una che sembra una mae­strina?» si lamentava con i colleghi che, al contrario di lui, la rite­nevano una promettente detective.

    Senza che Deanna se ne rendesse conto, e so­prattutto senza vo­lerlo, l’antipatia, l’insofferenza si erano trasfor­mate nel loro opposto. Gli piaceva quando, per illustrare come era arrivato alla soluzione di un caso, s’impantanava in noiose spiegazioni, perdeva il filo del di­scorso, farfu­gliava parole comprensi­bili solo a lui. Gli piaceva quando descriveva i casi indagati dal F.B.I.; li aveva seguiti, studiati con inte­resse maniacale perché il Federal Bureau of Investigation ri­ma­neva il suo sogno, la sua aspirazione e non ne faceva mistero; non aveva mai smesso di crederci ed era convinto che prima o poi avrebbe rag­giunto l’obiettivo. Sapeva bene che non era fa­cile: migliaia di col­le­ghi avevano le sue stesse ambizioni; un branco di squali pronti ad azzannare chiunque potesse sola­mente sem­brare un ostacolo; uno contro tutti. Non sopportava che il suo sogno rimanesse solo un bel sogno. La sua capacità, la sua competenza, la sua preparazione dovevano trovare spazi più ampi del di­stretto di polizia di Richmond. Serviva qual­cuno che lo appoggiasse. Se fosse riu­scito a par­tecipare al corso di selezione, in quelle sei set­timane avrebbe dimostrato chi era il detective Nick Kola, cosa sapeva fare. Al momento non c’era nessuno.

    Era questo il vero Nick Kola, questo normalissimo ragazzo che voleva sembrare grande, e non ci riu­sciva; questo simpatico uomo che voleva sembrare antipatico, e ci riusciva.

    Dei cinque aspi­ranti ispettori, i quattro uomini si alzarono e uscirono salutando Nick, non senza qualche ironica battuta e ammiccanti occhiate verso Deanna che stava ancora scrivendo.

    «Signorina Taylor?»

    «Sì tenente Kola?»

    «Qualche problema?»

    «No, ho finito, grazie.»

    «È sempre molto attenta… sono sicuro che farà molto bene. Il capitano Grasser è fiero di lei e so che vor­rebbe averla nella sua squadra. Non lo deluda, è vendicativo.»

    Deanna non intese queste parole come una minaccia ma, anzi, le considerò un compli­mento che da lui non si sarebbe mai aspettata. Nascose la soddisfazione.

    «Tenente Kola, mi è forse sfuggita qualche disposizione del regola­mento che vieta di dare del tu solo alle colleghe? Ho cercato, ma non l’ho trovata.»

    Arrossì. Lui non lo notò.

    «No, assolutamente… anzi, avrà… avrai capito che non amo i formalismi.»

    «Bene, Nick.»

    «Ok, Deanna.»

    Un silenzio impacciato s’impadronì della stanza. Mise i libri e il piccolo registratore por­tatile nella borsa, la tracolla sulla spalla e andò verso la porta tenuta aperta da un malde­stro Nick Kola.

    «Mi fai compagnia qualche minuto? Ho sete.»

    Non parlò e la seguì. Si sedettero sugli sga­belli al banco del Wickam’s Garden Café, due isolati più avanti. Nick ordinò un succo di pomo­doro; Deanna una Coca Cola.

    «Sai come mi chiamavano a scuola?»

    «No» rispose sorpresa; non si aspettava questa domanda.

    «Coca Kola, Pepsi Kola… Questo cognome è un incubo, anche adesso mi perseguita.»

    «Nick te lo giuro, non ci avevo nemmeno pensato. Davvero, io non…»

    «Lo so, lo so» la interruppe. «Quando mi presento, Nick Kola, spesso mi chie­dono: Ok, Nicola e il cognome? No Nicola, Nick Kola, Nick Kola; November India Charlie Kilo spazio Kilo Oscar Lima Alfa. Non ti dico i pass, i biglietti, le prenotazioni. Qualcuno ha scritto Koala, una bestia… puoi ri­dere, non mi offendo.»

    «Bene, altrimenti scoppio.» E rise di gusto.

    Si incontrarono altre volte, trascorsero altri momenti insieme fuori dell’ambiente di lavoro; tutti or­ganizzati da Deanna. Nick pareva disinteressato a lei, ma agli occhi di una donna non sfuggono quei pic­coli particolari che fanno capire che anche l’altro era innamorato o si stava innamorando. Di lui si era inva­ghita e subito in­namorata, saltando l’amicizia; quell’amicizia che in passato non aveva mai lasciato diventare amore. Non vo­leva succedesse anche questa volta perché era sicura che Nick fosse la persona giusta, l’uomo con cui vivere. Non certo per la sua bellezza: uno come tanti, normale, ano­nimo: occhi neri, mai fermi, sem­pre a guardare, a scrutare, a indagare; naso aquilino che non si po­teva defi­nire grosso ma, al­meno, inva­dente; labbra sot­tili, appena accennate, sem­pre impegnate a reg­gere una siga­retta; capelli ca­stani, lisci, di­sordi­nati e un ciuffo lasciato più lungo per coprire una precoce cal­vizie. In­dossava quello che ca­pitava, incu­rante del risultato. Dopo il matrimonio, l’insistenza e la pa­zienza di De­anna avevano portato un evidente miglioramento, ma ricevere complimenti, anziché soddi­sfarlo, lo in­fasti­diva. La barba rada e chiara gli permetteva di evitare il quoti­diano supplizio della rasa­tura. Anti­conformista, confusionario, disordinato e pigro, aveva per contro un cervello razio­nale, logico, pre­ciso, or­dinato. I suoi ragiona­menti si fondano sem­pre sul concreto; la fantasia è un eser­cizio men­tale che non conosce. Non pro­penso al ri­schio fine a se stesso, analizza con meticolosità prima di agire; se avesse sa­puto gio­care a scacchi sarebbe stato un ot­timo giocatore. Sagace e ironico, con la bat­tuta sem­pre pronta, non di rado offensiva. Aggres­sivo per na­scondere, e bene, una dolce timidezza. Ed era stata pro­prio la sua malcelata timidezza a farla innamorare.

    Una domenica di fine maggio andarono a Washington, a casa di suo padre. Nick era rima­sto im­pres­sionato e infastidito dalla ricchezza del signor Taylor: la grande villa costruita al centro di un im­menso parco, il sobrio lusso anche in ogni piccolo oggetto. Deanna gli aveva parlato del padre, del suo lavoro e lui si era informato. Ma non era preparato a tanto e reagì male. Pensò al suo appartamento che po­teva como­damente stare nella cucina di quella casa; pensò a cosa avrebbe detto la gente di questa sua rela­zione. Non pensò che a Deanna, di tutto que­sto, non importava niente. Al ritorno percorsero gli oltre 170 chi­lometri senza quasi parlare. Superato il consueto traffico congestionato intorno al Potomac Mills, l’asfalto dell’Interstate 95 scor­reva sotto la guida di­stratta di un Nick nervoso, che fumava in conti­nua­zione, che accen­deva una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Da tempo vo­leva dirgli che era innamo­rata. Aspettò che il corso finisse, co­mun­que fosse andato; non voleva si potesse pen­sare che la sua rela­zione con lui l’avesse age­volata nell’ottenere quello che in realtà era solo ed esclu­siva­mente me­rito del suo impegno e della sua preparazione. Furono mesi pesanti e di soffe­renza. Superò l’esame. En­trò nella squadra del coman­dante Grasser. Il suo ufficio due porte più avanti quello di Nick. Il primo giorno da de­tective gli mandò una email: Sono innamorata di te. U2! Non è stato un caso dif­fi­cile da ri­solvere e tre smarticon sor­ridenti. Nick la lesse quando rientrò nel tardo pomerig­gio. Rispose: Arrestati i colpe­voli, complimenti. Senza aggiungere le faccine: non era capace.   

    L’aeroplano, lasciato il cielo dei diecimila metri striato dai cirri, si stabilizzò a quota ventiquattro­mila piedi pro­se­guendo regolarmente il suo volo. Hostess e steward, percorrendo gli stretti cor­ridoi con i car­relli, avevano iniziato a riti­rare i vassoi con i quali era stato servito il rinfresco, solleci­tando con cortesia chi, immancabilmente, non aveva ancora terminato. Il co­mandante, seguendo le indi­cazioni del con­trollore del traffico aereo al quale era stato affi­dato quel volo che gli chiedeva un ve­loce e anticipato cambio di quota, agendo sull’autopilota aveva impostato una lieve picchiata, ridotto i giri del motore e azionato i diruttori alari per aumentare la resi­stenza all’aria e frenare ulte­riormente la velo­cità di di­scesa per l’avvicinamento all’aeroporto. Questo suscitò per un attimo la sensa­zione di pre­cipi­tare. Volava ora, raggiunta la nuova quota, sotto un compatto strato di altocumuli che nascon­deva il sole e ap­piat­tiva, ingrigiva i colori del terreno, delle case. Continuando nella sua di­scesa, attraversò un turbolento e spesso tappeto di cumuli che dal confine fra Kansas e Missouri co­priva tutta la zona cen­tro-sud de­gli Stati Uniti occi­dentali. Per evitare che gli im­prevedibili sballotta­menti causati dalla turbo­lenza, sem­pre presente in quel tipo di nuvole, potessero causare danni ai pas­seg­geri, era stato in­serito l’avviso di restare seduti con le cinture allac­ciate; l’effetto fu di zittire anche i più loquaci. Per molti mi­nuti vola­rono dentro quella insta­bile massa d’aria che na­scondeva tutto alla vi­sta. I piloti segui­vano sui monitor le indicazioni degli strumenti elet­tro­nici che li avrebbero portati ad ap­poggiare le ruote del car­rello al cen­tro della pista 20R del Richmond International Airport. Si udì di­stintamente il rumore dei motori elettrici che esten­devano gli slat e, pro­gressivamente, i flap fino a 15 gradi, diminuendo la velo­cità dell’aereo. Il rumore secco dei carrelli fatti uscire dal loro alloggia­mento, anzi­ché tranquillizzare, creò, in al­cuni, attimi di preoccupazione. A trecento metri dal suolo la terra tornò visi­bile, pur nel gri­giore di un piovoso pomeriggio, ridando sicu­rezza ai passeggeri più tesi e pre­occupati. A pochi minuti dall’atterraggio il personale si era sistemato sugli stra­puntini, non prima di aver per­corso ancora una volta i corridoi controllando scrupolosamente che tutti fossero seduti al loro posto, gli schie­nali dritti e i tavolini chiusi. La responsabile di cabina, appoggiata alla consolle dei co­mandi audio-video, commutato su on l’interruttore del microfono, iniziò a reci­tare la consueta filastrocca:

    «Signore e signori, il comandante Alexander Young informa che stiamo per atterrare al Richmond Interna­tional Air­port. La tempera­tura al suolo è di undici gradi, l’umidità del 98 per cento. Piove. Vi in­vitiamo a ri­ma­nere se­duti ai vostri posti con le cinture allacciate fino al completo arresto dell’aeromobile. Control­late di prendere i vostri oggetti personali e di non dimenti­care niente. Nor­thwest ringra­zia di aver scelto di volare con i suoi aerei e si augura di avervi presto a bordo della sua flotta

    Gli impianti di amplifica­zione degli aerei, anche quello dell’Airbus 330 entrato in servizio da poco, non rendevano giusti­zia alla voce calda e dolce di Claudia Leendsay.

    Alla fine del volo da Los Angeles, dove era arrivata dopo quello intercontinentale da Sydney, l’aspettavano tre giorni di riposo per poi partire per Roma dove sarebbe rimasta due giorni. Era con­tenta ed entu­siasta del suo lavoro e si sentiva fortu­nata: poteva girare il mondo, non senza qualche sa­crificio. L’ultimo, il più im­por­tante, era stato Mike: se n’era an­dato perché stanco di passare le gior­nate ad aspettarla, ma lo sa­peva quando si erano cono­sciuti, quando si erano messi insieme, si ripeteva ogni volta. Scacciò subito quel pensiero pensando a Vienna, Londra, Parigi, Madrid, dove ogni volta che tor­nava scopriva qualche cosa di nuovo, di diverso, di bello. Ma era soprat­tutto Roma che le pia­ceva: l’aria di antico che ancora si respira, secoli di sto­ria che nella giovane America non ci sono. Inna­morata di Roma per quello che credeva fosse e un po’ delusa per quello che real­mente è. La prima volta che era atterrata nella Città Eterna aveva girato per il centro sto­rico rimanendo affascinata da tutto quello che vedeva. Si aspet­tava la Roma che aveva visto nei vecchi film, ogni tanto tra­smessi da Bravo Tv, popolata da gente simpatica, ilare, socie­vole. Dovette ricre­dersi: è una città, una capitale come tutte le altre. Tra­dita nel suo imma­ginario, non ha smesso di amarla benché, an­che qui, avesse dovuto difen­dersi, e non solo a parole, dalle avance di uomini in cerca solo di un’avventura, veloce e non impegnativa. No sex without love era il suo motto e a ventinove anni non l’aveva, quasi, mai tra­dito; sorrideva pensando alle avven­ture che aveva camuffato da love per giustificarsi il sex.

    In piedi vicino al portellone anteriore elargiva sorrisi ai passeggeri che stavano lasciando l’aereo. Uscito anche l’ultimo, fece le linguacce alla collega di fronte, si appoggiò con la schiena alla parete e si la­sciò lentamente scivolare fino a sedersi; si massaggiò i mu­scoli dei polpacci tesi e induriti dalla stan­chezza. Si alzò, prese la trolley, l’impermeabile sopra il brac­cio e con gli altri percorse il tunnel del fin­ger di collegamento al gate 7. Nessuno aveva voglia di parlare. Sbrigate le formalità, salì con altri quattro colleghi sul pulmino che li avrebbe por­tati alle loro case, in albergo, al lodge della Compagnia. Seduto davanti, di fianco all’autista, c’era il comandante Arthur Balth col quale aveva fatto due o tre viaggi in Oriente; con lei, nei posti posteriori, gli steward Richard, Danny e Martha, una hostess da poco in servi­zio. Lo spacco sul lato sinistro della gonna lasciava scoperta la coscia affu­solata velata dalle calze co­lor castoro; lo sguardo dello steward al suo fianco rimase fisso ad ammirare quei centimetri di pelle. Per to­gliere più lui che lei dall’imbarazzo, con un gesto na­turale coprì le gambe con l’impermeabile. Ri­chard guardò fuori del finestrino.

    Fu la prima a scendere; salutò tutti e s’incamminò veloce lungo il vialetto, dirigendosi verso la porta della casa al 1242 di Roosevelt Avenue. Le finestre aperte, la musica di Neil Diamond suonata ad alto volume, erano l’inconfutabile prova che Laura era in casa e che, di certo, stava fa­cendo le pulizie; un la­voro decisamente in contrasto con la sua personalità e il suo carattere. Se la vedeva con la tuta blu della Nike, una taglia in più . Per essere comoda, diceva. La bandana rossa in­torno alla fronte, le consumate scarpe bianche dell’Adidas, la siga­retta spenta a pen­zoloni nell’angolo sinistro della bocca.

    Laura Carlson era entrata con lei alla Northwest sei anni fa; vola sulle tratte in­terne degli States. Da due anni avevano affittato questa villetta in una zona residenziale, non distante dall’aeroporto. Gli abi­tanti erano in preva­lenza pensionati che venivano ad abitare qui anche dagli Stati confinanti per tra­scorrere la parte finale della loro vita in tranquillità prima di traslocare definitiva­mente in uno dei ci­miteri della città, con una in­giustificata pro­pensione per il Riverview Cemetery. Una bella casetta di­pinta di bianco, le imposte marrone scuro, il tetto con tegole rosso mattone e davanti il prato verde brillante. Uguale a centi­naia di altre. Tanto uguale che nei primi tempi face­vano fatica a ri­tro­varla: uscite per una passeg­giata, un po’ di jogging, perde­vano l’orientamento fra le Avenue con i nomi dei pre­sidenti e le strade che le incrociano asimmetricamente, elemosinando informa­zioni per tornare alla loro casa. Mille­duecento dol­lari al mese. Dividendo in due era l’equivalente di poco più del costo di un buco in città, da soli. C’è quasi tutto quello che serve e la breve distanza dal centro sopperiva alle po­che man­canze. Il quartiere era stato sopran­nominato Whitehair dai primi abi­tanti e quel nome era rima­sto. Gente cor­diale che, apparentemente, si fa i fatti suoi. Non avevano molte occasioni d’incontro e nem­meno le cercavano: un educato saluto, quattro parole su argomenti mai impe­gnativi o perso­nali. L’unico do­vere, l’obolo per le numerose feste che organizzavano e alle quali non ave­vano mai parteci­pato nono­stante le cortesi insistenze dei vicini; alla fine avrebbero dovuto cedere. Ogni oc­casione era buona per farli ri­trovare nei locali del centro sportivo e far baldoria. Negli ultimi tre mesi ne aveva con­tate almeno dieci.

    Appoggiò il dito al cam­panello e non lo staccò fin quando sentì la chiave girare nella serra­tura. Era l’unico modo per farsi aprire.

    «Hey baby, ben tornata» disse Laura vestita proprio lei come aveva immaginato.

    «Ciao, finito di pulire?»

    «Certo, se aspetto te.»

    «Hai sempre detto che ti piace e non voglio toglierti il gusto di farlo.»

    «Sfotti, dai. Tutto bene il volo? Quante pacche sul culo? Quante proposte di matrimo­nio questa volta? C’era un figo sul volo da Boston! Me lo sarei fatto al volo» affermò seria scoppiando subito a ri­dere. La sua risata contagiosa coin­volse anche Claudia.

    «Vedi, noi della Business abbiamo sì a che fare con degli stronzi, forse, ma di certo non ma­le­ducati come capita di trovare in turistica» disse varcando la porta trascinando la trolley sui piedi della collega.

    «Attenta, perdio!» reagì fingendosi arrabbiata, «e da quando una carezza alle chiappe è maleduca­zione, Suor Claudia

    Non gradì l’ironia e senza rispondere si avviò verso la scala. Laura la seguì fermandosi sul primo gradino: «Nervosetta? Che ti è successo: niente maschio? Capisco. Ma per te non è un pro­blema, vero?»

    Anche a questa provocazione Claudia non replicò. Entrata nella camera al piano supe­riore appog­giò la valigia sullo sga­bello in tela; si sfilò le scarpe, tolse giacca, camicetta e gonna della divisa; guardan­dosi nello specchio grande dell’armadio laccato in beige, con le mani raccolse i lunghi capelli cor­vini, li fermò sopra la te­sta lasciandoli poi scendere. Si piaceva, piaceva, era bella. Si avvicinò al vetro, toccan­dolo con la punta del naso, per schiac­ciare un minuscolo foruncolo sotto al mento. Si tolse anche l’intimo, fece un giro su se stessa: «Maledizione, sto ingrassando. Basta dolci.»

    Fece scendere l’acqua della doccia, aspettò che fosse calda, poi andò sotto il getto a lavar via odori, stanchezza e tristezza. Uscì e rimase a lungo in piedi avvolta nel morbido accappatoio bianco portato via da un al­bergo giap­ponese quando l’equipaggio, invece dei soliti Sheraton o Hilton, era stato alloggiato allo Shen Ksé Resort; complice del furto una cameriera e una mancia. Non aveva mai preso niente dagli alberghi, ma quello era troppo bello, troppo sof­fice per non prenderlo. Era rimasta due giorni da sola, rinun­ciando alla compagnia dei col­le­ghi che, sapendo della sua recente separa­zione da Mike, non ave­vano insistito lascian­dola tranquilla. Era tri­ste, lo pensava in conti­nuazione. Anche durante il volo aveva avuto momenti di assenza, inaccet­tabili per chi occupa un posto di responsabilità come il suo, "che deve essere vigile, pre­sente, esem­pio per il re­sto dell’equipaggio e infondere sicu­rezza nei passeggeri" come impone il manuale operativo. Linda, una delle assistenti, l’aveva edu­ca­tamente richia­mata. La pro­fes­sionalità, i colloqui fatti con lo psicologo du­rante i corsi di forma­zione e ag­giorna­mento, la sua forza di volontà la fecero tornare a es­sere la capo-cabina seria, attenta, prepa­rata; qualità che aveva dimostrato fin dal suo primo volo e che le avevano per­messo una bril­lante e veloce carriera.

    Tolse l’accappatoio e passò il soffio di aria calda dell’asciugacapelli su tutto il corpo per to­gliere ogni minuscola goccia d’acqua. Restò seduta sul bordo della vasca per una mezz’ora ab­bondante a co­spargere di creme idratanti la pelle rimasta troppe ore esposta all’aria secca della cabina pressurizzata. Si stese sul letto, i capelli avvolti in una salvietta. Non avevano bi­sogno di cure parti­colari: uno sham­poo al miele, una spaz­zolata. Erano tanti e sottili, lunghi oltre le spalle, fino alle scapole e con un taglio sem­plice, adatto al suo viso magro e legger­mente allungato.

    Anche per il make-up, a differenza di Laura, non usava tanti prodotti, soprattutto non co­stosi; fa­ceva i suoi acquisti solitamente nei grandi magazzini, raramente in profumeria, e com­prava quello che le piaceva, indipendentemente dalla marca o dalla moda del momento.

    Laura salì per lavarsi dopo la sudata per le pulizie; le strizzò l’occhio.

    Aperta la porta del bagno, chiese ironica: «C’è stato un diluvio o un’alluvione?»

    «Smettila. Poi ti aiuto a pulire.»

    «Già, poi. Hai visto il mio balsamo? Era qui stamattina; dove cazzo sarà? Claudia, rispondi!»

    «L’ho messo da qualche parte. È lì, cerca. Hai più roba tu di un bazar.»

    La stanchezza cominciava a farsi sentire; chiuse gli occhi; non voleva dormire, solo ri­po­sare ma il sonno prese il sopravvento. Dopo un paio d’ore fu svegliata dal volume sem­pre troppo alto dello stereo che stava suonando In the wake of Poseidon. Sorrise vedendo la leg­gera coperta che Laura le aveva steso sopra.

    «Dove diavolo trovi questi reperti archeologici che chiami musica?» urlò con un tono di sfottìo per provocarla. Era una domanda abituale perché per Claudia era un reperto qualunque canzone avesse più di dieci anni e Laura ascoltava solo quelle. Ma dal piano sotto saliva anche il profumo indecifrabile di qualche cosa che stava risuscitando dentro il forno a micro-onde.

    Si massaggiò le braccia e le gambe, con una spazzola pettinò i capelli, s’infilò i pantaloni e indossò un maglione in felpa. Ancora intontita scese la scala. Sul tavolo in cucina due tovagliette di pa­glia, tova­glioli e bicchieri di carta, posate di plastica: si fa prima a sparecchiare. Laura, in hot-pants e t-shirt, ta­gliava una impro­babile lasagna all’italiana. Si sedette accavallando le gambe, indugiò soffiando sul piatto fumante che Laura le aveva messo davanti accompagnando il gesto con una domanda: «Hai il culo girato? Da quando sei tornata non hai ancora spiaccicato una parola. O ti sei offesa per quello che ho detto prima? Se è così ti chiedo scusa, perché lo sai che io…»

    Claudia

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