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Il mio nome è aqua caliente
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E-book237 pagine3 ore

Il mio nome è aqua caliente

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Info su questo ebook

Michelangelo, un giovane chef italiano, perde in pochi giorni la cosa più preziosa che aveva e viene coinvolto suo malgrado in una serie di agghiaccianti omicidi. I sospetti sono tutti concentrati su di lui. James Malone, detective della NYPD, è sulle sue tracce...
In un turbine di avvenimenti e sentimenti contrastanti si prepara una caccia all’uomo tra Roma e New York dai ritmi serrati e dagli esiti sconvolgenti.
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2017
ISBN9788865377697
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    Anteprima del libro

    Il mio nome è aqua caliente - Claudio De Luca

    CALIENTE

    Roma

    Si svegliò tardi quella mattina, aveva fatto bagordi la notte precedente. La testa, pesante, iniziò a girare, avvertiva come una sensazione di essere su di una barca. Aveva bevuto abbondantemente e ne avrebbe pagato le conseguenze per tutta la giornata, questo lo sapeva.

    Ancora una volta avvertiva quella strana sensazione al braccio destro, come se la prestanza stesse diminuendo giorno dopo giorno. Pensava a un malessere passeggero, dovuto alla stanchezza, al troppo lavoro. Ma era ormai da tempo che andava avanti così.

    Era peggiorato.

    Massaggiandosi il deltoide andò in bagno per svuotare la vescica.

    Quel problema iniziava a preoccuparlo seriamente. Accese il telefonino e chiamò la sua amica dottoressa. «Pronto?» La solita voce squillante di lei arrivò violenta al suo orecchio, tanto che dovette allontanare la cornetta. «Ciao Manu, sono Michelangelo» la salutò «ciao Michi, scusa ma sono in motorino con l’auricolare e c’è casino» disse lei per giustificare il forte rumore che giungeva dalla strada. «Senti… ti rubo pochi minuti. Ti ricordi che ti avevo accennato di quel problema al braccio?» All’unisono con il frastuono dei motori lei rispose: « Sì, certo mi ricordo, hai ancora problemi?» «Esatto, non solo, vedo che più passa il tempo e più peggiora, quasi non riesco ad alzarlo; mi puoi prendere un appuntamento per una visita, da te al policlinico?» Domandò «Ma certo, nel pomeriggio sarò in ospedale, mi informo e poi ti richiamo.» «Grazie Manu, allora aspetto tue notizie.» «Ok! A dopo.» Si salutarono.

    Lo stava aspettando davanti al padiglione della seconda clinica medica, al policlinico Umberto I di Roma. «Ciao, allora che succede?» Parlò lei per prima, si abbracciarono e si baciarono sulle guance. «Ma che ne so, questo cavolo di braccio, sono proprio preoccupato.» Ammise lui. « Vedrai che non è nulla di grave» disse lei sdrammatizzando. «Ho parlato con il primario, ci sta aspettando, gli ho accennato del tuo problema, ora vediamo che ne pensa.» Entrarono dalla grande porta a vetri di ferro antico e svoltarono a sinistra. Un lungo corridoio con diverse persone in attesa, su sedie appoggiate contro il muro grigio e squallido di un ospedale ormai vecchio, li condusse ad un’ascensore piccolissimo. Salirono al terzo piano, andarono a destra, un altro lungo androne, questa volta vuoto, nessun paziente.

    Entrarono in una stanza piccola con una scrivania da ufficio, molto dozzinale, e un computer sul quale il professore stava lavorando. Si alzò immediatamente quando entrarono. «Molto lieto» disse e si strinsero la mano. «Allora, Emanuela mi ha accennato a un problema al braccio.» Chiese subito. «Vero!» Annuì Michelangelo. «Da un po’ di tempo avverto perdita di forza, ho difficoltà ad alzarlo e a fare certi tipi di movimenti.» Mentre parlava articolava il braccio per dimostrare quali fossero le movenze che non riusciva a fare. Il professore aveva uno sguardo grave e attento, la cosa non presagiva nulla di buono.

    Era ancora più preoccupato.

    «Dovremmo fare dei controlli neurologici.» Disse infine il dottore «Le prendo un appuntamento con un mio amico neurologo molto bravo, che però, non lavora in questo ospedale, ma al policlinico Gemelli.» Michelangelo annuiva senza più parlare, la cosa era seria.

    Il primario telefonò immediatamente al suo collega. In via del tutto eccezionale riuscì ad avere un appuntamento per il giorno dopo alle dieci del mattino.

    Apprezzando l’aiuto e la disponibilità dimostrata ringraziò il professore e insieme a Emanuela uscirono dalla stanza chiudendosi piano la porta alle spalle. Nel tragitto che li condusse al piano terra, dove si erano incontrati, non dissero nulla.

    «Vuoi che ti accompagni domani in ospedale?» Domandò lei. «Grazie, lo apprezzerei molto.» Ringraziò lui. Dopo tutto era una dottoressa.

    Saltò sulla moto e si allontanò nel traffico di Roma.

    Il neurologo Adalberto Rocchi era un uomo dall’apparenza severa. Li guidò in una stanza vuota, solo un lettino e una scrivania con qualche scartoffia sopra. «Si tolga i pantaloni e i calzini per favore.» Ordinò l’uomo. Restò soltanto con la maglietta e gli slip. Gli chiese di muovere il braccio destro e mostragli con esattezza quali fossero i movimenti per lui più difficili da compiere. Lo fece anche camminare avanti e indietro una dozzina di volte, mentre studiava attentamente i piedi e le gambe. Lo fece piegare sulle ginocchia per poi rialzarsi senza l’ausilio delle braccia, anche questa operazione gliela fece ripetere più volte. Per ultimo lo fece alzare sulle punte dei piedi e sui talloni. Scoprì che nel fare questa cosa aveva marcate difficoltà.

    Lo fece rivestire. Michelangelo non poteva nascondere la sua preoccupazione. Emanuela se ne era accorta, anche lei era preoccupata.

    «Dovremmo fare degli esami specifici.» disse il dottore sedendosi alla scrivania.

    «Cosa sospetta?» Domandò «Qualcosa di grave?» Chiese ancora. Il professore tossì, come se volesse prendere del tempo per trovare le parole più adatte.

    «Ora è inutile allarmarsi.» Iniziò, «dovremmo fare dei controlli un po’ più approfonditi: analisi del sangue, una biopsia e poi vorrei che si sottoponesse a una elettromiografia.» Spiegò il medico. Michelangelo sapeva benissimo cos’era una biopsia, anche le analisi del sangue rientrano comunque in un iter d’indagine patologica. Ma questa elettromiografia non sapeva davvero cosa fosse. E il non sapere lo agitava.

    Il neurologo vedendo il ragazzo confuso entrò più nel dettaglio, informandolo anche di quale fosse il sospetto della sua diagnosi.

    «Voglio fare delle analisi del sangue, che le prescriverò per controllare i valori del CPK: un enzima contenuto principalmente nel muscolo scheletrico, nel miocardio e nel tessuto cerebrale. La biopsia invece perché voglio studiare al microscopio il tessuto prelevato e confermare una patologia.» Emanuela e Michelangelo ascoltavano in silenzio senza interrompere, era molto esaustivo nelle spiegazioni. «Infine l’elettromiografia: è un’analisi mediante ago-elettrico dell’attività muscolare a riposo o volontaria, è lo studio della condizione nervosa motoria e sensitiva.» Concluse la spiegazione e riprese. Questo era il momento più difficile, doveva dire al paziente quale fosse il suo sospetto. Si fregò la faccia con tutte e due le mani, come se quel gesto potesse aiutarlo a trovare le parole. «Tutti questi esami ci aiuteranno a capire se la mia diagnosi è esatta. Il mio sospetto da quello che ho visto, visitandola, è che lei potrebbe essere affetto da una forma di distrofia muscolare.» Sentenziò con voce ferma. Emanuela sgranò gli occhi nel sentire quella frase, Michelangelo sembrava non aver subìto il colpo, restò impassibile, annuì e non disse nulla. Il dottore prese ancora la parola. «Chiaramente è solo un’ipotesi. E comunque ci sono diversi tipi di distrofie, più o meno gravi. Ma, non possiamo saperne di più prima di aver fatto queste analisi.»

    Certo era una brutta notizia, nonostante tutto l’aveva presa meglio di quanto pensasse, era stata più la preoccupazione di non sapere che cosa fosse. La diagnosi, certamente era spaventosa, ma ora sapeva di cosa potesse trattarsi.

    Long Island City, New York

    L’Avalon tower, era il nuovo grattacielo di quaranta piani a Long Island City, che si affacciava su Manhattan, appena al di là dell’east River. Vincenzo, che tutti ormai chiamavano Vince era nel suo appartamento al ventiquattresimo piano, godeva di una vista straordinaria, era quasi in parallelo con l’Empire State Building. Guardava fuori dalla vetrata della sua living room mentre aspettava la sua ragazza per andare a fare il brunch, dove andavano di solito. Pensò, visto che era già tardi che forse sarebbe stato meglio prenotare, per non rischiare di aspettare un tavolo disponibile.

    Dall’interfono della cucina la voce della hostess di sala chiamò: Mario line one, Mario line one…

    L’uomo brizzolato vestito da chef andò al telefono «Hallo?» «Mario, ciao, sono Vince…» «Ciao Vince, come va?» «Tutto a posto, mi puoi prenotare un tavolo per quattro, ho degli ospiti e non vorrei farli aspettare in strada, sarò li tra un’ora e mezza.» «Ok. Non ci sono problemi, parlo io con il manager, tranquillo.» Lo rassicurò. «Grazie, poi ti passo a salutare in cucina.»

    Nella cucina lavoravano dodici persone, era uno dei migliori ristoranti di New York, costosissimo ma, ne valeva la pena, rappresentava la vera cucina italiana, con prodotti fatti venire apposta dall’Italia. Era un privilegio sia lavorarci, sia mangiarci.

    «Sigfrido, muovi il culo che siamo busy, e non parlare che perdi tempo.» Mario riprese il lavapiatti dominicano, che aveva la forza fisica di un leone, ma che era svogliato e questo mandava Mario su tutte le furie. Sigfrido uomo dall’aspetto rude, sembrava uno scaricatore di porto, era gay e questo era per lo staff della cucina motivo di canzonatura e passatempo. Giancarlo, un cuoco italiano, si avvicinò a Mario, «Ti posso parlare in privato?» Domandò. Lo chef gli fece cenno di seguirlo e si avviò verso le scale alla porta d’uscita del personale, arrivati in cima, proprio di fronte alla porta, Mario si voltò e si appoggiò al muro in attesa che il cuoco parlasse. Da uomo d’esperienza aveva capito che non c’erano buone notizie in arrivo.

    «Ormai è quasi un anno e mezzo che lavoro qui.» Esordì Giancarlo. «Vorrei tornare in Italia, mi manca la mia famiglia, so di metterti in difficoltà, ma ti posso concedere il tempo di cui hai bisogno per trovare un sostituto.» Attendeva una reazione da Mario e lo guardava con aria colpevole. Mario sbuffò spazientito, non poteva certo dire di no, ma quella cosa poneva la cucina in una situazione di emergenza, bisognava sostituire un cuoco italiano e non era facile trovarne uno bravo e serio, come serviva a lui.

    Alla fine disse qualcosa: «Va bene, mi metti in difficoltà, ma non posso trattenerti, però mi devi dare un po’ di tempo, almeno un paio di mesi.» Concluse.

    Il ragazzo si tranquillizzò subito, promettendo allo chef che sarebbe rimasto il tempo necessario.

    Preoccupato si diresse verso il telefono e chiamò, Vince rispose al primo squillo. «Hallo?» «Vince, sono Mario!» Vince era sorpreso della telefonata. «Non mi dire che non c’è posto per me.» «No, no, che dici, il tavolo è riservato, no problem, quando hai finito scendi però in cucina che ti devo dire una cosa.» «Certamente, spero nulla di grave?» Si informò l’amico. «No, nulla di che, ma ho bisogno del tuo aiuto, ne parliamo dopo.» «Ok, a dopo.» Rispose semplicemente Vince.

    Come aveva promesso, Vince, dopo aver pranzato si scusò con i suoi ospiti e scese nelle cucine per andare dal suo amico chef. Mario lo vide entrare. Gli fece cenno di aspettare un secondo, stava finendo di montare un piatto: era un grande piatto rotondo, al centro aveva messo una vellutata di zucchine con adagiato un filetto di red snapper: un pesce dal colore rosa che si pesca nell’Oceano Atlantico, poi proprio al centro, sopra al pesce inserì un ramoscello di aneto come decorazione. Vince era sempre stato affascinato nel vedere la preparazione nelle cucine nei ristoranti.

    Mario si avvicinò e gli chiese di seguirlo, non gli piaceva parlare cose delicate davanti alla sua brigata. C’erano questi cuochi ispanici che erano sempre infastiditi da qualsiasi cambiamento, specialmente quando doveva arrivare una persona nuova, pensavano subito alla possibilità di venire licenziati. Mentalità assurda. Senza parafrasare arrivò subito al punto. «Una volta mi hai detto che hai un grande amico di Roma… chef che ha già lavorato qui a New York, se non sbaglio.» Domandò. «Sì!» Ammise Vince. «è vero! Lui ha lavorato qui più o meno tre anni fa ed è uno chef molto bravo, so che ha un ristorante a Roma, in società con un suo amico, ma credo di ricordare che non fosse poi così contento del suo socio.» Fece il punto della situazione. «Hai bisogno di qualcuno?» Chiese. Mario sbuffò. Era una cosa che faceva spesso. «Sì, oggi Giancarlo mi ha detto che vuole tornare in Italia, mi ha dato un paio di mesi di tempo per trovare un sostituto.» Spiegò all’amico. «Sicuramente posso chiedergli se vuole tornare, in questi giorni lo chiamo e poi ti faccio sapere.» Anche se ancora non vi era nulla di concreto, l’idea che sarebbe stato contattato qualcuno per quel posto lo faceva stare meglio.

    La sua preoccupazione più grande era dovuta al fatto che ogni volta che si assumeva una persona nuova le problematiche erano infinite; per prima cosa l’adattamento in un posto nuovo non è mai facile per nessuno, poi in un posto così busy era ancora più difficile. In più gli ispanici ti rendono la vita impossibile, la loro gelosia rendeva ancora più disagevole il suo lavoro.

    Questo era il motivo che più lo preoccupava. Iniziare da capo, cosa che già aveva fatto migliaia di volte.

    Roma

    Con mani esperte la bella infermiera introdusse l’ago nella vena del paziente. D’istinto lei lo guardò per un momento, sentendo il braccio contrarsi, aveva temuto di avergli fatto male, quindi iniziò a prelevare il sangue. I lunghi capelli neri di lei e i seni grandi attrassero la sua attenzione. I loro sguardi si incontrarono per un attimo, gli occhi erano grandi e di quel grigio tenue con delle sfumature celesti, i lineamenti del viso delicati e gradevoli. Avrebbe voluto toccarle le gote per sentire quanto fosse soffice la sua pelle, ma disse: «è soltanto una questione psicologica.» «Prego?» Chiese lei, basita, non aveva afferrato cosa intendesse l’uomo. «L’ago. Intendo l’ago. Non mi hai fatto male, è solo un condizionamento psicologico. Mi sono contratto, ma per paura, non per dolore.» Spiegò lui, dandole del tu. Nel frattempo aveva terminato il prelievo chiuse la provetta dov’era contenuto il plasma del paziente. Pose l’etichetta adesiva intorno al piccolo flacone e vi scrisse il nome. Si accorse che la ragazza era arrossita lievemente.

    Sapeva che doveva fare qualcosa, ma non aveva una buona scusa per tentare un approccio con lei. Prese dalla tasca sinistra dei jeans un suo biglietto da visita, quando lei si voltò per salutare il paziente, la invitò ad accettare il bigliettino. «Vorrei tanto che mi venissi a trovare.» disse dandole la card del suo ristorante. «Mi chiamo Michelangelo» e allungò il braccio verso di lei per stringerle la mano. Passarono due secondi, che a lui parvero due secoli, alla fine lei strinse la mano che gli veniva offerta. Entrambi avvertirono una sensazione gradevole al contatto. Lei sorrise e diventò ancora più bella, sorrise anche con gli occhi. «Piacere… Viola.» Sorridendo e con un filo di voce lui disse: «Michelangelo e Viola!» Poi con voce più decisa:«La sera ci sono sempre.» Le lasciò la mano, si voltò e usci dalla stanza delle analisi.

    La ragazza rimase senza parole, vide l’uomo andare via di spalle e si rese conto che dentro di sé stava sorridendo.

    Quello strano individuo l’aveva colpita?

    Avvertiva buone possibilità che lei sarebbe andata davvero a trovarlo, era una sensazione forte, di solito non si sbagliava.

    Ora sarebbe tornato al policlinico Gemelli per sottoporsi a un’altra visita con tutta l’équipe del professor Rocchi per fare l’elettromiografia. Ad aspettarlo c’erano cinque persone, due dottoresse, due dottori e il professore.

    Gli chiesero di spogliarsi dei pantaloni e dei calzini e di sedersi sul lettino con le gambe rivolte al pavimento. Uno degli assistenti prese lo strumento per l’elettromiografia. Una scatola di plastica con monitor e vari potenziometri per regolare l’intensità elettrica. Nella parte posteriore c’erano gli attacchi, dei conduttori sottilissimi, tipo dei fili elettrici che terminavano con aghi, che avrebbero penetrato i muscoli designati, per leggerne così le attività.

    Una delle due dottoresse iniziò l’operazione. Posizionò i primi due aghi nel polpaccio della gamba destra, quattro arrivarono a conficcarsi nella coscia lungo il quadricipite, un altro nel bicipite del braccio destro e uno ancora nel tricipite, un ultimo nel deltoide, così da coprire tutti i muscoli interessati della parte destra del paziente.

    Gli aghi erano così sottili che Michelangelo non avvertiva nessun dolore, come al solito solo all’inizio era preoccupato, per la paura incondizionata nel farsi bucare la pelle.

    Tutto era pronto, potevano avviare l’apparecchio. Immediatamente gli aghi presero a muoversi mandando piccole scosse elettriche nei muscoli e stimolare così la loro attività. Avvertiva solo un piccolo fastidio, ma nulla di che. Pensava peggio. Sarebbe durato circa trenta minuti, di conseguenza dopo una quindicina di minuti avvertì il primo stress muscolare. Iniziava a dare fastidio.

    «Ora facciamo un altro piccolo esame e abbiamo finito.» Spiegò il professor Rocchi. «Mi perdoni se la sto martoriando, ma è fondamentale.» Michelangelo annuì senza dire nulla.

    L’assistente prese un singolo ago, lo introdusse con decisione in fondo al bicipite dello stesso braccio. «Ora faccia il movimento come se volesse mostrarci il bicipite.» Disse il dottore esprimendo a gesti ciò che avrebbe dovuto fare il paziente e aggiungendo: «Questo le farà un po’ male… mi spiace.»

    Nel medesimo momento in cui Michelangelo contrasse il muscolo avvertì un dolore lancinante. Come se il corpo estraneo inserito dentro di lui, aumentasse di volume, causando anche un grande bruciore. Tuttavia strinse i denti resistendo a quella tortura. La stessa cosa venne ripetuta anche nei quadricipiti.

    Quando uscì dall’ospedale era esausto, sentiva le gambe gonfie e stanche e l’astenia che provava al braccio parve aumentare.

    Solo il pensiero di Viola, lo faceva sentire bene.

    «Pronto?» Rispose Claudia al numero anonimo che era apparso sul suo telefonino. «Ciao Claudia sono io, ti chiamo dall’ospedale.» Viola le spiegò il perché dell’anonimo. «Senti, ci vediamo stasera? Ti devo portare in un posto, poi ti dico.» Disse eccitata. La cosa non sfuggì all’amica, che subito chiese spiegazioni. «Hai una voce strana, mi spieghi che succede?» «Ti vengo a prendere alle dieci, mi devi accompagnare da una parte.» L’amica annuì e riagganciarono.

    Erano quasi le undici, le luci soffuse e la tanta gente che affollava il locale, rendevano l’atmosfera giusta in quel ristorantino che, dopo la cena diventava un lounge, con buona musica e gente per bene. Il bancone come sempre era pieno, chi stava seduto, chi in piedi, quasi tutti con un drink in una mano. La bartender sembrava volasse dietro il banco bar. Ad aiutarla c’era Emiliano uno dei due proprietari, altre due ragazze servivano ai tavoli. Tuttavia c’era ancora qualcuno che stava mangiando. La cucina avrebbe chiuso alle undici, così da permettere anche un servizio più rapido, trattandosi di soli drink. Era venerdì, la notte era ancora giovane, sarebbe entrata altra gente. Una delle due ragazze che erano appena entrate si stava guardando attorno nervosamente, stava cercando qualcuno.

    Chiese all’amica di seguirla e si avvicinarono al banco bar.

    «Ditemi?» Chiese il ragazzo al di là del bancone. «Ciao, sto cercando Michelangelo» Disse

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