Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'amore al tempo del telefono fisso
L'amore al tempo del telefono fisso
L'amore al tempo del telefono fisso
E-book174 pagine2 ore

L'amore al tempo del telefono fisso

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un’avvincente, logorante e impetuosa storia d’amore nell’Italia del secondo Novecento, un racconto ricco di pathos che fa rivivere, in chiave contemporanea, le emozioni del capolavoro di Marquez, L’amore al tempo del colera. La vita di un uomo, i suoi ideali, le sue passioni, il suo “amore malato”, che s’intrecciano indissolubilmente con le vicende politiche e sociali del suo Paese, vengono narrati alla giovane nipote da un anziano psichiatra, Rodolfo Roggeri, nel corso di una vacanza estiva in un borgo medioevale dell’appennino tosco-emiliano. Quando l’amore diventa ossessione, quando diventa “malato”? Che senso dare ai “segni del destino” che il protagonista del romanzo crede di cogliere, crede capaci di indicargli la “terapia efficace” per guarire dalla malattia che gli ha segnato la vita? Attraverso un uso sapiente ed elegante della parola scritta, l’autore, con un’analisi acuta e al tempo stesso impietosa della psiche umana, prende per mano il lettore e lo accompagna nell’esplorazione delle pieghe del cuore e della mente. 
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2017
ISBN9788856786811
L'amore al tempo del telefono fisso

Correlato a L'amore al tempo del telefono fisso

Ebook correlati

Narrativa letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'amore al tempo del telefono fisso

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'amore al tempo del telefono fisso - Aldrigo Grassi

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-567-8681-1

    www.gruppoalbatros.com

    Libri in uscita, interviste, reading ed eventi.

    A Daniela

    Prologo

    Quell’angolo di Appennino, protetto da selve e da franosi crinali, dolcemente blandito di giorno dal fruscio del bosco e la notte dalla monotona nenia dei grilli e dagli striduli richiami della civetta, era diventato il suo provvidenziale rifugio in quella torrida estate che ancora stava arroventando città e campagne.

    Dalla sua comoda, ma ingombrante poltrona, sistemata proprio di fronte a una piccola finestra, squadrata tra le pietre di vetusti muri, nella notte di luna piena l’anziano padrone di casa poteva distinguere, tra le foglie di una quercia secolare, appena al di sopra degli sconnessi tegoli del vicino palazzotto, il nero profilo dei monti e intravedere uno spicchio della vallata; erano gli ultimi giorni di agosto e, se il tempo fosse cambiato come preannunciavano le più aggiornate previsioni meteo, se finalmente fossero arrivati i tanto agognati temporali, nel giro di pochi giorni sarebbe stato riaccompagnato in città.

    Da tre anni, da quattro estati ormai, da quando un colpo apoplettico gli aveva tolto per sempre la forza e gran parte della sensibilità del braccio e della gamba sinistra, la vita di quel vecchio signore aveva subito un brusco, radicale cambiamento: era stato gioco forza per lui cercare di adattarsi a quella nuova condizione, accettando la definitiva perdita di una parte non certo marginale della propria autonomia. Anche se, per sua fortuna, l’ictus aveva lasciato indenne il linguaggio e, soprattutto, non aveva minimamente intaccato la sua lucidità mentale, la memoria, le sue capacità di concentrazione, quelle, per intenderci, che gli specialisti definiscono come le funzioni cognitive, si era di fatto ritrovato molto meno libero, e dio solo sa che cosa avesse significato, nella sua vita, la libertà.

    Un’ulteriore, non marginale sofferenza gliel’aveva provocata la consapevolezza che quella sua malattia avrebbe costretto altri a occuparsi di lui, a doversi far carico di non indifferenti compiti assistenziali; il convivere con questo pensiero, per un uomo che del non dipendere da nessuno s’era sempre fatto un punto d’onore, non l’aiutava certo ad affrontare con serenità le limitazioni che quella sua permanente infermità comportava.

    Ma tant’è, in fondo avrebbe potuto anche ritenersi fortunato, se era vero, e sicuramente lo era, che fino ai settant’anni (ne aveva da poco compiuti settantaquattro) la buona salute lo aveva sempre assistito e gli aveva consentito di affrontare, con l’intelligenza e la tenacia che certo non gli facevano difetto, le prove più ardue della vita, nel segno di quello che riteneva essere il bene più prezioso, la libertà di pensare e di agire; che ringraziasse il cielo, dunque, e che evitasse di scaricare i suoi ricorrenti malumori su chi, come il suo unico figlio, si stava adoperando, magari a modo suo, ma certo con tanta buona volontà, per rendergli meno complicata quella sua ultima stagione.

    Rodolfo Roggeri, così si chiamava quell’anziano signore, era un uomo che, forse ancor più dopo quel grave malanno, suscitava negli interlocutori un istintivo atteggiamento di rispetto, rispetto che in taluno poteva financo trasformarsi in soggezione, senza però mai tradursi in distaccata freddezza; in questo lo aiutava il suo timbro di voce, non scalfito né dagli anni, né dalla malattia, nervoso e sbarazzino come quello di un bambino, ma, al tempo stesso, caldo e avvolgente. Anche i suoi occhi scuri, sormontati da sopracciglia folte, ma ancora ben disegnate, quando, dietro le lenti chiare, si socchiudevano appena, forse un po’ sornioni, ma senza nulla di altezzoso, contribuivano a trasmettere a chi gli stava di fronte il senso di una presenza partecipe, attenta e per nulla supponente.

    Nonostante la forzata immobilità, aveva un fisico ancora asciutto, le spalle solo leggermente incurvate; i capelli, bianchissimi, con il passare degli anni si erano fatti radi, ma erano sempre ben curati e mantenevano ancora una parvenza di riga, a sinistra, come si usava con i maschietti di una volta; aveva un bel nasone, questo sì, con gli occhialetti, spesso inforcati a metà, che lo facevano solo un poco meno appariscente; una barbetta, candida e sottile, incorniciava il volto allungato, neppure troppo grinzoso, solcato, sulla fronte spaziosa, da due profonde rughe.

    Le sue mani avevano dita lunghe e affusolate, quelle della mano destra con unghie rosee e sottili, con la pelle del dorso che solo per qualche macchia di vitiligine di troppo si sarebbe detto essere quella di un vecchio; anche se era ormai costretto a servirsi solo di quella mano (la sinistra la teneva di solito inerte sul più vicino sostegno, o, solo per vezzo, sul pomello di avorio intarsiato di un inutile bastone), continuava ad accompagnare la sua conversazione con una gestualità elegante, vivace e accattivante insieme, che si sposava naturalmente con il fascino della sua voce e del suo sguardo.

    In quel borgo, che affondava le proprie radici nel tardo medioevo, con brandelli di mura e ruderi di bastioni soffocati dall’edera, con quelle poche case solo in parte restaurate, senza violarne la storia, con gli archi sottili su ripide viuzze dall’acciottolato sconnesso, Rodolfo Roggeri era capitato quasi per caso trent’anni prima e ne era subito stato conquistato.

    Aveva come d’incanto rivissuto, tra l’austera ruvidezza di quelle pietre, lo stesso rassicurante senso di paterna, atavica protezione che aveva profondamente assaporato nel cuore di vecchie città, come nelle stradine dell’antico ghetto di Bologna o tra i vicoli del centro medioevale di Pavia.

    Grazie a una serie di concomitanti, fortunate circostanze, in poco tempo era riuscito ad accaparrarsi, a un prezzo ragionevole, quella casa, ricavata in una porzione di un edificio solo in parte ristrutturato, e negli anni successivi, grazie a un amorevole lavoro di restauro, ne aveva fatto una più che confortevole dimora dove trascorrere parte dell’estate, ma non solo.

    In quelle ore della notte d’agosto, nella stanza accanto, tre gradini più sotto, nell’oscurità attraversata da un tremolante chiarore, poteva intravedere, di spalle, la sagoma sottile di una giovane donna, assorta come quella di chi è intento alla lettura; solo di tanto in tanto gli pareva di udire l’eco della sua voce, un miscuglio di tenui suoni, più che di parole, che gli giungevano come indecifrabili frasi.

    Era Elisa, un’altra Elisa! era stata l’esclamazione che il neo-nonno Rodolfo si era lasciato sfuggire quando aveva appreso il nome che sarebbe stato dato alla sua prima nipote, la primogenita di suo figlio Martino, che, tanti anni prima, se n’era andato in Danimarca, all’Università di Aarhus, con un contratto di ricerca; era stato proprio in quella città che Martino aveva conosciuto Britt, una bella ragazza danese che lavorava nel suo stesso istituto, la donna che avrebbe sposato e che sarebbe diventata la mamma di Elisa.

    L’adorata nipote, che aveva da poco compiuto i ventitré anni, si era offerta di passare una quindicina di giorni di quell’estate con lui, con nonno Rudi, con l’anziano professore, per fargli compagnia certo, ma anche, molto più prosaicamente, per badarlo, determinata peraltro a ritagliarsi il tempo necessario per completare la sua tesi di laurea, alla quale, appunto, stava lavorando in quelle ore notturne.

    Era bionda, Elisa, aveva gli occhi dell’azzurro del cielo di montagna al tramonto nelle terse giornate di settembre, proprio del colore che Rodolfo avrebbe voluto fossero gli occhi della figlia che aveva vanamente tanto desiderato.

    La giovane sedeva immersa nella penombra dell’ampia cucina, dominata da un imponente camino rinascimentale, sormontato da un poderoso blocco di pietra con incisa una data, MDXV.

    Forse era stato proprio quel camino che aveva definitivamente conquistato il nonno, che l’aveva convinto ad acquistare quell’antica dimora; gli aveva infatti richiamato alla memoria, con la sua maestosa e severa fattura, un altro camino, solo di qualche decina d’anni più giovane, quello che troneggiava nella Sala lettura del prestigioso collegio in cui aveva trascorso gli anni dell’università, lo stesso collegio sulla cui facciata il neo-rivoluzionario Rodolfo, a dispetto della tradizione ultra-cattolica dell’istituzione, aveva osato, mezzo secolo prima, con l’aiuto di un manipolo di compagni, fare sventolare nientemeno che una fiammeggiante bandiera rossa.

    Aveva sempre serbato un gran bel ricordo, Rodolfo Roggeri, di quegli anni e ancora, prima della malattia, se gliene capitava occasione, non disdegnava di fare anche solo una breve visita al suo vecchio collegio, giusto per… rinfrescarsi la memoria dei bei tempi dell’università.

    Elisa continuava a essere molto concentrata sul suo lavoro, nonostante l’ora tarda e il disturbato collegamento satellitare con i laboratori dell’Università di Seattle; era intenta a verificare, una per una, le conclusioni della sua tesi di laurea, confrontandole con i risultati riportati dalle più recenti ricerche evidence-based e stava controllando con i colleghi americani il grado di affidabilità statistica di alcune tabelle.

    Si era iscritta quattro anni prima a un corso universitario, Psicologia sperimentale, che era noto per la serietà, e la severità, dei suoi insegnanti, per il rigore scientifico e per gli studi nel campo della ricerca di base. Lo stesso titolo (ancora provvisorio) della sua tesi – Il ruolo dei neurotrasmettitori del sistema limbico nelle alterazioni dello stato di coscienza e nella compromissione della critica e del giudizio: dagli stati d’innamoramento alle sindromi deliranti – le era stato proposto proprio perché l’argomento faceva parte di una delle aree di ricerca che costituivano il fiore all’occhiello dell’istituto, da sfoggiare nei più prestigiosi meeting scientifici.

    No, non aveva chiesto consiglio al nonno quando aveva optato per quella disciplina universitaria, ma il nonno era stato una delle prime persone a cui aveva comunicato la sua decisione: era del resto sicura che, da psichiatra illuminato e, al tempo stesso, sempre critico verso il conformismo di molti giovani nella scelta della facoltà, l’avrebbe approvata e non si era affatto sbagliata.

    Con nonno Rudi per primo, invece, si era consultata al momento di accettare quella tesi e non aveva ancora dimenticato il moto di sorpresa, lo sbalordimento, a stento trattenuto, del nonno, quando gli aveva proposto quel titolo. Ma si era subito ripreso, l’ancora battagliero professore, di più, l’aveva decisamente incoraggiata, seguendo, attento e curioso, quanto Elisa gli spiegava sugli obiettivi e sulla struttura generale di quel lavoro che si preannunciava molto impegnativo. Certo, nei mesi successivi, quando era capitato alla nipote di leggergli passi della tesi o di chiedergli consiglio su aspetti specifici, nonno Rudi si era trovato in qualche caso a mal partito, essendo le sue nozioni professionali in quel campo ormai datate, risalenti a molti anni prima, a quando nei simposi scientifici si discuteva ancora dei siti cerebrali della produzione delle endorfine e del ruolo dei recettori dopaminergici e serotoninergici, però, però…

    Non aveva allora voluto, o forse potuto, il professor Roggeri confessare alla nipote che più volte, nella sua lunga carriera professionale, era stato tentato dall’idea di approfondire proprio il significato, la ragione di esperienze soggettive, apparentemente così lontane tra loro (come, appunto, quelle di chi viene colpito da un grave disturbo delirante e quelle di chi vive l’esaltante sconvolgimento emotivo tipico degli stati d’innamoramento) che nella tesi di Elisa venivano analizzate e messe a confronto. Quel titolo non solo gli aveva richiamato alla mente lontani ricordi dei suoi studi classici (come non pensare al senno di Orlando, perso per amore di Angelica, emigrato sulla Luna e recuperato dall’ardito volo di Astolfo in groppa all’Ippogrifo?) e di sconvolgenti esperienze di vita confidate da suoi pazienti, ma aveva anche riaperto in lui ferite che s’era illuso fossero ormai cicatrizzate.

    Riflettendo a lungo, e meno tumultuosamente, nei mesi successivi sulla scelta di Elisa, sul significato che stava assumendo per lui la preparazione di quella tesi, Rodolfo Roggeri aveva finito per convincersi di dover accettare la sfida rappresentata da quella sorta d’involontaria provocazione; aveva così deciso che, se si fosse presentata l’occasione, e il loro soggiorno montano di fine estate certamente lo era, la sua consulenza alla nipote sarebbe stata, per così dire integrata, arricchita dal racconto di una storia che nessuno ancora conosceva, della storia che aveva segnato indelebilmente la sua vita.

    Perché e come consegnarla a Elisa?

    Per il nome che portava, per il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli, ancora per la casuale assegnazione di quella tesi o, addirittura, per saggiar le attitudini della nipote anche nel campo della psicologia clinica? Per nessuna, in particolare, di queste forse un po’ stravaganti, ma non del tutto astratte ragioni; alla base della sua decisione c’era stata invece la convinzione, o forse solo la speranza, che quella giovane donna avrebbe potuto diventare la migliore, la più degna depositaria di segreti altrimenti destinati a rimanere per sempre tali.

    Infinite volte si era chiesto come avrebbe potuto confidare a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1