Scrittura nuragica?: Storia, problemi e considerazioni
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Info su questo ebook
Per illuminarne l’importanza, l’Autore, semplice cultore della materia, ha avvertito necessario proporre questo saggio, preoccupandosi di presentarlo ai lettori con l’avallo di una voce dell’archeologia (grazie alla d.ssa Caterina Bittichesu).
Sono ricapitolati gli elementi in favore di un uso della scrittura in Sardegna sin dal nuragico e le resistenze alla considerazione dei reperti proposti, quando estendere le indagini scientifiche potrebbe portare a titoli senza punti interrogativi. Si guarda soprattutto ai reperti con scrittura alfabetica, limitandosi a considerarla indecifrata come altre coeve nel Mediterraneo (alle quali sembra ormai comparabile anche per l’estensione del corpus). Seguono considerazioni e domande rivolte, con il conforto dell’antropologo Fiorenzo Caterini, in particolare ai nostri intellettuali.
Scrittura nuragica? Andiamo a vedere.
Dal libro emerge un quadro completo ed equilibrato dello stato della ricerca in questo ambito.
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Anteprima del libro
Scrittura nuragica? - Francesco Masia
Francesco Masia
Scrittura nuragica?
Storia, problemi e considerazioni
(nel quarto anno dalla datazione
della navicella di Teti)
ISBN 978-88-7356-927-5
Condaghes
Indice
Dedica e citazione
Premessa dell’Autore
Introduzione, di Caterina Bittichesu
Imbarcazioni, rotte e rotture dei paradigmi
Materia e proposito
Contesto
La prova
Alcuni tra i casi, invece, sfortunati
Per continuare a discuterne
Riflessioni finali
Postfazione, di Fiorenzo Caterini
Immagini
Appendice
L'Autore
La collana Archéos
Colophon
a chi non sappia che il segno nuragico del pugnale a elsa gammata
si trova anche in una scritta certificata del IX-VIII secolo a.C.
su una navicella nuragica realizzata nel cuore della Sardegna
e a chi non veda cosa questo sembri iniziare a dirci…
«Studiate perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.»
Antonio Gramsci, da L’Ordine Nuovo
Premessa
Parabola del radiologo e dell’intruso. Immaginiamo un radiologo intento a stilare il referto di una risonanza magnetica. E immaginiamo, per capire ciò di cui andremo subito a parlare, che sia lì con lui il figlio della paziente, che chiameremo l’intruso
. Il radiologo scrive, poniamo, che le immagini sono sostanzialmente invariate rispetto all’esame precedente; e l’intruso (per quanto sembri assurdo, ma abbiamo detto che ci serve come esempio) obietta che quelle lesioni, a guardar bene, sono variate di numero e anche di dimensioni. Il radiologo potrebbe puntualizzare di sapere bene lui se quelle variazioni siano da interpretarsi significative. Comunque continua a scrivere il referto, senza evidenziare nulla di rilievo, finché l’intruso obietta che l’internista aveva messo per iscritto, nella sua richiesta al radiologo, l’indagine accurata di un certo organo, mentre con la risonanza eseguita non si è differenziato lo studio di quell’organo rispetto ad altri distretti (non si è ridotto, per quell’organo, lo spessore dei tagli
). Il radiologo potrebbe un’altra volta mandare a quel paese l’intruso, offeso per l’attacco alla sua professionalità. E così, ancora, il radiologo potrebbe esprimere la sua ipotesi diagnostica rispetto alle lesioni evidenziate, e l’intruso potrebbe obiettare che quella ipotesi contrasta con la sintomatologia (descritta nella cartella clinica che accompagna la paziente), e che l’aspetto di quelle lesioni imporrebbe l’uso del mezzo di contrasto e di una visualizzazione particolare (concessa dall’apparecchio) per una diagnosi differenziale con un’altra condizione ammissibile e meglio compatibile con la sintomatologia (pronto a citare recenti pubblicazioni dove tali raccomandazioni sono formulate). Difficilmente il radiologo si tratterrebbe, lungo questo confronto, dal chiedere «Ma chi è il radiologo, lei o io? E lei che cosa fa nella vita? Perché non si occupa, meglio, del suo campo?», ottenendo magari in risposta «Il radiologo è lei, io insegno matematica, ma mi interessa la salute di mia madre».
Delle diverse morali che si potranno trarre da questa parabola, vorrei evidenziarne almeno una.
È certamente comprensibile che gli archeologi in Sardegna giungano a essere irritati dalle invasioni di campo di tantissimi appassionati, più o meno (im)preparati, che troppo facilmente squalificano il loro lavoro e non di rado li accusano di condizionamenti accademici, politici o, se va bene, culturali, in ragione dei quali occulterebbero o sminuirebbero le prove già sufficienti, secondo molti appassionati, a sancire una talassocrazia sarda nell’Età del Bronzo.
Prendiamo, però, il radiologo di cui sopra, e immaginiamolo ora in una cena tra medici che si lamentano delle pretese di certi pazienti quanto a ottenere prescrizioni di cure attinte dalle rubriche sulla salute nei settimanali. Ecco, sarebbe irresistibile per lui la tentazione di mettere in quel calderone il nostro intruso, l’insegnante di matematica, il figlio della signora della risonanza magnetica di quella mattina. E otterrebbe certamente un grande effetto sulla discussione («Pensate che stamattina un insegnante di matematica voleva dettarmi il referto della risonanza della madre...»), confermando i colleghi nell’idea che non c’è più religione
. Otterrebbe anche, forse, di rubricare lui stesso quell’episodio semplicemente tra gli aneddoti sulle stramberie degli utenti. Se quella mattina, comunque, gli avesse fruttato solo questo, il nostro radiologo avrebbe perso l’occasione per mettere a frutto dell’altro: anche chi non sia un tuo collega, ma sia mosso dall’interesse per qualcosa che gli sta a cuore, se agisce nel rispetto della tua disciplina, senza paralizzarsi nello sterile ossequio verso il tuo ruolo, potrebbe rappresentarti qualcosa di utile.
Francesco Masia
P.S. Immagina cosa potrebbe rappresentarti chi un titolo spendibile lo abbia.
Introduzione
Il saggio del dott. Francesco Masia, un neuropsichiatra evidentemente aggiornato sulla questione scrittura nuragica
, è dedicato a chi ignora che la nota navicella fittile scritta di Teti, già ritenuta un falso da alcuni studiosi, sottoposta a indagini archeometriche della termoluminescenza è stata ascritta all’VIII-IX sec. a.C. Alle analisi compositive l’argilla del reperto è risultata assolutamente del posto, una zona montana all’interno della Sardegna.
La barchetta di Teti, recante evidenti segni di scrittura antecedenti alla cottura (tra i quali spicca il pugnaletto a elsa gammata, segno-simbolo della cultura nuragica), non è quindi un falso, ma un reperto sardo autentico.
La certificazione scientifica della navicella è di grande importanza perché sostiene la tesi che anche i Sardi, al pari di altri popoli mediterranei e mediorientali con i quali avevano stretto relazioni di natura economica e culturale, avevano adottato un sistema scrittorio, conformandolo alle esigenze della loro cultura, con molte probabilità prima dell’arrivo dei Fenici sui litorali dell’Isola.
Con il suo studio meticoloso e puntuale, l’Autore evidenzia le contraddizioni e le zone d’ombra che ancora limitano la completa conoscenza della Civiltà Nuragica, una delle civiltà più originali e affascinanti della storia dell’umanità.
Le ricerche e gli studi degli ultimi tempi hanno tuttavia determinato lo sgretolamento di alcuni dogmi, come l’idea che i cosiddetti Nuragici non conoscessero la grande statuaria né andassero per mare, e quest’ultimo sembrava uno dei motivi per cui non sarebbero potuti pervenire a un sistema di scrittura.
Gli studi sulle navicelle della Depalmas e di altri Autori, i numerosi reperti di fattura nuragica rinvenuti, a Occidente, presso le coste meridionali della Spagna (a Huelva) e, nel versante orientale, a Creta, a Cipro e nella Costa Siriaca, attestano ancora una volta come la centralità della Sardegna nel Mediterraneo abbia facilitato i rapporti e gli scambi fra i Nuragici e le popolazioni del grande mare, anche là dove i Fenici non avevano ancora lasciato segni del loro passaggio. Gli scavi di Monti Prama e i suoi guerrieri, infine, hanno definitivamente chiarito che i Nuragici, abilissimi nel plasmare artistici bronzetti, erano altrettanto esperti nella scultura di grandi statue.
L’ultimo dogma da abbattere resta tuttavia la feniciomania
che vede, a torto, i Nuragici subalterni dei Fenici. Ancora oggi nei libri di testo delle scuole dell’obbligo (e non solo) si legge che i Nuragici erano illetterati e che la scrittura è stata portata in Sardegna dai mercanti fenici che iniziarono a stanziarsi nei suoi approdi sud-occidentali dall’VIII secolo a.C. E ancora, gli abili costruttori di nuraghi, pozzi, fonti sacre e tombe, scultori e artigiani creativi, conoscitori dei segreti della marineria, secondo la scienza ufficiale non hanno mai raggiunto lo stadio urbano: le città costiere sono state fondate dai Fenici e la stele di Nora è quindi la più antica testimonianza della loro presenza in Sardegna.
Eppure in origine Nora era un villaggio nuragico, lo attestano il pozzo nuragico sacro, visibile nei pressi delle rovine delle Terme a Mare
romane, e i manufatti d’importazione micenea rinvenuti, databili alla piena età nuragica. Allora perché non rimettere ufficialmente in discussione l’antichità della stele di Nora e verificarne scientificamente la datazione? E perché non sottoporre alle indagini archeometriche della termoluminescenza i due cocci graffiti di Orani, definiti dal Lilliu nuragici
, che mostrano due Tanit accompagnate da segni che si ritrovano anche nella stele di Nora?
Sarebbe bene riconsiderare alcuni problemi antichi con occhi nuovi, alla luce dei nuovi ritrovamenti, dei nuovi studi e dei nuovi strumenti di datazione, superando resistenze e divisioni.
La navicella di Teti resta, per il momento, il solo documento con scrittura offerto alla Scienza. Si spera che si sottopongano ad analisi archeometriche e compositive, in primo luogo la termoluminescenza, oltre ai cocci di Orani (con la speranza che siano ben conservati) anche gli altri documenti nuragici scritti, sia quelli restituiti dagli scavi scientifici e ancora custoditi nei magazzini della Soprintendenza, che quelli già esposti nei musei dell’Isola, per verificarne l’autenticità e il luogo di produzione. Mi riferisco al coccio di ceramica con evidenti segni di scrittura ritrovato nel corso di scavi archeologici presso il nuraghe Alvu di Pozzomaggiore, alla famosa anfora cananea scritta di S’Arcu ‘e Is Forros (Villagrande Strisaili) e al coccio (mi auguro ancora esistente) rinvenuto oltre 30 anni fa dall’archeologo Antonello Costa in località Sa Serra ‘e sa Fruca, presso Mogoro, sul quale lo studioso assiriologo prof. Pettinato ravvisò la presenza di segni cuneiformi di tipologia ugaritica.
Non vanno trascurati inoltre i documenti fondamentali esaminati dal prof. Sanna, studioso delle scritture arcaiche fin dai lontani tempi dell’Università, che ha al suo attivo lo studio di oltre trecento reperti nuragici scritti e diverse pubblicazioni.
Ci si aspetta che la Scienza ufficiale arrivi a emettere sulla scrittura al tempo dei nuraghi un pronunciamento aggiornato che sia scientificamente documentato e finalmente scevro da pregiudizi, non perché i Sardi debbano esaltarsi (sarebbe ridicolo!) ma perché, soprattutto i giovani che si avvicinano alla conoscenza della Cultura della propria Terra, conoscano compiutamente la vera storia millenaria di coloro che convenzionalmente chiamiamo Nuragici.
Va quindi superata la proverbiale separatezza dei Sardi,
d’ostacolo ad accettare le sollecitazioni dei cosiddetti intrusi
(per usare la definizione dell’Autore) anche quando questi sono dotati di competenze specifiche e si propongono correttamente. Ciò che arriva dall’esterno del mondo accademico non va, per definizione, buttato alle ortiche; e non si tratta solo delle segnalazioni di numerosi siti archeologici da parte di non addetti ai lavori (siti che, agli occhi degli studiosi, si sono rivelati tasselli importantissimi per la conoscenza della nostra Storia).
Anche le ricostruzioni fondate su una mole di studi faticosi, eseguite da studiosi indipendenti e preparati, vanno considerate dagli Accademici con obiettività e non scartate solo perché forniscono interpretazioni divergenti. Quando poi la ricostruzione non immediatamente condivisibile
viene fatta da studiosi rigorosi, di grande spessore culturale e di provata onestà intellettuale, come il prof. Sanna, penso sia doveroso accettarne il confronto e la collaborazione.
Al dott. Masia va il mio ringraziamento per aver messo in evidenza, e scrupolosamente documentato, le nostre tante incoerenze e per aver sollevato l’annoso problema della dovuta valutazione scientifica dei documenti nuragici scritti, tramite i quali avvicinare finalmente risposte che non siano più tacciabili di pregiudizio nei confronti di un aspetto importante della Storia sarda, ancora poco considerato: quello della scrittura dei Nuragici.
Caterina Bittichesu
Imbarcazioni, rotte e rotture dei paradigmi
In origine il mio intento era scrivere poche pagine, nette e lineari, sul dogma dell’inesistenza di una scrittura nuragica, senza diffondermi troppo oltre la storia della navicella di Teti (fig. 1 a, b, c). Poi i rami si sono moltiplicati e con essi il peso. Mi sento allora di indirizzare subito chi voglia degnare solo il nocciolo di questo scritto al capitolo La prova
(trascurando, anche lì, tutte le note). Il resto, se poi vorrà, sarà qui ad aspettarlo.
Non ho saputo trascurare anzitutto quel che sembra il definitivo sgretolarsi, negli ultimi mesi, di un altro dogma che da sempre si è accompagnato e sostenuto con quello dell’inesistenza della scrittura: i Nuragici non navigavano. Il fatto che non navigassero stava anche a spiegare perché non avessero raggiunto l’uso della scrittura; e giustificava la liceità di