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I figli dei coralli
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I figli dei coralli
E-book376 pagine5 ore

I figli dei coralli

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Info su questo ebook

Yetau è la giovane eroina che si unisce a Ramì, tormentato ricercatore di mondi antichi. Bangi è il suo amico lupo che la segue e protegge. Sono dotati di misteriosi poteri e c’è più di un sentimento che li accomuna: la lotta per la libertà contro una tirannide disumana e crudele, la nascente visione di un Dio infinito che rimane inevitabilmente indefinito e una premonizione che finalmente rivela il mistero di origini primordiali. La loro missione è dettata da una legge interiore che li rende invincibili e la loro forza è combattere senza sentirsi guerrieri: con la necessaria

durezza, ma senza smarrire la compassione, spinti solo da una necessità improrogabile di giustizia.

Sanno di essere minuscoli granelli nell’universo, ma anche immensi nell’abbraccio che li accompagna lungo il viaggio della vita.

I Figli dei Coralli, sequel di Eterni per poco, è un romanzo simile a carta moschicida: cattura senza permettere di liberarsi. L’autore, infatti, riesce a creare un nuovo mondo, in un nuovo tempo, talmente ricco e variegato, da sembrare quanto mai vero e reale per tutti i lettori che vi verranno immediatamente catapultati.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2018
ISBN9788827815915
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    Anteprima del libro

    I figli dei coralli - Franco Mac Rìben

    633/1941.

    PREFAZIONE

    Questa affascinante storia affonda le sue radici nelle vicende di una nuova umanità composta dai grigi, chiamati così per via della loro carnagione priva di pigmento. A costoro si accompagnano sulla Terra i colorati, gli ultimi superstiti di una civiltà ormai scomparsa.

    Luna e Yetau, le due figlie nate dall’amore del colorato Miko e della grigia Mya, rappresentano una nuova razza: i corallini. Ma non si tratta solo di una razza per così dire ibrida, semplice miscuglio genetico di due DNA differenti, i corallini sono persone dotate di poteri particolari e peculiari. Luna, la primogenita, ha misteriose doti curative, mentre Yetau, la più piccola, è in grado di comunicare con gli animali. Anche le belve più selvagge e pericolose diventano docili e mansuete al suo cospetto.

    Qui comincia una nuova storia da narrare, la storia che ci mostra una nuova epica battaglia, un altro avventuroso viaggio e nuovi personaggi di cui innamorarsi.

    I Figli dei Coralli è un romanzo quasi difficile da collocare a livello di genere letterario. Pur essendo chiaramente un romanzo di fantascienza, pare avere al suo interno gli elementi del romanzo avventuroso ottocentesco e alcuni tratti tipici dei romanzi di formazione.

    Questo avviene perché i temi trattati, seppure in un contesto fantastico e futuristico, sono universali: il desiderio di libertà, la ricerca della propria identità, delle proprie origini, la voglia di giustizia e la sete di vendetta verso i gravi e grandi torti subiti.

    I Figli dei Coralli è quindi un romanzo che parla a tutti, e lo fa con le qualità di una storia che tiene incollato il lettore alle pagine.

    Le vicende di Luna e Yetau si intrecciano a doppio filo con quelle di un ribelle, il giovane e affascinante Nazar Kraj, e del tormentato Ahron Ramì. Il primo, grigio eta, innamorato di Luna e ricambiato. Il secondo, figlio di Vento e Fiamma, corallino anche lui.

    Arhon Ramì è in grado di percepire una particolare forma di energia, la quale si sprigiona soprattutto nei luoghi in cui giacciono sepolte le emozioni della razza umana che fu.

    Ramì e Yetau nascondono un segreto che li accomuna: sono vittime di un amore non ricambiato da cui ha inizio una complicità impensata, un viaggio anche introspettivo che li avvicina ai margini dell’assoluto.

    Questo bellissimo racconto è in grado di tessere la narrazione come un abile ragno tesse la sua tela, tutti gli ingranaggi funzionano talmente bene che si viene risucchiati all’interno della storia. Ciò che colpisce subito è la cura che l’autore mette nel raccontare l’animo dei suoi protagonisti, profondamente veri, cesellati alla perfezione, scolpiti in ogni emozione, definiti da ogni pensiero. La caratterizzazione dei personaggi, infatti, è talmente forte da farli sembrare tutti così vivi e pulsanti che, una volta chiuso il libro, sarà difficile pensare che, da qualche parte, non siano davvero esistiti Yetau, Ramì, Miko e gli altri. I sentimenti e le emozioni dei protagonisti sono davvero in grado di travolgere il lettore in una serie di sospiri e stati di apprensione.

    A fare da sfondo c’è l’imponente e maestosa natura, ci sono i laghi cristallini, i villaggi di pescatori, inquietanti città fortificate, ci sono percorsi impervi a nord e a sud, lupi dall’indole unica, bizzarre tribù di selvaggi e spelonche piene di misteri.

    I Figli dei Coralli è un romanzo dal quale, una volta entrati, sarà difficile uscire.

    PROLOGO

    La storia dei colorati e dei grigi, affratellati da un destino comune, era stata una parentesi tra due momenti memorabili. Due eventi unici che, pur nella loro assoluta diversità, implicarono profonde trasformazioni nelle coscienze di chi ne fu coinvolto.

    Il primo evento, di cui abbiamo già raccontato, era accaduto in un’epoca remota ormai sperduta nel tempo, con precisione nell’anno del Signore 2333 e, con tutta la sua drammaticità, aveva sconvolto il mondo cancellando dalla Terra l’intero genere umano.

    Il concetto del tempo, quando si osservano le dinamiche che muovono l’universo, assume parametri inconsueti per la vita normale degli esseri umani. Si fa riferimento all’anno-luce e a dimensioni dove il tempo di millenni, per noi, potrebbe essere come quello di un sospiro per il cosmo. Un paragone che fa venire le vertigini. Eppure, è nell’ordine di questi tempi che bisogna collocare la riapparizione sulla Terra di una diversa civiltà, quella dei grigi. Una nuova umanità e un nuovo tempo dove, a un tratto e con processi del tutto misteriosi, si erano manifestati alcuni colorati, quei pochi superstiti della civiltà scomparsa. Anche se in apparenza inspiegabile, ciò era avvenuto in concomitanza con il rinvenimento dell’Area Kappa, l’unica struttura del vecchio mondo rimasta dopo millenni.

    Prima dell’evento apocalittico, un centinaio di aree del tutto simili erano state dislocate nelle zone più svariate del pianeta. Ognuna di esse era stata assegnata a squadre di esperti scelti per gestirla. Tale iniziativa non aveva lo scopo di salvare vite umane, ma preservare la cultura e le conoscenze di una civiltà destinata a perire. La speranza era che almeno una di quelle aree, con il suo enorme deposito di dati, scampasse alla fatalità che incombeva. Ognuna di esse era stata ubicata in spazi protetti, ricavati all’interno di montagne a cielo aperto, in sostanza enormi crateri artificiali.

    L’idea più singolare era consistita nel far sorgere una gigantesca piramide all’interno di ogni area protetta. Un piano faraonico dove la piramide era interamente ricoperta da pannelli di ultima generazione, tipi di strutture a base di elementi speciali con particolari proprietà. A parte la complessità costruttiva del progetto, la sua conformazione aveva un solo scopo: usufruire di tutta l’energia luminosa possibile per trasformarla in base alle varie necessità.

    La piramide, vista dall’esterno, aveva un aspetto maestoso. Le sue quattro pareti, interamente levigate a specchio, abbagliavano l’osservatore trasportandolo in una dimensione surreale dov’era facile rimanere prigionieri di suggestioni fantastiche.

    L’Area Kappa, però, dopo il rinvenimento, mancava di due delle sette chiavi d’argento necessarie alla sua riattivazione, un processo indispensabile per portare alla luce tutti i dati della civiltà perduta. Miko Brekin e Mastro Gi, un colorato e un grigio tau, erano stati alla guida della spedizione che, dopo tante peripezie, aveva portato alla liberazione di alcuni colorati costretti a lavorare come schiavi e, tra di loro, due scienziati che custodivano le chiavette mancanti.

    Quella storia aveva avuto il suo epilogo quando Miko Brekin si era precipitato verso la casetta da dove provenivano i vagiti della piccola Luna, la sua primogenita.

    Il secondo evento si era verificato quando Miko fu testimone di un altro fenomeno straordinario. La piccola Luna aveva una pelle dal colore nettamente diverso da quello grigio di Mya, la madre. Aveva capelli già formati e di color nero, anche se il padre era castano. Tutto normale, ma non aveva la pelle come i colorati. La sua ricordava un po’ quella di una persona di carnagione bianca quando inizia a esporsi al sole, dov’è caratteristico l’arrossamento iniziale. È poi tipico, in seguito a qualche giorno di riposo, un graduale cambiamento. Il colore della pelle si ammorbidisce, trasformandosi in quel gradevole bruno tenue che dura poco, però, prima di assumere il tono definitivo dell’abbronzatura. Ebbene, la pelle di Luna era di quel colore intermedio, molto simile alla tonalità di un corallo chiaro, soprattutto con una luminosità che lasciava incollato lo sguardo di chiunque la guardasse.

    Miko, a differenza di Mya, non si era preoccupato, forse perché la sua storia personale lo aveva reso più pronto ad assorbire quel genere di eventi. Abituato a certe sorprese, per lui sua figlia era la bambina più bella del mondo, non gli era mai passato per la mente che quel colore fosse dovuto a una strana anomalia. Superato il primo attimo di stupore, un po’ simile a quando aveva incontrato Mya e il suo popolo di grigi, tutto si era ricomposto nella normale varietà del nuovo mondo.

    In seguito avevano scoperto che la pelle di Arhon Ramì, figlio di Vento e di Fiamma, era come quella di Luna e di ogni altro bambino nato dalle unioni tra grigi e colorati. Per cui anche Yetau, la secondogenita di Miko, aveva la pelle come sua sorella. Era successo che, con il passare del tempo, i colorati avevano potuto circolare liberamente tra i grigi, dando luogo ad alcune unioni miste e alla messa al mondo di figli tutti con la stessa carnagione di Luna.

    È stato così che tra l’opinione della gente si era diffuso e radicato un convincimento. Pensarono di trovarsi al cospetto di una nuova generazione, quella dei corallini. Fu del tutto naturale, memori delle vicende dei colorati, che in ognuno nascesse una sana curiosità, mista a una sottile diffidenza. Qualcosa di straordinario stava ancora accadendo tra di loro, ignari protagonisti di un racconto non ancora finito, poiché sta scritto nelle cose della vita che di ogni storia c’è sempre un dopo…

    1

    Nazar Kraj tirò le redini per fermare il cavallo. Accompagnò il gesto con dei comandi bruschi, poi dette qualche pacca sul collo dell’animale e, addolcendo il tono di voce, gli rivolse delle frasi per calmarlo. Spostò l’attenzione alla sua sinistra e vide che il sole era ancora relativamente alto, anche se aveva iniziato la sua discesa verso l’orizzonte. Decise allora che era giunto il momento di ritornare sui propri passi e di riunirsi a Miko e Yetau, rimasti indietro. Aveva visto abbastanza di quel territorio, ormai lo conosceva fin troppo bene.

    Dal momento in cui era stato costretto a rifugiarsi in Krayzja aveva preso l’abitudine di esplorare quei luoghi per ogni dove, era l’unica attività che manteneva viva la sua mente. Un uomo d’azione quale era, poco si conciliava con la quotidianità degli abitanti di Vilago. Non erano sufficienti la pesca e la caccia che, per quanto fisicamente impegnative, stimolavano poco la sua indole di condottiero. Era un grigio eta, arrivato da terre lontanissime perché spinto da un grande ideale: combattere contro gli schiavisti dell’Handymor.

    Ricordava benissimo il giorno in cui aveva lasciato la vita comoda e sontuosa della sua casa, la madre che lo aveva accompagnato fin sulla soglia per salutarlo, né poteva dimenticare quel viso contratto per il dispiacere del distacco. Nei pensieri di Nazar ricorreva spesso l’immagine di quel commiato, poiché sapeva benissimo che lei avrebbe pianto e che non lo avrebbe fatto davanti a lui.

    Era stata lei a trasmettergli tanta forza e determinazione, quell’energia che in breve tempo gli aveva consentito di essere un vero comandante, temuto dagli schiavisti e amato dai ribelli che guidava. I suoi uomini gli avevano affibbiato il soprannome di Glacio, cioè ghiaccio, per la freddezza con cui soleva gestire le varie azioni di guerriglia.

    Aveva combattuto una dura lotta per due lunghi anni. La città di Charos era sprofondata in una vera e propria guerra civile tra due fazioni: i ribelli di Mastro Gi e le tre grandi famiglie che senza alcuna legittimazione esercitavano il potere a Charos e dintorni. Costoro avevano fatto cartello, anche se erano i Kosanera ad avere il comando di tutte le operazioni. Alterne vicende avevano favorito ora l’una ora l’altra parte, mantenendo incerte le sorti del conflitto, tanto che sembrava non dovesse finire mai. Poi, in uno scontro alquanto cruento, erano caduti i due capi schiavisti di grado più alto, Bastyan Kosanera e il suo luogotenente Igor Lakj. Era stata l’operazione tatticamente più brillante di Nazar Kraj e tutto aveva fatto credere che le ostilità sarebbero terminate abbastanza presto, naturalmente con la vittoria dei ribelli.

    Non fu così. L’anziano Mastro Gi e i suoi seguaci avevano sottovalutato le infinite risorse della famiglia Kosanera che, da qualche tempo, stava organizzando lo scontro decisivo con l’arruolamento e una preparazione particolare di nuovi mercenari. Costoro erano accorsi in gran numero dai paesi limitrofi, attratti dai sostanziosi guadagni che venivano elargiti dagli schiavisti. Poi era apparso Jenas Kosanera, giovane figlio di Sebyo, con tutta la sua spietatezza. Era l’unico erede di un piccolo impero fondato sullo sfruttamento e sulla tirannia. Molto simile al padre, era cresciuto alla sua scuola fatta di cinismo e disprezzo, con l’aggiunta di quella spregiudicatezza tipica dei giovani. Una strisciante forma di follia si univa al sadismo che Jenas palesava senza alcuna remora ogni volta che si rapportava con gli altri. Per questa ragione era temuto da tutti, anche da quelli che erano più vicini a lui. Apertamente detestato dallo stesso zio Bastyan che non era certo una mammoletta e intravedeva nel ragazzo una tendenza a creare problemi più che a risolverli. Lo riteneva inadatto al ruolo che il giovane rampollo ambiva con una certa sfrontatezza, e lo aveva sempre snobbato, evitando di affidargli compiti di comando sul campo. Alla lunga, però, non potendolo ignorare del tutto, lo aveva preposto alla formazione dei nuovi arrivati, riserve necessarie a rimpiazzare quelle perdite che inevitabilmente ci sarebbero state nei vari scontri. Era una scelta che, se poteva sembrare di secondaria importanza, si sarebbe rivelata determinante nelle vicende future.

    Venuto meno lo zio Bastyan, tutto il comando era passato nelle mani di Jenas, con l’approvazione incondizionata del padre Sebyo.

    Superato lo smarrimento iniziale per le gravi perdite, Jenas aveva messo subito in atto le sue idee introducendo alcuni cambiamenti nella gestione degli scontri armati. La prima regola che aveva imposto era categorica: non fare mai prigionieri. Una direttiva da non applicare solo in battaglia, ma che doveva valere soprattutto nella caccia ai ribelli tra gli abitanti di Charos. Era tassativo passare per le armi, in modo sommario e senza esitazione, chiunque fosse semplicemente sospettato di averli aiutati.

    Altra iniziativa era stata quella d’incoraggiare la delazione, elargendo cospicue somme di denaro a chi avesse fornito indicazioni per stanare i ribelli.

    Jenas, coerentemente al suo modo di essere, aveva introdotto il terrore. Non era stata, quindi, la sua intelligenza a individuare il punto esatto dove colpire i ribelli, ma la sua spietatezza.

    Una delle risorse su cui puntavano gli insorti era la complicità e il favore di una parte del popolo. Quella gente, che per varie ragioni non combatteva con le armi, rappresentava comunque un vantaggio da non sottovalutare. I ribelli, infatti, potevano muoversi furtivamente in parecchi rioni della città. Poi tutto era cambiato. Le decimazioni perpetrate senza tregua, i tradimenti per facili guadagni e il diffondersi di una crescente paura collettiva avevano prosciugato quel terreno favorevole di complicità.

    Erano queste le riflessioni che ossessivamente si rincorrevano nella mente di Nazar Kraj. Non aveva ancora individuato gli eventuali errori da lui commessi. Faceva fatica a contemplare l’ipotesi che si potesse perdere anche senza sbagliare e, prigioniero dei suoi sensi di colpa, non riusciva a darsi pace.

    Si diresse verso sud-est, cercando di seguire il corso dell’Awati. Spesso doveva deviare, perché impedito da cumuli di rocce e da percorsi impervi per il suo cavallo; poi si riavvicinava al fiume, dove la strada si presentava agevole e soprattutto più breve. Gli piaceva soffermare lo sguardo su quel piccolo corso d’acqua; lo incuriosiva la sua storia, tanto che spesso si era chiesto cosa lo rendesse così importante per Miko e sua figlia. Nei loro discorsi aveva colto più volte delle motivazioni, ma erano sempre vaghe, mai sufficienti a fargli capire qualcosa di più. C’era sempre qualcosa di misterioso, di non detto nei loro racconti, e allora aveva deciso di non indagare oltre. Non voleva ficcare il naso più di tanto in qualcosa che, probabilmente, toccava sentimenti da rispettare.

    Nazar aveva percorso un bel tratto, giungendo nella parte collinare in prossimità della capanna dov’era atteso. Era stato Miko a costruirla tanti anni prima ed era lì, nelle vicinanze della piccola cascata, che di tanto in tanto amava rifugiarsi in solitudine; il punto esatto in cui gli era apparso il lupo misterioso che lo aveva tratto fuori dal fiume. Per Miko e Yetau era diventata la capanna del lupo, il loro territorio esclusivo.

    Nazar, pur ignorando tutta la storia di quel posto, trovava bella la complicità tra Yetau e il padre.

    Era assorto in quei pensieri, quando fu scosso da uno strano susseguirsi di grida e versi animaleschi. Accelerò l’andatura del cavallo verso la parte più alta della collina, da lì avrebbe identificato i responsabili di quel trambusto. Man mano che si avvicinava riconobbe sempre più chiaramente la voce di Yetau, non poteva sbagliarsi. Non capiva, però, per quale ragione alternasse strilli e risate, poi si fermò di botto: un prolungato ruglio di orso gli fece accapponare la pelle. Spronò ancora il cavallo per raggiungere una posizione migliore, contemporaneamente afferrò l’arco per usarlo in caso di pericolo. Scollinò e, ai piedi dell’altura, lungo i margini del fiume, vide una scena alla quale non era assolutamente preparato. Un cucciolo di orso bruno inseguiva Yetau che, evidentemente divertita, lo sfidava a raggiungerla. Poi, evitandolo, ritornava sui propri passi facendosi sempre inseguire.

    Fu qui che Nazar armò l’arco, pronto a colpire. Un enorme orso bruno, la madre del cucciolo, assisteva tranquillamente con semplici richiami che non avevano nulla di aggressivo. Nazar, sbalordito, abbassò l’arco. Capì che non era una situazione pericolosa: Yetau, per sfuggire all’inseguimento del cucciolo, si nascondeva dietro il corpo massiccio della madre che, anche lei divertita, sembrava partecipasse al gioco. Era assolutamente impensabile, per chiunque, avvicinarsi impunemente al cucciolo di un animale selvaggio senza provocare una reazione della madre. Eppure, con occhi increduli, Nazar era testimone di questo fenomeno.

    Sapeva delle doti dei corallini e di come, grazie alla loro peculiarità, sembrava che fossero nati per stupire. Nazar aveva avuto modo di verificarlo nella sua frequentazione con Luna, scoprendo in lei capacità curative al limite del miracoloso. Gli avevano parlato di Yetau e della sua facoltà di avvicinare gli animali più feroci senza essere aggredita, della sua capacità di comunicare con loro come se parlassero una stessa lingua, ma non aveva mai assistito direttamente a un fatto del genere.

    Si guardò bene, quindi, dall’avvicinarsi, c’era poco da controllare. Lui non aveva alcuna familiarità con gli animali e non poteva sapere, se si fosse palesato, quale sarebbe stata la reazione di mamma orso.

    Cambiò di nuovo direzione, seguendo per un bel tratto il crinale della collina, ancora verso sud-est e parallelamente al corso del fiume; poi scese fino a costeggiarlo, lasciandosi alle spalle il gruppo dei giocherelloni.

    Arrivò in prossimità di un punto, spesso riferimento delle sue escursioni, oltre il quale il fiume si gettava rumorosamente in una cascata. Nazar doveva giungere a valle, là dove le acque si sarebbero ricomposte nel loro letto fluviale, allora cambiò senso di marcia allontanandosi lungo un percorso obbligato. Terminato quel tratto particolarmente ripido, s’infilò in una boscaglia che attraversò d’istinto a causa delle scarse condizioni di luce. Aveva fatto quel percorso parecchie volte, perciò ne venne fuori, altrimenti si sarebbe perso. Il sole era tramontato in quel preciso istante ma, prima che sparisse del tutto, Nazar ebbe il tempo d’imboccare la strada giusta. Si accostò di nuovo al fiume e, dopo un tratto abbastanza agevole, riuscì a intravedere in lontananza la capanna del lupo che, illuminata da un fuoco particolarmente vivace, proiettava lateralmente un’ombra lunga e sinistra. Accanto al falò stava chinato un uomo che fissava immobile quel gioco di bagliori, come rapito.

    Era Miko che, con un ramo, ravvivava le fiamme smuovendo le braci. Indossava un poncho colorato che lo preservava dal fresco serale. Era l’età o forse il buon senso ma, giungendo a una certa ora, aveva preso l’abitudine di proteggersi, per prevenire i malanni, diceva.

    Aveva sentito gli zoccoli del cavallo alle sue spalle ma non si mosse. Non poteva essere un lupo. Quante volte era ritornato in quel posto sperando che apparisse quel suo vecchio amico. Ormai, purtroppo, era trascorso troppo tempo e aveva smesso di sperarci.

    Nazar, dopo aver impastoiato il cavallo, gli si sedette accanto e accompagnò il movimento con una specie di grugnito che voleva essere un saluto.

    «Ho visto Yetau» disse, «giocava con due orsi».

    Miko non si scompose, non era una novità.

    «Non capisco come fai a rimanere impassibile» continuò Nazar, con tono dimesso. «Ti sto dicendo che tua figlia è alle prese con due orsi e tu rimani lì… immobile».

    Miko smise di tormentare le fiamme, grugnì anche lui e rispose senza alzare lo sguardo:

    «Sai benissimo come stanno le cose. Per te è stata la prima volta e ancora non sei persuaso, per me si tratta di una consuetudine».

    «Mi sono preso uno spavento non da poco» disse Nazar.

    «È successo anche a me» aggiunse Miko, «da sentirmi morire, poi ho dovuto accettare la realtà».

    Nazar lo fissò a lungo. Che uomo strano! Pensò.

    Il movimento irregolare del fuoco illuminava con le sue vampate il viso di Miko, determinando strani effetti fantasmagorici. Egli portava sempre la barba leggermente lunga, come ai vecchi tempi, ma adesso aveva delle pennellate di bianco che gli conferivano un’aria più solenne. I capelli si erano rarefatti, e quelli rimasti pure ingrigiti. Anche nel viso si erano disegnate delle rughe, inevitabili tracce di un percorso di vita non poco travagliato.

    I due amici trascorsero alcune ore chiacchierando e sorseggiando un distillato di buona qualità, molto apprezzato dagli abitanti di Vilago, che lo producevano. Poi, come se si ricordasse di qualcosa, Miko si alzò e si diresse verso la capanna.

    «Vado a dormire, mi si chiudono gli occhi» disse, strascinando i piedi.

    Nazar, però, aveva ancora qualcosa da dire:

    «Non aspetti il ritorno di Yetau?».

    «Tutta la notte? Anche se volessi non ce la farei» rispose Miko, continuando a camminare.

    «È tutto buio, bisognerebbe andare a cercarla» continuò l’altro.

    Miko non rispose.

    «È una ragazzina, ha solo sedici anni!» insistette Nazar, alzando inaspettatamente la voce. «Tutto questo non è normale!».

    Miko si fermò di botto e, lentamente, si girò:

    «Senti ragazzo, c’è già Mya che rompe i timpani con questa storia. Lei posso capirla, è la madre. Come tale ha comunque qualcosa dentro che rifiuta l’evidenza e il suo timore prevale sempre. In te non è possibile che succeda la stessa cosa!».

    «Non è normale…» balbettò ancora Nazar.

    «Che ne sai della normalità?» lo interruppe Miko, alzando la voce pure lui. «Ha sedici anni è vero, pure un padre con qualche milione di anni sulle spalle… però! Aggiungi che lei comunica con gli animali più e meglio di come faccia con me. Cosa c’è di normale in tutto questo? Eppure fa parte della realtà. Suggerisci di negarla?».

    Nazar non rispose e tra i due scese il silenzio. Miko rimase immobile a guardare l’altro che non sapeva come ribattere. Poi si calmò e, con voce più quieta, aggiunse:

    «È una corallina Nazar, dobbiamo imparare a conviverci…». Così dicendo si diresse verso la capanna. Aveva bisogno di dormire.

    A Nazar venne in mente Luna, l’altra sorella corallina che aveva imparato a conoscere bene. Allora chiese a se stesso perché non riusciva a vedere Yetau con gli stessi occhi e come mai, se la riteneva veramente in pericolo, non andasse a cercarla. Cosa lo tratteneva? Rimase davanti al fuoco fino a tardi. Questi e altri pensieri si accavallavano nella sua mente in un rimuginare senza fine, segno di una giornata veramente storta. Alla fine, stanco, si diresse anche lui verso la capanna, con la speranza che il sonno gli restituisse un po’ di chiarezza.

    Il giorno dopo, alle prime luci, Miko aprì gli occhi. Avrebbe voluto prolungare il suo riposo, ma ormai non gli riusciva più. Si guardò attorno e si soffermò sugli altri due giacigli, dove Nazar e Yetau dormivano beati. Si mise in piedi e uscì, avendo cura di non svegliarli. Sua figlia era rientrata nel cuore della notte, e solo il cielo sapeva come avesse fatto. Miko sorrise tra sé, pensando alle preoccupazioni di Nazar. Probabilmente aveva una parte di ragione, ma quelle osservazioni lo avevano fatto irritare. Il Glacio era riuscito a risvegliare in lui antichi timori che aveva rimosso a fatica. Non era facile avere due figlie coralline, baciate da doti prive di ogni ragionevole spiegazione e piene di misteriosi presagi; due figlie strane, chiaramente diverse dal mondo che le circondava e, per giunta, la minore era un po’ selvaggia. Miko sentì un leggero brivido attraversare il suo corpo, e questa volta non era il fresco del mattino.

    Più tardi lo raggiunse Nazar, ancora non del tutto sveglio. Miko gli porse un bicchiere con un infuso caldo che nel frattempo aveva preparato.

    «Dorme ancora l’amica degli orsi?» chiese al giovane.

    «Penso di sì» rispose Nazar, sorridendo e sorseggiando la bevanda.

    «Certo che sono sveglia! Smettetela di parlare alle mie spalle» li interruppe Yetau, apparsa sulla soglia della capanna.

    I due uomini si guardarono in faccia sorpresi: non credevano di aver detto nulla di riprovevole, mentre lei, senza badare più a loro, si precipitò di corsa verso il fiume.

    Ben presto si ritrovarono a cavallo sulla strada per Vilago.

    «Ti ho vista con gli orsi» disse Nazar, rivolgendosi a Yetau che cavalcava vicino a lui.

    «Davvero? Suppongo allora che osservandomi tu abbia capito».

    «Capito che cosa?»

    «Che io possa avvicinarmi agli animali senza correre rischi».

    «Mi sono preso un grande spavento, non sapevo cosa fare…» rispose lui.

    Yetau scoppiò a ridere divertita e non sembrava che avesse intenzione di smettere. Era particolarmente contenta di aver attirato l’attenzione del Glacio. Non faceva altro che guardarlo, anche quando sembrava che volgesse gli occhi altrove. Era il suo eroe. Da quel primo giorno, quando lui aveva interrotto la sua fuga presso di loro, i pensieri di Yetau erano sempre stati per quell’uomo. La sua infatuazione era ancora cresciuta quando Luna le aveva raccontato di lui, di come sapesse guidare gli uomini in battaglia, del suo valore nei combattimenti e della sua generosità. Era stato l’inizio di un sogno a occhi aperti nel quale, Yetau, non aveva più smesso di cullarsi…

    2

    All’interno dell’Area Kappa ferveva la consueta attività che, oltre allo studio, mirava a una buona gestione della struttura. Da quando non era più un luogo segreto si poteva entrare facilmente, anche se erano necessarie delle particolari autorizzazioni. Non c’era più il macigno rotante che mimetizzava l’entrata, adesso si poteva accedere con carri e cavalli attraverso una grossa cancellata di legno, comunque presidiata da custodi integerrimi.

    Arhon Ramì, nella scuderia interna, era intento a preparare due cavalli. Lui e Luna avevano in programma di recarsi a Medusya, dove la ragazza si sarebbe imbarcata per Vilago. Egli viveva all’interno dell’Area Kappa, dov’era nato. I suoi genitori, Vento e Fiamma, avevano voluto dargli due nomi, di cui uno in onore dei fratelli di suo padre scomparsi in passato durante la missione contro gli schiavisti nelle piantagioni di Charos. Il nome Ramì racchiudeva le iniziali di Raul e Milo, i due gemelli che con il sacrificio della loro vita avevano consentito ai colorati di ritrovare la memoria perduta. Due tristi episodi accaduti sotto gli occhi di Vento, il terzo gemello, senza che lui potesse far nulla per soccorrerli. Da allora era rimasto segnato e non era più riuscito a ritrovare una quiete interiore. Non sentiva più quella leggerezza che aiuta nelle cose della vita, una condizione che in nessun caso, anche se spiacevole, si dovrebbe smarrire. Non sempre, però, gli auspici coincidono con la dura realtà. Esteriormente, e nella vita di tutti i giorni, Vento non mostrava sintomi che potessero far pensare a una sua sofferenza. Sapeva dissimulare bene, forse troppo. Dentro di sé, invece, era rimasta una nuvola grigia di tristezza che, appiccicosa come la pece, non lo abbandonava mai.

    Ramì si muoveva controvoglia, non avrebbe mai voluto stringere quelle cinghie ai cavalli. Purtroppo, di lì a poco, avrebbe cavalcato con Luna fino al porto per poi salutarla. Al giovane dispiaceva quella partenza, ma non poteva farci nulla. Avrebbe voluto seguirla dappertutto, ma avrebbe dovuto motivare questa scelta ai suoi

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