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Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury
Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury
Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury
E-book378 pagine8 ore

Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury

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Info su questo ebook

Farrokh Bulsara arriva da Zanzibar, estrema propaggine dell’impero britannico ormai in dissolvimento, deciso a immergersi nel flusso vitale di una Londra che, a metà degli anni ’60, è un dirompente caleidoscopio di mode e tendenze artistiche, inseguendo il sogno di poter vivere d’arte.
La sua storia si intreccia a quella della band di cui diventa cantante e propulsore, convinto che la musica li salverà.
E la storia diventa viaggio, un viaggio che, tra dolorose cadute e battute d’arresto, sconfitte brucianti e trionfi epocali, lo condurrà a scoprire la forza vivificante e potentemente feconda dell’amicizia.
Ma anche, e inevitabilmente, un viaggio amaro e tormentato dentro se stesso, alla ricerca del suo essere più autentico, che lentamente gli si rivelerà sempre più audace e possente, proprio come la sua voce, e che alla fine lo porterà a conquistare il successo e a perdere l’amore.
Il viaggio che condurrà Farrokh Bulsara a diventare Freddie Mercury.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2018
ISBN9788829530410
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    Anteprima del libro

    Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury - Antonio Universi

    III

    I

    «La maggior parte di quello che faccio è fingere. È come recitare: vado sul palco e fingo di essere un macho e tutto il resto. E una volta giù, fingo ancora, fingo per amore... Quello che non sai, è da quanto tempo interpreto questa parte. Ai tempi del collegio mi chiedevo se anche i miei compagni sentissero quel bisogno di comprendere se stessi: loro sembravano mostrare la propria personalità con una tale naturalezza, mentre io dovevo recitare, costretto a un continuo sforzo mentale e fisico. Poi, con il tempo, mi convinsi che tutti affrontassero la vita così, e quindi anch'io avrei dovuto recitare la mia parte senza poter mostrare mai, neppure una volta, il mio autentico io. Ma dopo tutti questi anni, finalmente ho capito di avere la possibilità di scegliere, perché la cosa non riguarda più solo me: potevo non dirtelo, ma tu hai diritto alla tua vita».

    «Come tu hai diritto alla tua».

    *

    Londra, Feltham, 1966.

    Le note di Blue Suede Shoes e la voce di Cliff Richard si sprigionavano da un giradischi Dansette, cimelio dei tempi economicamente più floridi della famiglia Bulsara.

    «Vuoi abbandonare la Scuola d'Arte?» chiese Kashmira, alzando solo gli occhi e cercando di tenere fermo il capo gravato da un basco sproporzionato rispetto alla sua testa.

    «Non muoverti per favore, Kash!» esclamò di rimando suo fratello, «Credi che stia qui a perdere tempo?»

    «Perché non diventi avvocato come vogliono mamma e papà?»

    Lui alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Non lascio l'Ealing, voglio semplicemente cambiare indirizzo di studio» le rispose senza alzare gli occhi dal foglio, «ma anche così potrò continuare a lavorare nel campo dell'arte, che è l'unica cosa che mi interessa».

    La ragazzina rimase perplessa, non aveva capito molto, ma tentò di restare immobile nella posizione in cui il fratello la stava ritraendo, di profilo e affondata nella poltrona del soggiorno di casa, le braccia incrociate all'altezza del ventre e le gambe accavallate in un paio di pantaloni fiorati, il piede destro che portava il ritmo della musica.

    «Va bene, va bene, però dopo mi aiuti a fare i compiti... E comunque dovresti stare più attento alla moda. Mi spieghi cosa significa quel taglio di capelli?» lo interrogò in tono di rimprovero mentre lui era intento a completare il suo schizzo, abbozzando con rapidi tocchi di matita il resto dell'ambiente in cui si trovava la sua modella, il soggiorno di casa.

    «Non ti nascondo che quando usciamo insieme mi fai vergognare!»

    «Ah! Allora è per questo che mi cammini sempre dietro, e a una certa distanza? E io che pensavo di andare troppo veloce per te...»

    Farrokh Bulsara aveva ventun anni. Era arrivato in Inghilterra da Zanzibar nel 1964 con la sua famiglia e, insieme alle valigie e ai ricordi, aveva portato con sé uno stile da perfetto studente di collegio inglese, quello che aveva frequentato negli anni della sua adolescenza in India. Lì tutti lo chiamavano Freddie, nome cristiano e inglese, adottato da insegnanti e amici al posto del suo originale, tipico dell'antica comunità Parsi a cui apparteneva la famiglia.

    Per qualche tempo aveva mantenuto quel look costituito da pantaloni bianchi a sigaretta corti alla caviglia, sempre perfettamente stirati e con la riga ben definita, ai quali abbinava spesso una giacca amaranto sul cui taschino era cucita una fenice, e capelli impomatati e pettinati all'indietro con annesso ciuffo sparato sulla fronte, secondo lo stile, ormai demodé, dei suoi miti musicali, Elvis Presley e Cliff Richards. Ma, frequentando la Scuola d'Arte, non gli ci volle molto tempo per decidere di conformare il proprio abbigliamento a quello dei suoi coetanei, cosa che condusse immediatamente suo padre e sua madre nella schiera di tutti quei genitori che definivano i propri figli 'capelloni', e che da questi erano a loro volta apostrofati 'giurassici'. I capelli di Freddie, però, neri, molto folti e tendenti al riccio, erano in una fase critica, di una lunghezza intermedia difficile da gestire, che solo estenuanti lotte a colpi di spazzola e phon riuscivano a domare in una scriminatura laterale a cui faceva da diadema una frangetta cortissima.

    «E così ti vergogni di me?» tornò sulle parole di sua sorella, quasi incredulo. Era particolarmente suscettibile e pignolo riguardo al suo aspetto. La guardò a lungo in modo torvo ma alla fine «Ci sto lavorando, mia cara» le concesse con un sorriso.

    La puntina del giradischi stava terminando la sua corsa nel solco del 45 giri.

    Kashmira, detta Kash, bofonchiò qualcosa poi ritornò immobile. Era sei anni più giovane del fratello, ciononostante la somiglianza con lui era evidente: da mamma Jer avevano preso il fisico minuto e la pelle olivastra, ma Freddie ne aveva ereditato anche gli incisivi sporgenti; inoltre entrambi amavano trascorrere ore e ore davanti allo specchio del bagno, luogo molto conteso e per questo spesso teatro di liti furiose.

    A Freddie piaceva osservarsi e studiarsi nei minimi dettagli: i suoi centosettantacinque centimetri erano ben distribuiti; i lineamenti del viso erano regolari e delicati. Poteva ritenersi abbastanza soddisfatto di sé finché lo sguardo non gli cadeva su quei dentoni che, in collegio, gli avevano procurato il soprannome di Bucky, coniglietto. Per fortuna quel nomignolo era rimasto in India assieme ai suoi ex compagni e, poiché non voleva simili appellativi anche nella nuova vita, aveva sviluppato la tendenza a mordersi il labbro superiore, quasi a tirarlo giù per coprire gli incisivi. Quando, poi, non poteva proprio trattenere una risata fragorosa, la sua mano partiva in soccorso a nascondergli la bocca, ma erano occasioni veramente rare. Freddie cercava di non ridere mai, neanche e soprattutto nelle fotografie: da quando erano arrivati in Inghilterra, infatti, non ce n'era una che lo ritraesse sorridente, sfoggiava sempre una strana smorfia come di chi stesse nascondendo tra le labbra serrate un boccone proibito.

    «Freddie…» lo richiamò Kash rimanendo immobile, «e sul serio andrai a vivere in un'altra casa?»

    «Non sarebbe tanto lontano da qui, sai?» la tranquillizzò poggiandosi la matita sul mento, e per un attimo smise di disegnare. «Vorrei trasferirmi a Londra, nel quartiere di Kensington».

    A quel tempo Londra era l'ombelico del mondo, vibrante d'energia nuova, nutrita da forze creative che vi si riversano da ogni dove riempiendo i teatri, le gallerie, le scuole d'arte. E poi c'era Kensington, il cuore pulsante della città, il quartiere degli artisti, della Pop Art, della musica, della pubblicità, della moda, dei fotografi e delle modelle, della famosa boutique Biba e del Kensington Market, dove potevi incontrare tutti i personaggi del jet set.

    «Ma proprio adesso che siamo di nuovo tutti insieme!» piagnucolò la ragazzina destandolo dal suo fantasticare ad occhi aperti.

    Per un momento a Freddie tornò in mente l'inquietudine dovuta alla separazione dalla famiglia quando, a otto anni, i genitori lo avevano costretto a lasciare Stone Town per completare la sua educazione in India, allievo del miglior collegio privato maschile, con un programma di studi esclusivamente in inglese.

    Di quel che aveva passato lì negli otto anni successivi, così piccolo e solo, separato da lei e dagli affetti familiari, delle notti trascorse a piangere fino a sfinirsi nel sonno in quella camerata condivisa con una ventina di bambini, del risentimento provato nei confronti dei suoi per averlo allontanato da casa, non aveva mai fatto parola con la sorella. E quando, finalmente, era tornato a casa, la rivoluzione scoppiata a Zanzibar per l'indipendenza dall'impero britannico li aveva costretti a trasferirsi in Inghilterra.

    Quanto tutto questo gli pareva lontano, adesso...

    Erano trascorsi già più di quattro anni da quando i Bulsara avevano lasciato Stone Town per approdare a Feltham, un sobborgo di Londra dove risiedevano in una casetta bifamiliare al numero 22 di Gladstone Avenue, una stradina piuttosto tipica, su cui si affacciavano fronteggiandosi tante dimore più o meno uguali.

    Freddie firmò lo schizzo ormai completato e quella fu la fine della loro conversazione. Richiuse con decisione il blocco in cui aveva inserito il disegno, lo strinse al petto, poi si alzò e imboccò la porta che immetteva nel corridoio; salì la breve rampa di scale che conduceva alle camere da letto, girò a sinistra e arrivò nella sua piccola stanza: entrò, si chiuse la porta alle spalle, gettò il blocco da disegno sulla scrivania sotto la finestra, e si accovacciò, spalle al muro, sulla moquette. Tutt'intorno gli schizzi di Elvis, Liz Taylor nei panni di Cleopatra, Paul McCartney e Cliff Richard gli sorridevano dalle pareti bianche verniciate di fresco.

    *

    Ealing, sede della Scuola d'Arte, era un'importante zona residenziale di Londra che conservava le antiche case dell'era vittoriana, un tempo residenze aristocratiche e adesso suddivise e adibite ad appartamenti. Il quartiere aveva quasi l'aspetto di un villaggio di campagna, dove si poteva passeggiare tra le dimore di vecchi nobili, su lunghi viali alberati, rilassandosi in uno dei tanti rigogliosi giardini, o gustando una birra in un vecchio pub, tra chiese in stile gotico e case di mattoncini rossi.

    Era una bella giornata di settembre quando Freddie mise piede per la prima volta nell'edificio che svettava, nel suo bugnato grigio, alla fine di St. Mary's Road, vicino al parco; e rimase estasiato scoprendo che era proprio quella la sede dell'Ealing College of Art.

    L'anno accademico non era ancora terminato, ma aveva già deciso di passare dall'indirizzo di Moda a quello di Illustrazione grafica.

    Fu allora che conobbe Chris Smith.

    Chris era un ragazzo piuttosto mingherlino, dai capelli biondi, il viso affilato e gli occhi chiari; veniva dallo Yorkshire e studiava anche da privatista per ottenere il diploma da organista.

    Il giorno in cui si erano conosciuti, Chris girava disorientato per i corridoi dell'Ealing e, guardandolo di spalle, Freddie lo aveva scambiato per una donna. Quando si era reso conto che in realtà era un ragazzo, gli aveva chiesto a bruciapelo «Sei in grado di cantare?», sperando che l'aspetto da rocker non lo avesse tratto in inganno.

    «Forse... Perché?»

    «Perché se lo sei, devi venire con me in bagno».

    «Come, scusa?»

    Freddie si era accorto solo dopo averlo pronunciato che quell'invito poteva suonare ambiguo, per cui si era affrettato a chiarire «Qui quasi tutti suonano e sperimentano musica, e a quest'ora ci ritroviamo in bagno per provare le armonie vocali. L'eco che si propaga in quella stanza è fenomenale e rende il tutto molto interessante!»

    Dopo la spiegazione, fatta quasi tutta d'un fiato, aveva notato con estremo sollievo che l'imbarazzo si era completamente dileguato dal viso del ragazzo, e insieme avevano riso di gusto dell'equivoco.

    Dopo nemmeno un mese erano diventati amiconi e Chris lo portava spesso con sé nella chiesa dove si esercitava a suonare l'organo.

    «Sai, il corso d'Illustrazione non è come me lo aspettavo…»

    «E come te lo aspettavi?» gli chiese Chris affacciandosi dalla balaustra sopra l'altare dov'era posizionato l'organo.

    Freddie si fermò ad osservare gli archi a sesto acuto in cui erano incastonate le vetrate colorate della chiesa.

    «Allora?» la voce di Chris lo incalzò rimbombando tra le navate.

    Alzò la testa verso l'amico «Non mi piace, è tutto basato sulla tecnologia tessile, la stampa del tessuto, il pattern design e cose così…»

    «No, intendevo, allora? Che ne è della nostra decisione di affittare un appartamento per conto nostro?»

    «Ah, quello! Non lo so ancora. Mia madre non è convinta che gioverà al mio rendimento accademico».

    Chris rise «Non ho alcuna intenzione di darle torto!»

    «Certo, se vivessimo a Kensington, potremmo vivere più liberamente la vita...»

    «Specialmente quella notturna!»

    Freddie sorrise «Attacca dài!»

    «Sì, ma una cosa veloce, devo studiare io!» gli rispose l'amico ammiccando sornione, quindi si chinò sull'organo e suonò le prime note di un canto liturgico che ben presto presero l'andamento graffiante di Gimme Some Lovin' degli Spencer Davis Group.

    In un primo momento Freddie portò il ritmo battendosi il tamburello sulla gamba, poi cominciò a saltellare su e giù dall'altare.

    «Sapevi che il riff di base di questa canzone si ispira a A Lot of Love di Homer Banks?» gli gridò Chris, ma Freddie non lo ascoltava più.

    Sulle ali della musica, la sua immaginazione aveva iniziato a galoppare lontano, portandolo via da Feltham, via da quel quartiere dormitorio con le casette a schiera e le vetrine in finto stile Tudor, via da quei palazzoni di edilizia popolare sorti lungo la linea ferroviaria, fino a farlo librare sopra i tetti di Londra. Era quella l'Inghilterra che sognava! E gli tornarono in mente gli ultimi, concitati momenti a Zanzibar, quando bisognava decidere dove fuggire, e lui aveva incoraggiato sua madre «Andiamo in Inghilterra!». E poi la cocente delusione nello scoprire che l'Inghilterra conosciuta attraverso le riviste, il magico regno dell'arte, della musica e della moda, si riducesse a Feltham.

    *

    A Feltham, dove già abitava zia Sheroo, sorella di sua madre, erano stati accolti dai membri della comunità Parsi. Grazie al loro interessamento ben presto suo padre Bomi aveva ottenuto un impiego per il gruppo immobiliare Forte e, benché percepisse uno stipendio dignitoso, il principesco tenore di vita dei Bulsara si era drasticamente ridimensionato: ormai erano lontani i tempi in cui potevano permettersi domestici e bambinaie. Persino mamma Jer aveva dovuto cercarsi un lavoro, ottenendo un posto da commessa presso Marks & Spencer.

    Freddie, invece, aveva trovato un posticino saltuario nel servizio di catering dell'aeroporto di Heathrow: nei fine settimana impacchettava imballaggi o lavava i piatti. L'aeroporto era parte integrante della vita di Feltham, al punto che più nessuno faceva caso agli aerei che sbucavano continuamente sopra i tetti e al frastuono che ne derivava...

    «Oggi al lavoro hanno tentato di mettermi sotto schiaffo» raccontò un giorno Freddie a sua madre.

    «Cosa è successo?» volle sapere lei, cercando di conciliare la preoccupazione per il figlio e quella per la frittella che si stava attaccando alla padella.

    «Niente di particolare» tentò di sminuire lui, mentre si rimirava nello specchio dell'ingresso, compiacendosi di una vecchia, piccola cicatrice sotto l'occhio destro.

    «Mi hanno chiesto cosa ci facessi in quel posto io, che ho le manine tanto delicate...»

    «E tu? Come hai reagito?»

    «Non mi sono scomposto più di tanto. Ho risposto che ho le mani da musicista perché sono un musicista...» guardò sua madre attraverso lo specchio, nel tentativo di leggerle sul volto qualche reazione, «e che considero il lavoro al catering un'attività fisica per riempire il tempo libero».

    «Bravo! Temevo che ti fossi picchiato con qualcuno come facevi in collegio».

    «Mamma, in collegio facevo sport, praticavo anche la boxe, finché tu non me lo hai proibito».

    «Invece di pensare sempre alle cose antiche, pensa a finire i tuoi studi, e poi dài una ripulita alla tua stanza, musicista!» concluse Jer.

    Ai tempi del collegio il fisico minuto e i modi leziosi gli avevano causato numerosi scherzetti e pesanti illazioni, perciò aveva deciso di provare la sua mascolinità con lo sport: soprattutto nella boxe riusciva particolarmente bene, e quella cicatrice di un paio di centimetri sotto l'occhio destro era l'orgogliosa testimonianza di quel glorioso periodo.

    «A proposito di musica, mamma...» Jer si allontanò dai fornelli, si accomodò su una sedia del tavolo e si predispose ad ascoltarlo, il viso tra le mani.

    «C'è un tizio che deve traslocare e vorrebbe dar via il suo pianoforte per pochi soldi...»

    «Scordatelo, non ci sarà nessun pianoforte qui! Niente che possa distrarti dagli studi per il diploma...»

    In fondo si aspettava quella risposta, e non se la sentì di ribattere.

    «Che poi, mi domando cosa potrai farci con quel diploma lì… Comunque, sappi che tuo padre ha già allertato un paio di persone della nostra comunità: potrebbero procurarti un impiego come si deve».

    «No grazie, il come si deve non fa per me» le aveva risposto stizzito, intuendo la piega che stava per prendere il discorso.

    «Devo andare a studiare adesso» troncò netto.

    *

    Sebbene le notti precedenti fossero state gelate, con l'immancabile pioggia e la prima timida nevicata, il weekend che introduceva al Natale sembrava portare con sé un'aria più mite.

    Freddie decise di indossare il suo ultimo acquisto, un giaccone ricavato da una vecchia giubba da aviatore: gliel'aveva procurata una compagna di corso, scovandola su una bancarella in Portobello Road.

    Aspettò per una manciata di minuti fuori dal Castle Inn, un pub nei pressi dell'Università, al 36 di St. Mary's Road: era un locale alla buona, il posto giusto per bere un paio di pinte di birra tra studenti squattrinati.

    Quando arrivò Chris, i due si fiondarono nel pub e raggiunsero un tavolo attraversando una densissima coltre di fumo di sigaretta.

    «Hai guardato la tv venerdì?» chiese all'amico mentre ancora tentava di scaldarsi le mani alitandoci sopra.

    «Intendi Ready Steady Go!?» disse l'altro mentre scorreva il menu delle birre.

    «Ovvio».

    «Due pinte scure, grazie» ordinò Chris alla cameriera che sembrava comparsa dal nulla, quasi materializzatasi dal fumo; quella annuì e si allontanò dopo aver lasciato sul tavolo un foglietto sotto la ciotola con del mais tostato.

    La trasmissione televisiva Ready Steady Go! era un appuntamento imperdibile per tutti i ragazzi della loro età: nel tardo pomeriggio di ogni venerdì, infatti, i Rolling Stones, gli Animals, gli Who e i Beatles vi si esibivano su sgabelli da studio, o sulle scale, o sul palco principale, a stretto contatto con il pubblico. E per comporre quel pubblico, i produttori sceglievano non solo le migliori ballerine, ma anche i ragazzi più alla moda scovati in giro per Londra, a cui venivano consegnati dei pass speciali per presenziare allo spettacolo.

    «Allora, l'hai visto?» chiese Freddie eccitato.

    «Chi?»

    «Come chi? Hendrix!»

    L'altro lo guardò con aria interrogativa.

    «È stato il quarto ad esibirsi! Capelli in stile afro, pantaloni scuri e camicia nera con delle rose stampate sopra...»

    «Ah, già! Suonava con la mano sinistra una Fender Stratocaster?»

    «Un fantastico, perfetto sconosciuto!»

    La cameriera posò i boccali con un dito di schiuma sul tavolo e tornò a dissolversi nella cortina di fumo.

    «Sì, l'ho visto. È americano di Seattle... Mi ha ricordato molto i Cream ed Eric Clapton».

    «Cosa sai di lui?»

    «Mi hanno detto che è a Londra. Lui e la sua band sono di casa allo Speakeasy, un piccolo locale in Margaret Street dove tengono concerti di musica progressive. Io ci sono stato una volta» continuò Chris infilandosi in bocca una manciata di mais, «si trova in un seminterrato. Il liet motiv del locale sono le rivendite clandestine di liquori di Chicago, infatti è tappezzato di stampe giganti di Al Capone e altri gangsters».

    «Dobbiamo andarci! Voglio vederlo dal vivo! E cos'altro sai?» lo incalzò Freddie mentre tirava una gran sorsata alla sua birra.

    «Ah, sì! Senti questa che è carina: tra i due bagni c'è una bara con una targa d'ottone su cui è scritto Se le donne non ti capiscono, ci penserà il whisky

    Freddie cominciò ad agitarsi sulla sedia in preda all'entusiasmo, e per poco non si strozzò con una goccia di birra che gli era andata di traverso, provocandogli una tossetta fastidiosa.

    Chris gli batté con forza una mano dietro le spalle «Su, su! Non agitarti. Ci andremo, ti prometto che ci andremo» e si accese una sigaretta. «Se non becchiamo proprio lui potremmo sempre imbatterci in qualche jam session di Clapton o di qualche altra star, magari uno dei Beatles!» Chris parlottava con la sigaretta incastrata tra i denti «So che i musicisti che frequentano il locale come clienti, ogni tanto salgono sul palco e suonano qualcosa».

    *

    Mentre si incamminava sulla strada di casa, inspirò a fondo quell'aria frizzante di fine dicembre e affondò le mani nelle tasche del giaccone.

    L'atmosfera natalizia gli era sempre piaciuta.

    Osservò le case addormentate di Londra, e quei palazzi monumentali, ciascuno nel proprio stile, che avevano visto nascere e morire re e regine, che avevano attraversato i secoli e ora gli parlavano di architettura georgiana e vittoriana, con una nota di colore dominante, il grigio scuro del cielo prima di un temporale.

    Ripensò a Stone Town, che adesso apparteneva allo stato della Tanzania, alle sue casupole costruite in pietra corallina che conferiva loro una tonalità calda e avvolgente, a quella miscela di stili moreschi, arabi, persiani, indiani e coloniali che si rincorrevano in un labirinto di vicoli brulicanti di case, negozi, bazar e moschee.

    Lo sfrecciare di un'auto sulla strada lo fece trasalire, e il bagliore rosato di Stone Town si addensò nel rosso delle bacche di agrifoglio, raccolto in ghirlande appese fuori dalle porte verniciate di verde o di nero. Com'era bella la città agghindata per Natale: con lo sguardo passò in rassegna ogni angolo, ogni vicoletto, soffermandosi a gustare i piccoli dettagli delle varie decorazioni. Respirò a pieni polmoni, quasi a voler incamerare quell'atmosfera magica, resa ancor più fatata da una sottile nebbiolina, e procedeva a passi lenti, a volte fermandosi o girando su stesso per avere una visuale a trecentosessanta gradi, e poco gli importava che l'umidità gli stesse rendendo i capelli una massa informe di elettricità.

    Quando giunse in Arvon Road, la sua curiosità lo portò a scrutare meglio una scritta fatta con una bomboletta spray sulla recinzione di un cantiere di un vecchio palazzo in demolizione. Un cane nero, al guinzaglio di un'anziana donna, ci stava facendo la pipì. Clapton è Dio c'era scritto. Non poté trattenersi dal ridere. L'anziana si puntellò sul suo bastone e lo guardò contrariata.

    *

    «Adoro il Natale!»

    «Credevo fossi indù» esclamò sorpreso Chris.

    «In realtà in famiglia pratichiamo lo zoroastrismo, i miei sono Parsi».

    «Parsi?»

    «Abitavano la Persia prima della conquista araba, perciò il nome Parsi, cioè persiani. Poi fuggirono in India» Freddie rispose ripetendo come una litania quella storia che aveva sentito tante volte da suo padre.

    «Quindi Zoroastro è il dio dei Parsi?»

    «No, pregano Mazda, e Zoroastro è il suo profeta. Ad ogni modo» puntualizzò, «io sono stato educato in scuole gestite da religiosi cristiani, sia a Zanzibar che in India».

    «Ah! Ecco perché conosci le feste cristiane...»

    «Sì! Certo, il sistema scolastico era un po' diverso: per farti un esempio, le lezioni cominciavano a metà giugno e finivano a metà aprile, per via del clima. Però Natale era Natale, con le sue due settimane di vacanza».

    «E via a casa, immagino!»

    «No, io non potevo tornarci, il viaggio era troppo lungo. Andavo a stare da alcuni miei zii a Bombay».

    «Ma era festa proprio per tutti? Voglio dire, anche per i ragazzi non cristiani?» la domanda di Chris gli uscì di bocca insieme a una nuvola di fumo di sigaretta.

    «Naturalmente! Dammi una siggy».

    Con un rapido scatto del polso l'amico ne fece affacciare una dal pacchetto.

    Freddie la prese, l'accese, aspirò brevemente ed espirò. Quindi riprese «Chiunque frequentasse quelle scuole doveva adeguarsi a prescindere… E la messa domenicale era obbligatoria per tutti».

    «Ma voi siete nati lì, a Zanzibar?»

    «A Stone Town, per essere precisi. Comunque sì, io e mia sorella ci siamo nati, mio padre invece vi si trasferì per lavoro: era cassiere dell'Ufficio Coloniale britannico. Non lo vedevamo molto spesso, era sempre in giro per commissioni».

    «Allora tuo padre è inglese?»

    «Ha il passaporto britannico».

    «Ma dài, raccontami ancora della tua vita nel lontano avamposto dell'Impero!» lo incalzò Chris con fare scherzoso.

    «Me ne sono andato così piccolo che ricordo molto poco: vivevamo in una casa vicino al mare. Era favoloso addormentarsi con il rumore delle onde... poi c'era un salone enorme per le feste, e al centro troneggiava un pianoforte bianco tutto d'avorio, vorrei tornare indietro nel tempo solo per suonarlo ancora! Avevamo anche dei servitori e una bambinaia di colore che, se non ricordo male, si chiamava Sabine».

    «Infanzia di lusso...»

    «Beh sì, non lo nego! Tu immagina che c'era sempre qualcuno che mi preparava il pranzo, mi faceva trovare pronti i vestiti da mettere... Il bello è che fino a una certa età ho creduto che ogni famiglia avesse dei domestici. Anche in collegio, in India, c'erano i servitori della scuola che si occupavano della maggior parte delle mie esigenze».

    «Ma dài! Dovresti solo vergognarti!» lo prese in giro Chris, «E come mai avete lasciato quel paradiso?»

    «Zanzibar non era affatto un paradiso, anzi: era molto sporca e non offriva grandi prospettive. Ad ogni modo, dopo la rivoluzione mio padre correva seri pericoli. Lo avevano avvertito che se non fosse andato via, i ribelli gli avrebbero tagliato la testa!»

    «Porca miseria, dici davvero? Altro che paradiso esotico!»

    «A pensarci adesso, se avessi potuto scegliere un posto in cui iniziare la mia vita, sarebbe stata proprio l'Inghilterra. È solo da quando ci siamo trasferiti qui che sento di essere vivo, anche se in effetti piove un po' troppo per i miei gusti, e per i miei capelli! Al freddo, invece, mi sono abituato, anche se all'inizio è stata dura».

    *

    Tim Staffell, compagno di corso di Freddie e Chris, era uno della cricca del bagno: si esercitava con loro con le armonie vocali, in più cantava e suonava il basso in una band chiamata 1984.

    Un giorno li invitò ad assistere a un loro concerto, che si tenne nell'auditorium dell'Ealing.

    «Ragazzi, vi presento Dave, Richard, John, Bill, e questo con i capelli alla Beatles…» Freddie dovette alzare di un bel po' gli occhi per incrociare lo sguardo di quei centonovanta centimetri di ragazzo, «è il nostro chitarrista Brian».

    Freddie li osservò con attenzione mentre suonavano alla meno peggio pezzi dei Beatles, degli Yardbirds, di Little Richard, di Chuck Berry e Muddy Waters. Rimase particolarmente colpito da Brian e dalla sua incredibile abilità con la sei corde, tra l'altro un modello di chitarra che non aveva mai visto prima. Eppure... Sì, più osservava quello spilungone di un chitarrista e più si convinceva di averlo già visto da qualche parte, ma non ricordava assolutamente dove.

    Brian Harold May, di un anno più giovane di lui, era una matricola della facoltà di Fisica all'Imperial College e chitarrista part-time. Anche lui viveva a Feltham.

    «Strano che io non lo abbia mai notato, a Feltham ci si conosce tutti» stava pensando Freddie tra sé e sé, quando ad un tratto ricordò esattamente l'occasione in cui lo aveva visto: era stato circa un mese prima, di pomeriggio. Stava rientrando a casa dopo le lezioni di Grafic design e sulla strada, subito dopo l'ufficio postale, sui gradini di un'abitazione aveva notato un ragazzo, accartocciato su una chitarra acustica, che si esercitava a suonare le linee di basso di Martha my dear, concentrato e del tutto incurante del capannello di gente che si era raccolto ad ascoltarlo... Freddie sorrise, contento di aver recuperato quel ricordo che altrimenti lo avrebbe arrovellato per tutta la sera e oltre.

    Al termine del concerto si ritrovò con Brian, Tim e Chris al Duke of Wellington, un enorme pub al 77 di Wardour Street.

    «Brian, cosa ne pensi di Jimi Hendrix? Ti piace?», ormai il chitarrista afroamericano dominava i suoi discorsi.

    «Altroché se gli piace!» rispose Tim sghignazzando, mentre con il dorso della mano si asciugava un rivolo di birra che gli stava colando sul mento, «noialtri lo chiamiamo Brimi ormai!»

    Brian si schermì da quelle affermazioni scacciandole con la mano come si fa con le mosche, ma poi non riuscì a trattenere il proprio entusiasmo «È così in anticipo su tutti gli altri! È spaventoso quanto sia avanti rispetto a qualsiasi chitarrista, qui da noi» esclamò dimenticando timidezza e riserbo. Poi con un cenno indicò alla cameriera il bicchiere vuoto. «Pensavo di essere bravo prima di vedere Hendrix» riprese subito dopo.

    «Lui non è solo un mostro alla chitarra» replicò Freddie, «ma ha anche lo stile, la presenza... Gli basta affacciarsi sul palco, e già il pubblico

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