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La cattura del boss: 500 giorni alla Squadra Mobile
La cattura del boss: 500 giorni alla Squadra Mobile
La cattura del boss: 500 giorni alla Squadra Mobile
E-book233 pagine3 ore

La cattura del boss: 500 giorni alla Squadra Mobile

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Info su questo ebook

Il filo conduttore del racconto sono le indagini svolte dagli uomini della Squadra Mobile di Cariddi, prolungatesi per “500 giorni”, per la cattura di uno spietato boss mafioso, reo di aver ordinato il sanguinoso omicidio di due fratelli davanti agli occhi della loro adorata madre. 
Il romanzo, ambientato nei primi anni novanta, è incentrato sulle figure di due Ispettori, il primo anziano ed esperto, l’altro giovane ed alle prime armi che, nonostante la loro amicizia, hanno differenze di pensiero legate all’appartenenza a due diverse generazioni, nonché sulle figure dei loro più stretti collaboratori. 
La cattura del boss è il pretesto per narrare le avventure quotidiane vissute da quei poliziotti, come un sanguinoso omicidio di mafia, l’arresto di un narcotrafficante, la chiusura di una bisca, una proposta indecente, l’arresto di un amico, la chiusura di una casa di tolleranza...
Tali episodi criminosi diventano lo spunto per delle riflessioni sull’animo, sulle sue debolezze e sui suoi vizi, su temi come la lussuria, il tradimento, la vendetta, la sete di denaro, l’amore comprato, la riconoscenza, l’inganno e, naturalmente, la lotta contro il male.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2018
ISBN9788869631863
La cattura del boss: 500 giorni alla Squadra Mobile

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    Anteprima del libro

    La cattura del boss - Rosario Vadalà

    Introduzione

    Ancora oggi, uno dei sogni più ricorrenti nei bambini è di diventare da grandi dei poliziotti, come quelli dei film americani che, arma in pugno, arrestano i ladri e gli assassini, dopo lunghi e divertenti inseguimenti, inverosimili incidenti, lunghissime sparatorie e decine di morti.

    Questo non era il mio sogno tanto che, all’età di 5-6 anni, ogni pomeriggio indossavo una maglietta a strisce rossonere, sognando di eguagliare il mito di Gianni RIVERA, di diventare un calciatore famoso.

    Con il passare degli anni, per mancanza di vero talento, mi trovai a rinunciare al calcio professionistico, continuando nella serie dilettanti, e ad iscrivermi alla facoltà di Legge. Allo stesso tempo, pensando a un posto fisso, partecipavo a una serie di concorsi pubblici che spesso mi proponeva il mio amico d’infanzia e di ateneo Giovanni MORACI.

    Accadde così che mi ritrovai a studiare seriamente il Diritto per la carriera universitaria, contemporaneamente al bando e allo svolgimento del concorso per diventare Vice Ispettore della Polizia di Stato.

    Il mio fisico atletico, dovuto alla continua attività calcistica, mi permise di essere idoneo alle visite mediche e ai test attitudinali, mentre lo studio del Diritto preparato all’università, mi consentì di superare brillantemente le prove scritte e quelle orali. Fu così che nel volgere di pochi mesi mi ritrovai catapultato presso l’Istituto di Perfezionamento per Ispettori della Polizia di Stato di Nettuno per la frequenza del corso, raggiungendo un sogno che non era mio.

    Il corso si rivelò appassionante per le lezioni di guida veloce – con l’effettuazione di gimkane-, la simulazione d’inseguimenti tra auto, l’esecuzione di tecniche di perquisizione e di autodifesa – con combattimenti veri e propri-, lo svolgimento di numerose e interessanti lezioni sulle armi da sparo e sul loro utilizzo, percorsi di fuoco con tiro dinamico a punti, e con interessanti lezioni teoriche tenute da importanti studiosi o da famosi operatori di Polizia.

    Ogni giorno partecipavamo a un’attività pratica diversa dalle precedenti, finanche a provare l’ebbrezza di buttarsi dall’auto in corsa, simulando l’abbandono di un’auto prima del verificarsi di un imminente pericolo.

    Terminato il corso, siamo nell’Agosto 1993, ho avuto la fortuna di essere trasferito a Cariddi, la mia città e luogo questo contrassegnato all’epoca da una sanguinosa guerra di mafia.

    Il Questore dell’epoca, il buon Ciro LA MANTIA, decise di destinarmi alla Squadra Mobile con la collocazione nella 1^Sezione Omicidi e Criminalità Organizzata la sezione più ambita da chi voleva diventare un vero investigatore, e fu così che divenni un poliziotto d’azione.

    Senza saperlo, ero entrato a far parte di una Squadra fantastica! Coesa e unita come un’arancia, dove ognuno di noi aveva un ruolo e compiti ben precisi nell’organizzazione e nella gerarchia dell’ufficio. Tra noi regnava il massimo rispetto per il collega ed ognuno era pronto ad aiutare l’altro in caso di necessità.

    Ricordo che in un’occasione, avvenuta poco dopo il mio arrivo alla Mobile, un Agente della Sezione Antidroga subì il furto degli oggetti d’oro che aveva ricevuto in dono dai genitori dopo la loro morte, cui era particolarmente affezionato, per questa ragione, la notte successiva al furto, d’accordo con il Capo della Mobile, tutti noi scendemmo volontariamente a lavorare, senza fare straordinario.

    Il famigerato quartiere Trupìa, ove abitava il collega, fu preso d’assedio tanto che furono eseguiti posti di blocco in tutte le vie d’accesso al quartiere con il controllo di quasi tutti i mezzi che entravano ed uscivano, elevando numerosissime contravvenzioni.

    Inoltre furono eseguite decine di perquisizioni domiciliari a carico dei più noti ladri del quartiere, fino a che, l’Isp. Totò MACRÌ, uno degli investigatori più anziani della Mobile, fu avvicinato da un vecchio malavitoso del posto, suo conoscente che, al momento del loro incontro, senza che nessuno gli avesse richiesto nulla, gli consegnò quanto rubato al collega, facendo cessare così, dopo solo alcune ore, l’assedio al quartiere.

    Tra gli appartenenti alla Mobile, c’erano giovani, animati da fuoco patrio, trentenni e quarantenni, con esperienza, disposti a tutto pur di arrivare all’obiettivo di servizio, e, infine, quelli prossimi alla pensione che, oltre a parlare di quanto mancava loro al congedo definitivo, erano pronti ad insegnare ai novellini, o ai più giovani, i trucchi del mestiere o, ancora più importante, a spiegargli anche chi era tizio o caio e perché costoro ricoprivano, in quel momento, quel ruolo criminale, insomma erano la mente storica dell’ufficio.

    Oltre ciò, vi era un’altra suddivisione del personale che, in gergo, veniva così qualificato:

    - Falchi, cioè addetti a servizio operativo all’esterno, spesso di anti-rapina, che uscivano in strada su rombanti moto enduro, sempre senza casco¹, con la paletta sotto il sedile del passeggero e la voluminosa radio portatile agganciata con elastici al manubrio. Oltre ad essere abili motociclisti, atletici e prestanti, erano buoni tiratori d’arma, ruvidi nei rapporti con i criminali e lesti a menar le mani;

    - Operativi, in quei ragazzi che, ancora senza l’esperienza necessaria per fare i falchi, cioè senza quella prontezza ed intuito nel vedere o prevedere un reato, venivano utilizzati per ogni servizio operativo dagli arresti, alle perquisizioni, alle scorte. Di questi, quelli che avevano un carattere più tranquillo, disciplinati e sapevano essere pazienti nell’espletamento dei servizi, venivano impiegati nelle attività di investigazione pura (ascolto telefonico, appostamenti, pedinamenti etc. etc.) o di particolare impegno (scorte riservate);

    - Scrivani, perlopiù esperti ispettori o sovrintendenti che, per grado e/o per cultura e capacità, dovevano occuparsi della redazione degli atti documentali necessari al normale ciclo vitale dell’ufficio, informative di reato, richieste intercettazioni, informazioni di rito, risposte al Ministero o alla Procura etc. etc. cioè tutti quegli atti che venivano necessariamente redatti affinché la Squadra Mobile potesse muoversi con l’efficienza e la duttilità che le veniva riconosciuta e per il motivo per il quale era stata creata.

    In tale ultima definizione rientravamo io e Totò MACRÌ, quest’ultimo, un cinquantino di bell’aspetto, Ispettore Capo anziano, lavoratore indefesso, scapolone incallito, era l’immagine della Squadra Mobile, con 30 anni di esperienza in prima linea, aveva cresciuto intere schiere di criminali, dai loro primi furti, alle loro condanne all’ergastolo per omicidio, per non parlare dei numerosi poliziotti a cui negli anni aveva trasferito il suo sapere.

    Totò era il responsabile della Sezione Omicidi, alto e snello, faccia simpatica e occhietti vispi, un vero investigatore, aveva solo un vezzo, quello di non rassegnarsi alla caduta dei capelli, motivo per il quale, curava in maniera ossessiva un riporto che gli celava la calvizie.

    Intelligente, laborioso, paziente e furbo oltre misura, ma allo stesso tempo umile, tanto da accettare consigli anche dai sottoposti, nonché onesto ed equanime. Il suo più grande complimento era bravo sciccazzo² con il quale ti dimostrava la sua più completa approvazione.

    Conosciuto e stimato dai Magistrati e da schiere di funzionari di Polizia poi divenuti Questori, la sua opinione su un fatto delittuoso diventava il verbo da seguire nelle indagini.

    Dopo Totò MACRÌ, gerarchicamente, come suo primo sottoposto, vi ero io, novello Vice Ispettore, appena uscito dal corso che senza alcuna esperienza pregressa in Polizia, ero un vero e proprio pivellino, un libro bianco su cui l’Isp. MACRÌ impresse le prime e più fondamentali nozioni per diventare un investigatore.


    ¹                         Sfatiamo un mito, l’andare senza indossare il casco, una volta peraltro non obbligatorio, era necessario per sentire e parlare alla radio, per avere una visuale a 360° gradi e, come prevenzione, per farsi riconoscere dai cittadini e specie dai criminali. Intuendo la loro presenza sul posto nessun malvivente si sarebbe sognato di commettere reati sapendo di essere al cospetto di uomini coraggiosi, capaci di fare acrobazie, e pronti all’uso delle maniere forti ove ve ne fosse bisogno.

    ²                         Asinello, in modo affettuoso.

    Rosario Vadalà

    LA CATTURA DEL BOSS

    500 giorni alla Squadra Mobile

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2018 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869631863

    A mia moglie, che mi ha sempre sostenuto

    anche nei momenti più difficili

    amandomi sempre incondizionatamente,

    ai miei figli, miei tesori, di cui sono fieramente orgoglioso.

    Indice

    Introduzione
    Il mito di Iole SPERA
    L’omicidio dei fratelli INGEMI
    Le indagini per l’arresto di Vincenzo Enzo Castro
    L’arresto di Vincenzo Enzo Castro
    Il posto di lavoro
    L’Operazione Bisca clandestina
    La telefonata di Melina
    La collaborazione di Marco
    L’arresto di Melo
    L’omicidio di Vittorio SCUCCHIA
    La firma di provolino
    I truffatori di Cariddi
    L’arresto di un amico
    La pace tra i clan in guerra
    L’arresto del pusher
    Il narcotrafficante
    La moglie del factotum
    L’infamia di Iole
    La casa chiusa di Iole SPERA
    Le minacce a Saro
    Iole sfugge all’arresto
    Il tradimento di Puccio
    La cattura del boss
    La consegna della ricompensa
    L’autore

    Il mito di Iole SPERA

    In ricordo di quegli anni spensierati, ho deciso di rammentare a me stesso, e a chi leggerà queste righe, un periodo particolare della mia vita professionale, compreso tra l’Agosto del 1993 e l’Aprile 1995, circa 500 giorni, in cui tutta la sezione, o meglio l’intera Squadra Mobile, era impegnata nella cattura dello spietato boss della città di Cariddi, Melchiorre SPERA, detto Iole.

    Questi era un quarantino, di bell’aspetto, fisico atletico, sorriso affascinante, capelli ed occhi neri come la pece, dal linguaggio forbito che amava vestire elegantemente, piaceva il lusso, il gioco d’azzardo e la bella vita, specie le donne.

    Iole era diverso dallo stereotipo del mafioso classico, sembrava più uno yuppie che un criminale, ma allo stesso tempo era cinico, violento e determinato a far carriera in Cosa Nostra. A tal riguardo, circolava una storiella nella malavita in cui si diceva che Iole, da giovane, ai tempi in cui era un semplice picciotto, ubbidì senza battere ciglio all’ordine del suo padrino, quando questi gli chiese di uccidere il suo migliore amico, reo soltanto di essersi innamorato della figlia del boss che non lo reputava all’altezza di diventare suo genero.

    Egli era comunque un predestinato, tanto che aveva commesso il suo primo omicidio ufficiale già da minorenne, circostanza questa che aveva alimentato il suo mito.

    Era avvento che ad appena 17anni, aveva ucciso un noto mafioso, immediatamente dopo che questi lo aveva umiliato, davanti a numerose persone all’ingresso di un locale pubblico, dandogli uno schiaffo in viso, dopo che Iole aveva tentato di entrare all’interno senza pagare il biglietto.

    La sua parlata calma, i suoi modi gentili, nascondevano un carattere violento e sanguinario, tanto da provare piacere e soddisfazione quando uccideva un suo nemico, specie dopo averlo umiliato, magari facendogli scavare la fossa nel terreno con le sue stesse mani.

    Pur amando la bella vita ed il lusso, non era prodigo con il prossimo o con i suoi affiliati, tanto da essere capace, qualora richiestogli, di vendere personalmente modeste partite di droga, esponendosi in prima persona al rischio di un arresto nonostante fosse diventato il boss.

    La sua ingordigia gli aveva fatto realizzare un grande patrimonio, specie con l’usura, con la quale succhiava il sangue ai malcapitati che gli chiedevano un prestito, sia con il monopolio del traffico di stupefacenti nell’intera provincia di Cariddi, nonché con l’imposizione a tappeto di estorsioni in danno dei commercianti che risiedevano nel territorio da lui controllato.

    Patrimonio che si era decuplicato quando lo stesso aveva deciso di investire i propri profitti in attività commerciali a Malta, specie nei casinò e nelle scommesse sportive.

    Come ogni boss anche Iole era vanitoso, amava che la gente lo riconoscesse e gli manifestasse il giusto rispetto quando si trovava in un ambiente criminale, ma allo stesso tempo, quando frequentava ambienti normali, non gli dispiaceva di venire trattato come una persona qualunque ma guai a chi lo trattava senza il dovuto rispetto.

    Un esempio classico accadeva quando egli andava a cena in qualche locale:

    – se il titolare del ristorante lo riconosceva e gli manifestava la sua amicizia con piccole attenzioni nel servizio e con un conto irrisorio, egli ringraziava ed andava via soddisfatto;

    – se il proprietario lo riconosceva ma non gli dedicava le giuste attenzioni – servizio normale e conto salato – egli andava via senza dire nulla ma l’indomani mandava due scagnozzi a mettere sotto estorsione il locale o ad incendiarglielo;

    – se il ristoratore non lo riconosceva e lo trattava alla pari degli altri avventori, Iole non faceva una piega e si comportava da normale cliente;

    – se l’esercente non lo riconosceva e lo faceva cenare con un servizio scadente ed un conto inadeguato o salato, egli pagava ed andava via senza battere ciglio ma l’indomani mandava i soliti due scagnozzi a mettere sotto estorsione quel ristorante.

    Iole aveva una personalità particolare ma duttile perché grazie alla sua cultura era capace di dialogare amabilmente in qualunque situazione si trovasse e con qualunque interlocutore, tanto da riuscire a sedersi insieme ai politici quando dovevano spartirsi le mazzette per gli appalti pubblici.

    Era capace di trarre profitto da qualunque situazione, anche quando si trovava in vacanza insieme alla sua famiglia, come accadde allorquando si andò in un villaggio turistico alle Maldive e conobbe un olivicoltore toscano il quale, durante la loro comune vacanza, gli manifestò la sua difficoltà a proporre il suo olio nel territorio di Cariddi ed allora Iole gli disse di essere disponibile a fargli vendere il suo prodotto con una provvigione del 5% sul venduto per i futuri 2 anni.

    Dopo la vacanza, l’imprenditore toscano inviò a Cariddi il suo rappresentante di zona che, accompagnato da Iole, riuscì a convincere i titolari dei più noti supermarket della città ad acquistare il loro olio, redigendo importanti ordini per un fatturato di particolare consistenza.

    Per i due anni a venire Iole percepì la provvigione sugli ordini senza essere mai più andato in quegli esercizi commerciali.

    Il suo carattere e la sua intelligenza facevano sì che egli fosse particolarmente rispettoso nei confronti dei capi anziani di qualsiasi organizzazione criminale, tanto che, nonostante fosse battezzato in Cosa Nostra, nella quale era tenuto in grande considerazione, era stato cresimato, prima del matrimonio, dal boss della n’drangheta di Milano, il famigerato don Pepè MORATO, che era diventato il suo padrino ed il suo mentore.

    Queste sue caratteristiche lo rendevano particolarmente apprezzato dai capi di Cosa Nostra che vedevano in lui uno dei futuri responsabili dell’organizzazione, così come i vertici della n’drangheta che nutrivano particolare rispetto per Iole, ritenendolo affidabile e soggetto dalle luminose prospettive.

    L’omicidio dei fratelli INGEMI

    La cattura di Melchiorre SPERA divenne il nostro obiettivo primario, così come per i Carabinieri, dopo che, nei primi giorni di Settembre del 1993, alcuni suoi fidati killer, Enzo CASTRO e Melo MAZZA, avevano trucidato, a bordo della loro auto, i fratelli INGEMI, affiliati del clan mafioso ARENA, all’epoca in guerra con il clan SPERA, contrapposti in una sanguinosa faida.

    Ma ciò che rese ancora più tragico il destino dei due fratelli fu il luogo ove gli stessi vennero assassinati. Accadde che mentre i due germani erano a bordo della loro auto e precorrevano il Viale Vittorio Emanuele nel quartiere Ciaramita, furono raggiunti da un’altra auto con i due killer a bordo che, una volta che affiancarono la loro Fiat Croma a quella dei due giovani, esplosero al loro indirizzo centinaia di colpi di kalashnikov.

    L’aspetto più crudele di quella tragica ma immediata morte fu quella che la loro Fiat Punto, ormai senza guida, andò poi a finire la sua corsa contro il cancello della casa della madre degli INGEMI che, dopo il botto causato dall’impatto tra l’auto ed il muro di cinta, uscì nel terrazzino e vide davanti ai suoi occhi l’orribile scena dei suoi due figli martirizzati e agonizzanti.

    Lo scenario era orribile, l’auto era stata trafitta da oltre cento colpi di mitra che aveva perforato la carrozzeria della modesta Fiat Punto da parte a parte.

    La tappezzeria dell’auto da grigia era diventata rossa per il sangue fuoriuscito dai due miseri corpi, oltraggiati dai numerosi proiettili che li avevano trapassati da parte a parte. Nella carrozzeria non esistevano più né i vetri laterali dell’auto, né il parabrezza, e il mezzo era accartocciato nella parte anteriore. Il corpo di Gabriele, il minore dei due fratelli, era appoggiato sullo sterzo con il capo rivolto verso l’esterno e lo sguardo perso nel cielo, mentre il fratello era riverso su un fianco, con il capo rivolto verso terra come a volersi riparare dai colpi di mitra.

    La scena fu immortalata dalla foto di un giovane reporter free-lance che passava casualmente con il suo scooter per quella strada che, intuendo la tragedia che si era consumata, ritrasse in una foto l’anziana madre, in ginocchio con le mani sul volto, piangere ai piedi dei due figli straziati dai colpi di kalashnikov, immagine che fu riportata su tutti i quotidiani nazionali e su tutte le testate televisive nazionali ed internazionali con enorme risalto.

    Era l’08 di

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