La scala della perfezione
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Hilton dimostra profonda conoscenza dei grandi autori della tradizione monastica - Agostino, Gregorio il Grande, Bernardo e i Vittorini. Il suo messaggio conserva intatta la freschezza originale e può rispondere a quanti cercano la nitidezza di una vita interiore senza confini.
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Anteprima del libro
La scala della perfezione - hilton walter
LA SCALA DELLA PERFEZIONE
Walter Hilton
Gribaudi
Piero Gribaudi Editore
© 1989-2018 Piero Gribaudi Editore srl
Titolo originale dell'opera: The Scale of Perfection
Traduzione di Angelo Pisani
Copertina di Ideaesse
Con approvazione
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J. Lafrance, Preferire Dio
J. Lafrance, In preghiera di Maria madre di Gesù
M. Delbrêl, Il Rosario, Meditare i misteri di Cristo
Sant'Alfonso Maria de' Liguori, Apparecchio alla morte
E. Suso, Il libretto dell'amore e altri scritti
E. Stein, Figlia d'Israele, figlia del Carmelo
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PRESENTAZIONE DELL'EDITORE
Se ho scelto di presentare al pubblico, fra i molti testi di orientamento mistico medievale, La scala della perfezione di Walter Hilton, i motivi sono:
1. Si tratta di un capolavoro universalmente riconosciuto come tale, mai prima tradotto in italiano;
2. Proviene da un ambiente, quello anglosassone, che si è sempre contraddistinto - anche in campo spirituale - per una sua peculiare concretezza e umanità;
3. È un'opera che, pur rivolta a una consacrata, è in assonanza con la ricerca di assoluto che contraddistingue l'uomo d'oggi, assoluto che solo una vita di tipo contemplativo può evidenziare.
Questo terzo motivo è fondamentale, perché sempre più, a singoli e collettività, appare chiaro che la strada che ha imboccato l'uomo a un certo punto della sua storia è senza esito, o con esito letale per l'umanità intera. E perché non ci siano dubbi su quale tipo di strada si tratti, è la strada dello sviluppo economico - e quindi materiale - che sta occludendo quella dello sviluppo interiore e spirituale.
È un discorso che detto così, senza mezzi termini, infastidisce, lo so, e può anche irritare perché ne trascina inevitabilmente con sé molti altri, scomodi, inquietanti e apparentemente senza sbocco. Ma proprio per questo è un discorso che va fatto. Questo discorso è il «caso serio» per eccellenza, direbbe Kierkegaard, da cui tutto è sempre dipeso e sempre dipende.
Purtroppo questo discorso, che fluiva copioso dal seno della Chiesa, si è come inceppato. Si direbbe che questo «centro» di tutti i problemi sfugga in parte alla Chiesa. Come se si trattasse di un punto «debole», di cui è bene parlare sì ma fino a un certo punto.
Eppure l'urgenza della situazione è sotto gli occhi di tutti. «Hanno occhi e non vedono». Non si è forse «vista» una trasmissione televisiva parodiare in certo qual modo la confessione, non più da «solo a solo» ma davanti a milioni di telespettatori? Non è forse questo - tra mille - un segnale preciso di come il problema centrale dell'uomo sia, oggi come sempre, la percezione di una sua radicale (e originaria) insufficienza? Di qui il misterioso anelito ad una pace con se stesso che sola s'intuisce autentica fonte di concordia, armonia e oserei dire «logica» con l'intero piano della Creazione.
La scala della perfezione scende o sale? Nel linguaggio di tutti i mistici si tratta di un'ascesa, meglio di un'ascesi. Sarebbe più esatto dire che scende, in quanto si tratta di un calarsi sempre più a fondo nella unicità e nella semplicità essenziale di sé; un calarsi che è sostanzialmente uno spogliarsi progressivo di ogni superfluo - o considerazione di sé, considerazione altrui, gusto del possesso, piacere della logica, del desiderio, della «riuscita». Tutto ciò per raggiungere quella «perfetta letizia» francescana, quella «gioia» di cui parla il Vangelo, letizia e gioia che non sono vaneggiamenti di utopisti o velleità di impotenti, ma realtà palpabili da chiunque e da chiunque attingibili, purché si scenda, si continui quotidianamente a scendere, si riduca via via l'area dell'«Io» con un lavoro di scure che non lasci elementi surrettizi all'autentica povertà nello spirito richiesta dalle Beatitudini.
Forse partendo da un'ottica un po' riduttiva, che è comunque frutto della mia personale esperienza, i pochissimi uomini realmente «grandi» che ho incontrato nella mia vita avevano effettuato tutti questa discesa, fino ai gradini più bassi: il sacerdote Giovanni, il contadino Giuseppe, la baronessa Laura, l'eremita Winfried. Tutti, insieme alle Suore di clausura con cui da decenni sono in contatto, avevano una peculiarità: la capacità di ridere, la propensione al sorriso non soltanto ma alla risata «aperta». Da essi ho appreso - per contagio totale, non dalle parole né dai gesti soltanto - quel poco di sapienza che ho, che continuamente perdo e di cui continuamente sono alla ricerca come della perla più preziosa. Quel poco di sapienza che è però l'essenziale di tutto: il riconoscere il mio assolutamente totale nulla e - di conseguenza - la mia sovrana libertà.
Non è un cammino facile. Io non lo avrei né saputo né potuto intraprendere senza la complicità sempre più stretta con la compagna della mia vita, in un'avventura che proprio mentre scrivo conta esattamente trent'anni di matrimonio. D'altro canto, su questo cammino una guida o un complice ci vogliono. Da soli, senza controllo e critica serrata da parte di un altro - direttore di spirito o coniuge - è facile cadere nell'inganno più tragico: quello di racquisire da un lato, quasi senza accorgersene, quel che si perde dall'altro, sì che il nostro Io s'impingua del nulla a cui tende diventando un mostro di vuoto. Ben lo conoscono questo rischio tutti i «professionisti della contemplazione», dagli autori de La Filocalia a Walter Hilton alla piccola Teresa.
Ciò su cui vorrei riflettesse il lettore che abbia ricordi e memoria è che questo atteggiamento contemplativo, questa disposizione alla discesa erano tipici - fino a non molto tempo fa, a me pare fino a ieri - della gente cristiana in generale. Oggi si parla tanto di «preghiera continua», di «preghiera del cuore» come di nuove scoperte; ma che altro erano la vita sostanziata di preghiera dei nostri vecchi, soprattutto di campagna? Che altro erano le «orazioni» del mattino e la benedizione della frugale colazione, le giaculatorie e i «pensierini» durante il lavoro, l'«Angelus» di mezzogiorno e della sera, la benedizione vespertina, il rosario recitato insieme al sopravvenire della notte, le ultime orazioni prima di dormire? che altro era quel continuo riferirsi a Dio in ogni evento quotidiano, buono o cattivo che fosse? Certo tutto ciò poteva diventare «routine» - e di fatto in moltissimi casi diventava - o, peggio, superstizione. In ogni caso esisteva un ambiente favorevole alla «contemplazione», all'unione con Dio, alla relativizzazione del proprio egotismo, non ultimo l'ambiente naturale, che è forse, se non il primo gradino, certamente la soglia della scala di ogni perfezione.
Senza mettersi alla ricerca di colpe che certamente ci sono - e principali sono quelle di un postconcilio (non di un Concilio, si badi) singolarmente convinto della bontà intrinseca dell'uomo, «rousseauiano» per dirla con un termine orribile ma preciso - l'attuale situazione, sia sociologica che religiosa che «naturale», parrebbe assolutamente inconciliabile con un atteggiamento e personale e comunitario di tipo contemplativo.
Epperò accade un singolare fenomeno: più tale situazione s'incancrenisce, più il malessere psicologico, morale e religioso si fa sentire con spasimo e cerca risposta in manifestazioni oblique (dottrine esoteriche, dottrine zen, yoga, buddismo e via dicendo). Ciò sta a significare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l'anelito religioso dell'uomo non scompare quando gli si offrono i servigi della scienza e della conoscenza più raffinate, ma sono inscritti nella sua natura primordiale.
E pare per lo meno strano che la Chiesa - che possiede la carta vincente - esiti a buttarla oggi sul tavolo, quasi vergognandosene, consegnando a mille rivoli altrui un «successo interiore» che le appartiene per natura e che è di sua specifica competenza; un «salto di qualità» che - nell'attuale contingenza - potrebbe divenire realmente una sorta di «mutazione genetica» dell'intera umanità.
La responsabilità al riguardo è enorme. L'uomo attende - in un frangente che, per chi conosce la storia, potrebbe rivelarsi di breve durata - che gli venga esposto, anche con le parole, un piano di salvezza, per il suo oggi e per il suo oltre. E la Chiesa, da un lato esaurisce il suo fiato spirituale in orizzonti di umanitarismo di marca filantropica, dall'altro si chiude ogni prospettiva di penetrazione spirituale con irrigidimenti sul piano della morale sessuale che, si abbia il coraggio di dirlo finalmente, non ha nell'Evangelo che un'accentuazione molto limitata.
Comunque si voglia controbattere, è certissimo che la sirena che ha incantato le anime del calibro di un Agostino, di un Pascal, di un Kierkegaard oggi non canta più. Perché di sirena si tratta, di seduzione si tratta. Gesù è sempre stato il massimo dei seduttori («seduce il popolo»). E quale più grande seduttore di Jahvé nel contesto dell'intero Antico Testamento, che altro non è che la più mirabile storia di amore frustrato, di amore offerto e rinnegato, di amore ferito, di amore infine crocifisso; la più strabiliante storia d'amore di tutti i tempi e per l'eternità? Ecco: si ha vergogna a parlare dell'amore di Dio e dell'amore per Dio, scomponendo queste due tensioni fondamentali inscritte l'una nell'immenso oceano dell'universo, l'altra nel piccolo mare del cuore umano, in segmenti psicologistici; mentre si tratta di un dramma, com'è dramma ogni atto vitale, dramma l'evoluzione naturale e dramma l'evoluzione spirituale. Si ha vergogna a parlare d'amore, perché si sta perdendo l'istinto dell'amore, l'irragionevolezza dell'amore, la follia dell'amore; mentre tutto, nel Nuovo come nell'Antico Testamento, è istinto, irragionevolezza, follìa. Gesù rivela l'amore del Padre, ma lo può fare, a prezzo della Croce, perché esiste l'istinto, nel patrimonio genetico dell'uomo, di una generazione divina e di una colpevolezza originaria. La Genesi non è una bella favola. È la trasposizione in chiave mitica di una coscienza, oscura ma bruciante nel cuore di ogni uomo, del passato come del presente come del futuro.
Si parli dell'amore di Dio. Si viva l'amore di Dio. Si testimoni l'amore di Dio. Si confessi l'amore per Dio. Si pianga l'amore per Dio. Si osi l'amore per Dio. Questo è il tempo. E ogni ragionevolezza la si lasci alle mille attuali razionalizzazioni, deboli oggi come non mai, insoddisfacenti e in crisi come non mai, povere e in continua reciproca contraddizione come non mai. In un mondo socializzato come l'attuale, si vada sì alla ricerca dell'emarginato, del «diverso», del discriminato; si usi sì la carità del concreto. Ma non si faccia finta di non capire che, ben più di questa carità, oggi urge la carità dell'amore (pare un gioco di parole ma non lo è): verso se stessi in primo luogo, sì da trasformarci nel modo in cui solo la vita contemplativa, o comunque assidua nel frequentare il Dio che geme in noi, può trasformare; e verso gli altri quando si sia raggiunta quella pace, sorriso, pienezza, semplicità interiori che da sole, automaticamente, senza bisogno di proclami né di tanti discorsi, sono irradianti.
Stentiamo a renderci conto che è stata la Crocifissione di Cristo - cioè un gesto, il gesto supremo cui l'uomo possa essere chiamato - a capovolgere il mondo; il messaggio evangelico, senza quella Morte, non sarebbe stato neppure tramandato. Ne avremmo avuto qualche eco - nella migliore delle ipotesi - da una qualche scoperta sul tipo di quella di Qumrân. Senza quella Morte, non ci sarebbe stata Risurrezione. Ma nessuno assistette alla Risurrezione e pochi videro il Cristo risorto. A quella morte ignominiosa invece assistettero in molti (esclusi forse proprio coloro che vi avrebbero dovuto assistere); e tanto fu più folgorante e travolgente quella Risurrezione, quanto più reale, ingiusto, acerbo fu il gesto di quel morire. Al punto che - forza e intuito della psicologia religiosa umana - fu il Crocifisso e non il Risorto ad essere il simbolo del cristianesimo. Forza della Croce, forza del gesto silenzioso, della provocazione, del contagio diretto da Morente a morituri.
Gesti. Ma l'ascesi - se così si può dire - di Cristo portò a quel Gesto perché perfetta. Ed è qui che bisogna intendersi. La scala della perfezione non è l'ascesi (o la discesa) alla vita, come è comunemente intesa; è la discesa agli inferi, è la morte nel suo senso più pieno, ed anche pauroso. Quando l'ascetica del buon tempo antico parlava di «morte dei sensi», «morte al mondo», ecc. non intendeva umiliare l'uomo; forse molti la intendevano così, e molti così la insegnavano. Ma il colossale equivoco che tuttora separa tanti dall'esatta comprensione del messaggio evangelico, è che questi intenda disprezzare, dimezzare, colpevolizzare la vita così come lo facevano alcune (non tutte) correnti stoiche.
Oltre che storicamente non provato, è un po' da dementi credere che tutte le «discipline» ascetiche dei secoli più fortemente e autenticamente cristiani siano state vissute per una sorta di feroce masochismo. A una tale tensione autodistruttiva non si sarebbe potuto resistere per più di poche generazioni.
Se invece l'ascesi (o la discesa) fu praticata ed è praticata, è perché unicamente la morte, ed ogni tipo di morte, è realmente liberatrice, è liberatoria per eccellenza. Dà cioè all'uomo l'autentica liberazione del Sé da sé. Lo rende benevolo secondo l'antica condizione iniziale, pacificato come ai primordi, semplice come antecedentemente al peccato delle origini, unitario come allora, non disperso, non frantumato, non disgregato.
Si comprende allora il perché segreto che anche oggi - e forse soprattutto oggi - attira il non-credente o il giovane (più sovente la giovane), quando giunge il momento della crisi religiosa, verso soluzioni assolute, di vita monastica claustrale. Per un paradosso tipico della Realtà religiosa, è proprio allora che l'uomo tiene i piedi solidamente per terra (anche se chi assiste a certe conversioni totali crede esattamente l'opposto: «Ha perso la testa»); capisce cioè che la chiamata di Dio è sempre totale, o non è chiamata di Dio. E vi aderisce nel modo umanamente più perfetto, cioè con la perdita totale di sé agli occhi del mondo.
Possa questo libro far capire a qualcuno che tale perdita di sé è realmente il «guadagno» promesso dal Vangelo; e che è su questo tipo di guadagno che va impiantata la nuova economia dell'umanità.
PIERO GRIBAUDI
L'AUTORE E L'OPERA
Il XIV secolo fu per l'Inghilterra un vero fiorire di opere spirituali. Oltre a Walter Hilton e all'Anonimo della Nube, autori quali Richard Rolle e William Flete composero scritti destinati a formare e guidare intere generazioni successive. Forse fu la Guerra dei Cent'Anni (1337-1453), che impegnò l'Inghilterra in un conflitto estenuante contro la Francia, a determinare un ritorno all'interiorità, al profondo, a Dio. O forse fu l'atmosfera che si respirava un po' in tutta Europa; non dimentichiamo che il '300 fu anche l'epoca di Eckhart, Angela da Foligno, Caterina da Siena, Tommaso da Kempis, e che molti monaci ed eremiti inglesi ebbero contatti e scambi con la scuola mistica italiana. Sappiamo ad esempio che William Flete abbandonò nel 1359 l'Inghilterra per vivere come eremita a Lecceto, in Toscana, e qui ebbe un lungo carteggio con Caterina da Siena, della quale fu probabilmente anche il maestro di teologia.
Walter Hilton è da un lato figlio del suo tempo e dall'altro profondamente originale e quindi destinato a superare le barriere spazio-temporali. Dopo aver studiato con tutta probabilità a Cambridge ottenendo il baccalaureato in diritto civile, e dopo aver trascorso alcuni anni nella diocesi di Lincoln, si fece eremita presso gli Agostiniani di Thurgarton e qui visse fino alla morte, avvenuta nel 1396.
Scrisse in latino quattro Lettere su argomenti devozionali, e un Tractatus de adoracione imaginum; compose in inglese quattro Lettere, una indirizzata a un laico e le altre su Salmi e Cantici; tradusse alcune opere in inglese, fra le quali lo Stimulus amoris di Giacomo da Milano. Ma l'opera maggiore di Hilton, senza la quale sarebbe stato solo un personaggio di secondo piano, è quella che, forse dopo la sua morte, è stata intitolata La Scala della perfezione.
Scritta in inglese e divisa in due parti, l'opera è, a differenza degli scritti di Richard Rolle e della Nube, un vero e proprio manuale di vita spirituale, con i suoi gradini e le sue leggi, con cui Hilton si rivolge ad un'amica, probabilmente un'anacoreta, e a lei fornisce un'analisi molto dettagliata e concreta dei progressi nella vita spirituale, dagli inizi difficili e tentennanti fino alle vette della contemplazione. Tra la stesura delle due parti intercorre certamente un lasso di tempo abbastanza lungo; lo si deduce dal fatto che Hilton pone a conclusione del primo Libro la parola «Amen» lasciando intendere che per lui l'opera è compiuta, e che il secondo LIbro presenta un insegnamento più avanzato e profondo. Si ritiene che questa parte sia stata scritta da Hilton negli ultimi anni della sua vita, probabilmente per sviluppare e approfondire quanto detto nella prima.
L'argomento dei due Libri è lo stesso: giungere all'unione con Dio nella contemplazione. Ma mentre nella prima parte Hilton si sofferma di più sui mezzi che l'anima deve adottare per distruggere in sé l'immagine del peccato e completare così la sua somiglianza con Dio, nella seconda prevale l'elemento squisitamente mistico. Comune invece ad entrambi i Libri è la distinzione tra via attiva o «riformazione nella fede» e via contemplativa o «riformazione nella fede e nei sentimenti» (dove fede va intesa nel suo senso abituale di assenso a Dio e alla verità, e sentimento nel senso di coscienza del cristiano illuminata dallo Spirito Santo) e il richiamo alla necessità del raccoglimento e della conoscenza di sé, al rifiuto dei mezzi umani e delle soddisfazioni sensibili.
Hilton lascia intravvedere dietro di sé i grandi maestri della tradizione monastica - Agostino, Gregorio il Grande, Bernardo e i Vittorini - così come gli autori spirituali a lui contemporanei - l'Anonimo della Nube e William Flete - ma sa filtrare e fondere questo immenso patrimonio con estrema originalità. Parla della notte attiva quando viene ritirato tutto ciò che può soddisfare i sensi, e dell'ardente desiderio di vedere il Dio invisibile che consuma come un fuoco le imperfezioni dell'anima e le tenebre dello spirito (e sembra già di leggere Giovanni della Croce e i grandi mistici spagnoli); ricorda che la creatura è un nulla e che il progresso nella contemplazione è un libero dono di Dio: «Dio è tutto e fa tutto... Tu non sei nulla se non uno strumento dotato di ragione sul quale egli lavora..., perché Dio lavora in tutti noi, a un tempo ci dona la buona volontà e l'efficienza nel lavoro» (Libro II, capitolo 35); avverte che le visioni, le parole interiori e le consolazioni sensibili non sono la contemplazione e, pur non rigettandole, afferma che esse manifestano la debolezza più che la forza dell'anima...
... Ma la vera caratteristica di Hilton non sta tanto nelle cose che dice quanto nel modo in cui le dice: i continui riferimenti alla vita quotidiana e i numerosi esempi concreti presi dall'esperienza comune, danno al testo quella semplicità e levità che mancano a tanti libri di meditazione e di spiritualità odierni.
Hilton dimostra di conoscere a fondo il cuore dell'uomo e ne parla con un realismo e un distacco tipicamente inglesi. Tiene lo sguardo sempre rivolto alle miserie e debolezze umane e, badando di salire un solo gradino alla volta, conduce il lettore quasi per mano, su su fino alla mistica unione con Dio. È facile lasciarsi portare, perché la guida è umile, riconosce la propria inadeguatezza e si presenta come semplice tramite di un Maestro ben più autorevole e sapiente.
La vita di fede è un cammino nel quale non si è mai arrivati, e per giungere alla meta occorre non perdere mai la speranza, non rinnegare il proprio ideale né rallentare lo sforzo; il passo in cui l'Autore esorta l'anima paragonandola al pellegrino che va verso Gerusalemme (Libro II, capitolo 21), è certamente uno fra i più eloquenti di tutta l'opera.
È certamente a passi come questo che si deve la notevole diffusione di questo libro, diventato - dalla sua uscita fino ad oggi - un manuale indispensabile nella formazione dei religiosi e dei laici in Inghilterra e da ora, speriamo, anche in Italia.
LIBRO PRIMO
1. Il cristiano deve fare in modo che la vita interiore e quella esteriore corrispondano
Cara sorella in Cristo Gesù, ti supplico di essere contenta della vocazione con la quale Dio ti ha chiamato al suo servizio, e di restare salda in essa. Sforzati, con la grazia di Cristo e con tutto l'impegno della tua anima, di vivere una vita di santità vera, come richiesto dallo stato che hai abbracciato.
Dal momento che hai abbandonato il mondo, e ti sei data completamente a Dio, è come se fossi morta agli occhi degli uomini. Cerca perciò di fare in modo che anche il tuo cuore sia morto ad ogni affetto e preoccupazione terreni e interamente votato a nostro Signore Gesù Cristo. Tieni sempre ben presente che se ci convertiamo soltanto esternamente, senza dargli il cuore, si tratta di una illusione e di una pretesa di virtù ma non di conversione vera.
Chiunque, uomo o donna, non si curi di una costante vigilanza interiore e si preoccupi di apparire santo solo esteriormente, nell'abbigliamento, nei discorsi e nel comportamento, è una creatura disgraziata. Poiché osserva le azioni degli altri per criticarne le colpe, pensando di essere qualcosa in più di loro, mentre in realtà non è nulla. Così facendo inganna se stessa.
Stai attenta ad evitare tutto ciò e dedicati anima e corpo a Dio solo, conformandoti internamente alla sua immagine per mezzo dell'umiltà, della carità e delle altre virtù spirituali. Solo così riuscirai a convertirti a Dio in modo serio. Non dico che potrai convertirti a Dio in un solo momento e arrivare a possedere tutte le virtù con la stessa facilità con cui ti rinchiudi nella tua cella, ma non dovresti mai dimenticare che lo scopo della clausura materiale è permetterti di giungere più facilmente alla clausura spirituale.
Ti è proibito qualsiasi contatto con altri affinché il tuo cuore possa essere chiuso a tutti gli affetti e a tutte le paure del mondo. In questo piccolo libro mi propongo di indicarti, come ne sarò capace, il modo migliore per raggiungere tale scopo.
2. I doveri di chi ha scelto la vita attiva
Devi sapere che, come dice san Gregorio, ci sono nella santa Chiesa di Dio due forme di vita attraverso le quali i cristiani possono raggiungere la salvezza: la vita attiva e la vita contemplativa.
La vita attiva consiste nell'amore e nella carità che si manifestano esteriormente nelle opere buone, nell'obbedienza ai comandamenti di Dio e nella pratica delle sette opere di misericordia spirituale e corporale, a beneficio dei nostri fratelli cristiani.
È il tipo di vita che si addice a tutti quelli che vivono nel mondo e che godono delle ricchezze e di molti beni, e a tutti coloro che, per classe sociale o per autorità, hanno responsabilità sugli altri e dispongono dei relativi mezzi per farla valere, siano essi persone di cultura o illetterati, laici o ecclesiastici. In breve, a tutti coloro che vivono nel mondo.
Tutti costoro sono tenuti a compiere i propri doveri con zelo e saggezza secondo i dettami del buon senso e del discernimento. Se una persona è ricca, sia anche generosa nel dare; se possiede poco, dia di meno; se non possiede niente del tutto, mostri almeno la buona volontà. Ecco quali sono i doveri materiali e spirituali della vita attiva.
Un'altra caratteristica della vita attiva è la disciplina del corpo mediante i digiuni, le veglie e altre forme di penitenza. Il corpo, infatti, deve essere castigato, con opportuna moderazione, per riparare i passati misfatti, per imbrigliarne inclinazioni e desideri peccaminosi e per renderlo obbediente e pronto ai comandi dello spirito. Se queste pratiche verranno usate con moderazione, benché di per sé siano per la vita attiva, saranno del massimo aiuto anche per chi si trova ai primi passi della vita contemplativa.
3. I doveri di chi ha scelto la vita contemplativa
La vita contemplativa è costituita dall'amore perfetto e dalla carità, sperimentati interiormente attraverso le virtù spirituali, e da una vera conoscenza e percezione di Dio e delle realtà soprannaturali. Questo tipo di vita è riservato in modo del tutto particolare a quanti, per amore di Dio, rinunciano a tutte le ricchezze, agli onori e agli affanni mondani, per dedicarsi, anima e corpo, al servizio di Dio con opere spirituali.
Ora, dal momento che il tuo stato richiede che tu sia una contemplativa - infatti lo scopo della clausura è che ti possa dedicare con maggior libertà e più completamente alle cose soprannaturali - devi impegnarti giorno e notte, con il corpo e con lo spirito, a vivere tale stato di vita al meglio delle tue possibilità, impiegando tutti i mezzi che ti sembrano più adatti allo scopo.
Ma prima di parlarti dei mezzi voglio dirti qualcosa in più della vita di contemplazione, perché tu possa comprendere meglio che cos'è. Sarai in grado di guardare ad essa come ad un traguardo verso cui dirigere ogni tuo sforzo.
4. Il primo grado della contemplazione
Nella vita contemplativa ci sono tre gradi. Il primo grado è la conoscenza di Dio e delle cose spirituali. Lo si raggiunge attraverso l'uso della ragione, gli insegnamenti di altri e lo studio delle sacre Scritture. Non è accompagnato da impulsi di devozione infusi da uno speciale dono dello Spirito Santo.
È il traguardo, più o meno perfetto, delle persone erudite e degli insigni studiosi che si sono dedicati, con grande sforzo e applicazione continua, allo studio delle sacre Scritture. Vi giungono grazie all'intelligenza di cui sono dotati e all'assiduo impegno nello studio, sfruttando i doni che Dio concede ad ogni persona che possiede l'uso della ragione.
Questa conoscenza è buona, e può essere definita parte della contemplazione nella misura in cui implica la percezione della verità e una certa conoscenza delle realtà soprannaturali. Ma non è che la sembianza e l'ombra della vera contemplazione, poiché non comporta alcuna esperienza spirituale o alcun intimo godimento di Dio; queste grazie, infatti, sono concesse unicamente alle anime che ardono di un grande amore per Dio.
Tale sorgente di amore sgorga unicamente da nostro Signore e nessuno che gli sia estraneo vi si può avvicinare. La conoscenza del primo tipo, invece, è comune ai buoni e ai cattivi perché la si può ottenere a prescindere dall'amore. Non si può quindi parlare di vera contemplazione quando eretici, ipocriti o persone del mondo sono a volte più eruditi di molti cristiani, benché non posseggano il vero amore.
San Paolo ci descrive questo tipo di conoscenza: Si habuero omnem scientiam et noverim mysteria omnia, caritatem autem non habuero, nihil sum (1Cor 13, 2). «Se conoscessi tutti i misteri e possedessi tutta la scienza ma non avessi la carità, non sono nulla». Ciononostante, se coloro che possiedono una conoscenza di questo tipo si mantengono nell'umiltà e nella carità, sdegnando con tutte le loro energie la mondanità e i peccati della carne, camminano già su una buona strada che li preparerà alla contemplazione vera. Naturalmente se, con animo sincero e devoto, chiederanno questa grazia allo Spirito Santo.
Accade invece che alcuni, in possesso di un tale tipo di conoscenza, diventino superbi e la usino a sproposito, per accrescere la propria reputazione o la posizione sociale, per ottenere onori e ricchezze, quando dovrebbero usarla, in tutta umiltà, a gloria di Dio e a beneficio dei fratelli, in spirito di vera carità.
Alcuni cadono in eresie, in errori e in altri peccati pubblici che fanno di loro uno scandalo per se stessi e per la Chiesa intera. Di questo tipo di conoscenza san Paolo dice: Scientia inflat, caritas autem aedificat. «La conoscenza da sola muove il cuore alla superbia, ma unita all'amore lo spinge all'edificazione». Una tale conoscenza è per sua natura fredda e insipida come l'acqua, ma se quelli che la posseggono sapranno offrirla umilmente al Signore chiedendo la sua grazia, egli con la sua benedizione trasformerà l'acqua in vino come ha già fatto al pranzo di nozze su richiesta di sua madre.
In altre parole, egli, donando lo Spirito Santo, trasformerà questa conoscenza insipida in saggezza e la fredda e nuda ragione in luce spirituale e amore ardente.
5. Il secondo grado della contemplazione
Il secondo grado della contemplazione si basa principalmente sull'amore di Dio e non sull'illuminazione intellettuale. Questo grado può venire comunemente raggiunto dalla gente semplice e non istruita che si consacra totalmente alla preghiera.
Ecco come si presenta. Quando una persona sta meditando su Dio, può essere mossa, dalla grazia dello Spirito Santo, a slanci di amore e di fervore spirituale, al pensiero della passione di Cristo o di qualche altro fatto della sua vita terrena. Oppure può sentire una straordinaria fiducia nella bontà e nella misericordia di Dio, nel perdono dei propri peccati e nei doni della grazia.
Può anche sorgergli dal profondo del cuore un sincero timore e tremore per i segreti e imperscrutabili giudizi di Dio e per la sua giustizia. Oppure, mentre prega, può accorgersi che il suo cuore si stacca da ogni cosa terrena, mentre tutte le sue forze si protendono all'unisono verso nostro Signore, in fervente desiderio e in estasi spirituale.
In questi momenti non esiste alcuna illuminazione intellettuale delle cose spirituali, dei misteri divini o della sacra Scrittura. La persona, molto semplicemente, sa che non desidera altro che pregare e gustare i frutti della sua orazione, tanto son grandi il piacere, la gioia e il conforto che prova. Non riesce a descriverselo, ma è ben conscia che ciò che prova è reale, perché ne sgorgano dolci lacrime, ardenti desideri e un indicibile affanno. Essi purgano e lavano l'anima da ogni macchia di peccato e la fanno sciogliere di meraviglioso amore per Cristo, così che essa diventa obbediente, sensibile e pronta a compiere la volontà di Dio.
Una tale esperienza è così profonda che alla persona non importa nulla di cosa potrà accaderle, purché la volontà di Dio si compia.
Ci sono poi molti altri sentimenti che io sono incapace di descrivere e che non si possono sperimentare senza una grande grazia, ma chiunque li prova dimora nella carità. E anche se un tale grado di fervore diminuisce, la carità non si perde né diminuisce, eccetto che con il peccato mortale. Ciò è fonte di