Nata su di un tappeto di grano
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Info su questo ebook
Questa storia narra della vita di una donna negli anni 20 in una impoverita Castiglia. Nonostante fosse nata al di fuori del matrimonio, ebbe un’infanzia felice estranea dalle chiacchiere, protetta da sua madre e un’adolescenza segnata da un amore proibito, vittima di un atto crudele che la segnerà per sempre. Conosce di nuovo l’amore e la vita torna a darle un duro colpo. Trascinandosi come molti altri nella miseria, si unisce all’esodo dalle campagne, emigrando ai Paesi Baschi con la sua famiglia dove tenta di ricominciare da capo, ma quando tutto sembra andare bene, le tocca lottare contro qualcosa più forte, il suo destino.
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Anteprima del libro
Nata su di un tappeto di grano - Aranzazu Olabarrieta
I
Era l'anno mille novecento ventisei in una vecchia e impoverita Castiglia, quando timidamente nacque Maria.
Testimoni del suo arrivo furono i campi di grano, un sole caldissimo e un gruppo di contadini che con la falce in mano, stavano con la schiena piegata falciando il grano, alzandosi solo per asciugarsi il sudore che colava sulla loro fronte come spruzzi d'acqua e chiedendo al piccolo aguzzino, quando la sete mordeva, la borraccia.
Proprio li, tra quei campi, una giovane contadina tiro' la falce e prendendosi la pancia cominciò a gridare di dolore, lasciandosi cadere lentamente sopra le spighe dorate.
La donna di nome Giovanna aveva già due figli maschi frutto del suo matrimonio con Teodoro, che dopo sei anni di felice convivenza, la lasciò vedova due anni prima.
- Valentina! Monca! che la Giovanna sta partorendo. - Gridava nervoso Pietro lo scoiattolo, chiamato così per la sua abilità nel salire sugli alberi.
- Che già esce! Già sta qui!
Sdraiata con le gambe piegate sul petto, Giovanna gridava mentre spingeva, sconcertata per il prossimo arrivo del suo bebè.
- Portiamola a casa del mugnaio! - Disse Fernando tremando come un budino. La casa del mugnaio era la più vicina al campo di grano dove stavano.
- Però non vedi che non c’è tempo? La creatura sta uscendo. - disse la monca molto irritata.
Bartola, la monca, era una donna con un pessimo carattere. Portava sempre i capelli raccolti i uno chignon, neri come pece. I suoi occhi erano grandi con lunghe ciglia, con un naso a patata che sembrava un campanellino schiacciato.
Nacque con una malformazione al braccio sinistro essendo più piccolo del destro e una zoppia pronunciata che la faceva ondeggiare al camminare, nulla che le impedisse di lavorare come gli altri.
Lei e sua sorella Almudena erano le levatrici del paese.
- Spingi Giovanna, spingi. Già si intravede la testolina. – Disse Bartola tirando con attenzione.
La bellissima bambina nacque su di un tappeto di grano, cicciottella e capellona, accolta dalla calida brezza del mese di Luglio che, accarezzando le rubiconde guancette, la svegliò dal suo letargo.
- Giovanna! E’ una femmina, una bambina preziosa. –Sussurrò all’orecchio Tina piena di emozione. – Sta bene? Ha tutti i ditini? Lasciami Tina, voglio prenderla. –Piangeva Giovanna, desiderando di vedere la faccina della sua piccola.
Valentina, Tina per i conoscenti, era la sua migliore amica. Erano cresciute insieme e non c’era nessun segreto tra loro.
Aveva un corpo minuto ed era molto magra, il che le dava un’aria così fragile, anche se solo in apparenza, perché’ aveva una forza che nessuno sapeva da dove tirava fuori. Il suo carattere era invidiabile, non si arrabbiava mai a meno che non avesse un motivo più che valido, affrontando i problemi con molta serenità.
I capelli era molto lunghi e lisci, color castano chiaro e, appena poteva, li portava sciolti, perché’ le piaceva che si muovessero con l’aria.
I suoi occhi erano verdi e aveva un grazioso neo che adornava il naso un po’ aquilino. Con una stringa, la monca, annodò il cordone ombelicale, poi lo tagliò e pulì la faccina e il corpicino della piccola, ponendola sopra al corpo di Giovanna, fondendo così madre e figlia in un corpo solo.
La giovane vedova guardò la bambina con gli occhi colmi di lacrime, sentiva un grande amore per quel pezzetto di se’, e accompagnò la sua piccola nel pianto.
- Maria! La chiamerò Maria. – Proclamò Giovanna piena di orgoglio mentre si apriva la camicia e collocava dentro la bimba che, notando il calore che sprigionava il corpo di sua madre, cessò di piangere.
In un vecchio carro di legno, tirato da un’asina, la portarono a casa dove la stava aspettando il dottore avvisato da Anselmo, cugino della partoriente, che corse a perdi collo al casolare di Don Alfonso, medico condotto, per raccontargli l’accaduto.
La monca ordinò di scaldare dell’acqua e con degli canovacci puliti detersero madre e bimba per evitare infezioni.
Don Alfonso le esaminò e, vedendo che entrambe stavano bene, se ne andò.
Giovanna non era una donna bellissima, era però affascinante e graziosa. Aveva occhi neri, i capelli neri irti, le labbra molto carnose e un pavoneggiarsi nell’andare che faceva impazzire qualsiasi uomo.
Si sposò molto giovane, a sedici anni, con Teodoro un uomo molto più grande di lei. Con lui ebbe due figli, Francesco e Luigi.
Suo marito le dette tutto l’amore del mondo perché era molto innamorato, però non fu totalmente corrisposto, non perché Giovanna non lo amasse, lo amava, però non era innamorata.
Gli dette stabilità e lo rispettò sempre ma non sentiva farfalle nello stomaco. Furono felici così finche’ la tubercolosi li separò, lasciando Giovanna sola con due piccoli e una casa malconcia, tutta piena di rattoppi per il trascorrere degli anni.
- Vero che è stupenda? Tina, guardala, tanto indifesa. E’ la mia luce.
- La tua luce è una bocca in più, Giovanna. Che perlomeno quel disgraziato mostrasse la faccia e si occupasse di voi.
- Taci, Tina! Quel indesiderato è morto sia per me che per la mia piccola.
- Morto! Mi capisci? Come il padre dei miei figli, morto.
- Ti capisco Giovanna, però mi ribolle il sangue al solo pensare che lui sta lì bello tranquillo, senza preoccupazioni, come se non fosse successo nulla, - disse Tina piena di rabbia.
- Lo so, anche a me fa male, però non lo voglio nella mia vita ne’ in quella di mia figlia. – Mi sono data a lui perché’ lo amavo, lo amavo pazzamente, senza importarmi di quello che la gente raccontava su di lui, fui una tonta a pensare di essere diversa dalle altre, che mi amava, ma vedi, quando ha avuto quello che voleva, si è dimenticato di tutte le promesse e, quel che è ancor peggio, si è scordato di me.– Giovanna spiegò mentre lasciava cadere sul suo viso sofferente una lacrima di rabbia e dolore.
Le due amiche si abbracciarono. Tina passò amorevolmente un dito sul viso di Giovanna asciugandole le lacrime. Lei si lasciò coccolare.
- Assumo ciò che ho fatto con tutte le conseguenze. Lavorerò duro e porterò avanti i miei tre figli, sopravvivremo degnamente, senza dar importanza ai pettegolezzi. -Quando si fa qualcosa per amore, non può essere sbagliato, così guarderò al futuro con la testa ben alta. – E dicendo questo si girò a guardare la faccina della sua piccola che dormiva pacificamente estranea a tutto, sapendo che lei le avrebbe dato le forze per andare avanti.
-Maledetto russo! – Borbottò Tina.
II
Dopo un’estate calda arrivò un autunno cupo, un gelido inverno e una fresca primavera passando senza sosta sino all’anno mille novecento trentaquattro.
La piccola Maria aveva otto anni. Era diventata una bambina molto sveglia, con lo stesso sorriso malizioso di sua madre. Una lunga chioma bionda intrecciata ornava la sua testa. Gli occhi a forma di mandorla erano di un azzurro intenso. Il naso all’insù e le guance paffute.
Suo fratello maggiore, Francesco, aveva compiuto sedici anni. Era un uomo fatto, alto, moro, con il mento largo e la pelle abbronzata dal sole.
Luigi aveva quattordici anni. Spiccava la sua faccia da bambino con i capelli neri duri e ribelli e dei grandi occhi neri.
Stava sempre dietro a Maria, la adorava, tutto il contrario di Francesco che la incolpava delle burle e degli insulti che attribuivano a sua madre, sempre alle sue spalle perché’ in faccia non dicevano niente, erano solo sussurri velati.
- Eccola, l’amata del russo! – Solevano mormorare tra le altre cose.
Una tranquilla notte, interrotta solo dal canto dei grilli, mentre mangiavano a casa di Giovanna, tutti e quattro, alla luce di una candela, alcuni pezzi di pane duro, formaggio e latte, la piccola Maria li osservava.
Innanzitutto guardò sua madre trattenendosi alcuni istanti, poi guardò Francesco, diede un sorso al latte e continuò con Luigi.
-Mamma, perché’ i miei fratelli hanno i capelli e gli occhi del tuo colore e i miei sono così chiari? E’ perché io assomiglio a mio papà?
A Francesco gli venne un nodo alla gola mentre ingoiava un pezzo di pane con formaggio. Alla fine sua sorella si stava accorgendo che succedeva qualcosa. Era l’occasione perfetta per mettere le cose in chiaro, qualcosa che desiderava fare da tempo.
- Si, scarabocchio!, assomigli a tuo padre. – rispose con rabbia e, senza lasciargli dire di più sapendo il dolore che avrebbe potuto causare, Giovanna agì.
- Francesco! – gridò alzandosi con un balzo dalla sedia, con il braccio allungato, schiantando il palmo della mano sulla faccia di suo figlio.
- Non una parola in più, non dire nulla di cui poi ti potresti pentire, non una parola.
Con vergogna, sapendo che sua madre aveva evitato un grosso dolore alla sorella, si alzò dalla tavola e se ne andò in camera sua che divideva con Luigi, facendo pesante l’aria che si respirava dall’incomodo silenzio.
Lì, sdraiato sul suo letto, ebbe modo di riflettere sull’accaduto, accorgendosi che anche la piccola era una vittima come sua madre e che la colpa era solo di quel disgraziato che incrociò la sua vita, il russo.
Maria non capì la reazione che ebbe sua madre al commento di Francesco.
Che c’era di male ad assomigliare a suo padre, del quale solo sapeva che era un uomo molto buono, che morì di tubercolosi prima che lei nascesse.
-Figlia mia, vai a letto che domani ci aspetta una giornata molto lunga.
La piccola era abituata ad accompagnare sua madre e i fratelli al campo.
Mentre loro facevano varie attività come falciare, trebbiare o separare il grano dalla paglia una volta trebbiato lanciandolo in aria con una forca, lei giocava con Cruz, la sua migliore amica e con altri bambini.
Quello che per gli altri era un duro lavoro, per loro era un gioco molto divertente. Si sedevano tutti insieme, sul laterale alla trebbiatrice, per fare peso, facendo un giretto mentre trebbiavano le spighe.
All’alba Giovanna preparò la colazione. Si alzarono molto presto. Lei lavorava al mattino, però i suoi figli lo avrebbero fatto ventiquattrore ininterrotte, mangiando tra i campi di cereali la pentola piena di ceci che un ragazzo gli portava da parte del signore, restando molto a dormire nei pagliai e prendendo i cappelli di paglia per proteggersi dal sole giustiziere; uscirono all’incontro della banda di mietitori.
All’angolo della casa di Paco stava aspettandoli Tina con il resto della gente, sia uomini sia donne e anche qualche ragazzo e bambino.
La casa di Paco era anche la taverna del paese dove gli uomini saziavano la propria sete di vino. Lì si riunivano quando il tempo libero glielo permetteva, oltre che per bere, anche per spennare ogni essere vivente, mentre giocavano una partita a carte o a domino, intanto che altri si arrotolavano una sigaretta.
Già tutti insieme, camminarono fino alle terre del signorino Gioacchino, un uomo ricco e potente.
Era il sindaco del paese e con il signor Sebastiano, la signora Luisa, moglie di Don Alfonso, il medico, e il signor Agostino, si accaparravano tutte le terre della regione.
Allegramente si dirigevano al lavoro, intonando canzoni, che Maria cercava di memorizzare per poter cantar con loro.
Non c’era tristezza perché tutti erano nella stessa situazione, con gli stessi problemi e la stessa fame e miseria, con le loro gonne cucite e ricucite, con le espadrillas vecchie e bucherellate, poveri però con onore.
- Valentina! Giovanna! – gridò la monca.
- Il signorino Gioacchino ha bisogno di camerieri. Avete capito? – no, non sapevo nulla.- rispose Tina guardando la sua amica.
- Io avevo sentito qualcosa al negozio, però non so cosa fare, non vorrei andare sola. – disse Giovanna un po’ titubante.
- Verrò io con te, così continueremo lavorando insieme, principiante! – rispose Tina amorevolmente con un sorriso smagliante.
- Principiante, te le suona la principiante.
E le due amiche cominciarono a giochicchiare come due bambine, dandosi pizzicotti, la una all’altra, per tutto il corpo.
- Chi è la principiante adesso? Eh? – Giovanna rideva. – tu, tu, tu.... – rideva Tina.
- Che farei io senza di te? – finì dicendo Giovanna mentre si avvicinava alla sua amica dandole un forte abbraccio corrisposto da Tina.
Quando finirono di lavorare, prima di andare a mangiare,