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Il delitto, la legge, la pena: La contro-idea abolizionista
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Il delitto, la legge, la pena: La contro-idea abolizionista
E-book346 pagine5 ore

Il delitto, la legge, la pena: La contro-idea abolizionista

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Info su questo ebook

Il carcere scoppia in ogni parte del mondo. Il numero dei detenuti aumenta ovunque in modo esponenziale pur in una sostanziale stabilità del numero dei reati. Parallelamente cresce il senso di insicurezza dei cittadini dimostrato, tra l’altro, dal boom degli acquisti di armi per difesa personale. In questo contesto ripensare la natura, la funzione e la filosofia della pena non è una fuga in avanti ma un necessario esercizio di realismo. È questo il senso del volume di Ruggiero che esamina criticamente, partendo dai classici, le idee che stanno alla base dei sistemi penali moderni e della stessa concezione dei delitti e delle pene. Le domande sono quelle di sempre: chi punire? perché punire? come punire? L’approccio è quello “abolizionista” dove per abolizionismo si intende non tanto un programma compiuto di interventi quanto «un approccio, una prospettiva, una metodologia, uno specifico angolo di osservazione» alternativi al pensiero unico repressivo e finalizzati alla individuazione di “qualcosa di meglio” dell’attuale sistema penale.
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2016
ISBN9788865791301
Il delitto, la legge, la pena: La contro-idea abolizionista

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    Anteprima del libro

    Il delitto, la legge, la pena - Vincenzo Ruggiero

    1994

    Il libro

    Il carcere scoppia in ogni parte del mondo. Il numero dei detenuti aumenta ovunque in modo esponenziale pur in una sostanziale stabilità del numero dei reati. Parallelamente cresce il senso di insicurezza dei cittadini dimostrato, tra l’altro, dal boom degli acquisti di armi per difesa personale. In questo contesto ripensare la natura, la funzione e la filosofia della pena non è una fuga in avanti ma un necessario esercizio di realismo. È questo il senso del volume di Ruggiero che esamina criticamente, partendo dai classici, le idee che stanno alla base dei sistemi penali moderni e della stessa concezione dei delitti e delle pene. Le domande sono quelle di sempre: chi punire? perché punire? come punire? L’approccio è quello abolizionista dove per abolizionismo si intende non tanto un programma compiuto di interventi quanto «un approccio, una prospettiva, una metodologia, uno specifico angolo di osservazione» alternativi al pensiero unico repressivo e finalizzati alla individuazione di qualcosa di meglio dell’attuale sistema penale.

    L’autore

    Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. Ha condotto attività di ricerca per diverse agenzie nazionali e internazionali, tra cui la Commissione europea e le Nazioni Unite. Autore di numerosi volumi e articoli, ha pubblicato in Italia, tra gli altri, Il carcere immateriale (con E. Gallo, 1989), La roba (1992), Economie sporche (1996), Delitti dei deboli e dei potenti (1999), Movimenti nella città (2000), Crimini dell’immaginazione (2005), La violenza politica (2006), Potere e violenza (con F. Ruggeri, 2010), I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico (2013) e Perché i potenti delinquono (2015).

    Indice

    Premessa

    Introduzione

    Il crimine come avversità

    Giustizia sostanziale e autoregolazione

    Culture della punizione

    Limiti alla sofferenza

    Cristiani sociali e misericordia

    La prassi abolizionista

    Aiuto reciproco e cordialità

    Partecipazione, riconciliazione e lutto

    Conclusione

    Bibliografia

    Premessa

    Solo a traduzione completata mi sono chiesto come questo volume sarebbe stato ricevuto in Italia. Il Paese, tra le altre anomalie, possiede l’élite più abolizionista del mondo: sogna di abolire le regole che la hanno resa potente; di abolire lo Stato, ma solo per i bisognosi; di abolire la prostituzione, ma solo per gli altri; e di abolire il carcere e la magistratura, ma solo per se stessi. E ciononostante, non sono imbarazzato nell’avere dalla mia parte questi eccellenti alleati, anche perché l’abolizionismo si rivolge a tutti. È necessaria, però, una chiarificazione preliminare che apparirà in tutta evidenza nelle pagine che seguono. Nel violare le leggi, vi è da presumere, si ottengono vantaggi ingiusti nei confronti di chi le leggi le rispetta. Di qui l’esigenza, in forma di retribuzione, del pagamento di un debito verso la società. Tuttavia, quando chi commette reati è economicamente e politicamente svantaggiato, ci si potrebbe interrogare sul perché di questo debito. La retribuzione, del resto, presuppone l’esistenza di norme e valori condivisi da cui tutti gli individui traggono beneficio, un patto fondativo basato sulla reciprocità. Di nuovo, non è facile comprendere come gli esclusi possano beneficiare di un simile patto, né stabilire quale vantaggio ricevuto dovrebbe spingerli verso la reciprocità. Si potrebbe allora concludere che chi è privilegiato e trae beneficio dalle norme e dai valori predominanti andrebbe escluso dal processo di riforma che ispira l’abolizionismo. Eppure, diamo all’élite un’altra possibilità. Come si vedrà di seguito, le misure alternative alla pena propugnate dagli abolizionisti sono adatte a persone che, dopo aver riconosciuto il danno prodotto, sono disposte ad assumersene la responsabilità e a ripararlo. La nostra élite, mi pare, non è propensa a farlo. Come sostengono gli abolizionisti, se un reo, dopo essere stato invitato sette, settanta, settecento volte, a comportarsi da persona responsabile, rifiuta l’invito, bisogna accettare il fatto che alcuni preferiscono essere considerati criminali. Se la nostra élite è a proprio agio tra questi ultimi, beh, anche il più radicale degli abolizionisti non può fare altro che prenderne atto, provandone misericordia.

    marzo 2011

    Introduzione

    1. C’è chi ritiene l’abolizionismo una sorta di vascello che trasporta quantità variabili di esplosivo. Lasciando da parte le deflagrazioni, metaforiche o reali, l’abolizionismo ritiene che il sistema della giustizia criminale costituisca in sé un problema la cui soluzione adeguata consiste nella sua tendenziale soppressione (De Folter, 1986). Per allontanarci ancora di più da immagini e suoni esplosivi, potremmo suggerire che l’abolizionismo non è semplicemente un programma, ma anche un approccio, una prospettiva, una metodologia e, soprattutto, uno specifico angolo di osservazione. Certamente, c’è qualcosa di abolizionista nella proposizione secondo cui l’amministrazione centralizzata della giustizia penale dovrebbe essere sostituita da forme decentrate e autonome di regolazione dei conflitti. Un’eco abolizionista si percepisce anche nelle posizioni critiche che avvertono chi intende riformare il sistema penale che occorre inaugurare un processo di conversione collettiva e prendere le distanze dalla grammatica convenzionale che lo caratterizza. L’abolizionismo, infine, può fare da fonte di ispirazione anche per coloro che intendono meditare senza pregiudizi su concetti quali gravità e colpevolezza e ripensare alla dicotomia che separa il bene dal male. Ma, se vogliamo individuare le diverse componenti dell’abolizionismo come scuola di pensiero in senso generale, abbiamo bisogno di una varietà concettuale più ampia. Vi è del resto, in proposito, la diffusa consapevolezza che «non esiste una teoria abolizionista compiuta che ne racchiuda tutte le caratteristiche e gli approcci al sistema della giustizia criminale» (ibid., 40).

    Questo libro è il risultato di un’analoga consapevolezza, e lungi dal proporre una teoria unificante e totalizzante, si limita a esaminare il quadro concettuale in termini filosofici e con riferimento alla teoria sociale, al pensiero politico e a quello teologico, nel quale l’abolizionismo può essere collocato. Vi è da rallegrarsi se il pensiero abolizionista non può essere fatto risalire a una precisa e unica fonte teorica o politica; fortunatamente, la sua natura sfaccettata lo rende inclusivo piuttosto che esclusivo, permettendo a chiunque sia dotato di spirito critico di trovarvi almeno un aspetto minore del proprio pensiero.

    Secondo uno dei rappresentanti di spicco di questa scuola di pensiero, l’abolizionismo è una manifestazione di

    quell’intenso desiderio umano di combattere e superare quelle modalità o istituzioni di natura politica, sociale o religiosa che, in un dato periodo storico, vengono ritenute ingiuste, sbagliate o inique (Bianchi, 1991, 9).

    Quell’intenso desiderio umano evocato da Bianchi è lo stesso che ha dato forza agli antenati degli abolizionisti contemporanei, vale a dire a chi ha combattuto contro la schiavitù e, in tempi più recenti, per l’abolizione della pena capitale. Ma la battaglia continua anche su altri fronti. Come ha argomentato Anton Chekhov (2007, 23), spesso le misure correzionali, che hanno sostituito la pena di morte, continuano a riprodurne alcuni aspetti significativi. Non è necessario visitare la Siberia, come aveva fatto Chekhov, per rendersi conto che il carcere è inteso

    a rimuovere il reo dal suo ambiente, e che una persona che abbia commesso un reato grave viene considerata morta, come se fosse stata giustiziata […] la pena capitale non è stata abolita, ma semplicemente rivestita di una forma meno ripugnante per la sensibilità umana.

    Seguendo l’osservazione di Checov, la detenzione appare come il logico prolungamento della schiavitù. A questo proposito si veda la limpida analisi di Angela Davis, secondo cui il carcere viene interpretato come strumento per la gestione di ex schiavi e come meccanismo di potere per la creazione di inedite condizioni di schiavitù.

    I giovani di pelle nera hanno più probabilità di finire in carcere di quante non ne abbiano i criminali in generale. Mentre la maggioranza dei giovani neri incarcerati ha probabilmente infranto la legge, è il fatto di essere neri non la violazione della legge che li ha messi in contatto con il sistema della giustizia criminale (Davis, 1998, 105).

    Angela Davis (1971; 2003) si batte contro la nostra democrazia razziale per una democrazia dell’abolizione, in un contesto in cui: «si idolatra la libertà, ma si convive comodamente e promiscuamente con la privazione della libertà» (Mendieta, 2007a, 293).

    L’abolizionismo combatte anche contro quel curioso meccanismo di eliminazione circolare identificata da Foucault durante la sua visita ad Attica, allorché notava che la società esclude determinati suoi membri e, rinchiudendoli, li logora, li spezza e li elimina fisicamente. E poi

    il carcere li elimina quando li libera e li rimanda nella società. Lo stato in cui vengono liberati fa in modo che la società li elimini nuovamente, rispedendoli in prigione. Attica è una macchina per l’eliminazione, una sorta di stomaco prodigioso, un rene che consuma, distrugge e rigetta, e che consuma in maniera da poter eliminare quello che ha già eliminato (Simon, 1991, 27).

    Contro questa strategia di eliminazione, il compito primario per l’abolizionismo penale è quello di «costruire un linguaggio politico e un discorso teorico capaci di separare la criminalità dalla punizione» (Davis, 2008, 3). Tuttavia, per essere efficace, una simile strategia andrebbe accompagnata da nozioni alternative di criminalità, da analisi critiche della legge e da un radicale ripensamento della natura, della funzione e della filosofia della pena. Forse, solo un siffatto sforzo teorico può sventare le insidie che Bianchi (1986; 1991) intravede nella storia stessa dell’abolizionismo. Ad esempio, coloro che si battevano per l’abolizione della tortura erano favorevoli alla costruzione delle carceri. I benefattori e i filantropi europei studiavano il sistema carcerario degli Stati Uniti e ne ammiravano l’umanità: «il gentile occhio delle nuove classi medie non accettava più lo spettacolo della crudeltà, e preferiva la crudeltà emanata dalle mura delle prigioni» (Bianchi, 1986, 149). Ma gli attesi benefici della carcerazione faticavano a emergere in quanto i detenuti non venivano trasformati in cittadini rispettabili, produttivi o amanti della legalità:

    Gli stessi edifici utilizzati per la reclusione producevano un numero annuale di persone lacerate, criminalizzate e stigmatizzate, che a parte qualche eccezione, non erano più adatte alla normale vita civile (ibid., 150).

    Come notava de Tocqueville (1956) a metà dell’Ottocento, chi aveva commesso reati rimaneva tra gli umani, ma perdeva il proprio diritto all’umanità. Gli ex detenuti venivano evitati come esseri impuri, e anche chi credeva nella loro innocenza se ne teneva a distanza. Una volta rilasciati potevano andare in pace con la loro vita generosamente restituita, ma era una vita che aveva le sembianze della morte.

    Sono occorse tre generazioni perché gli abolizionisti si risollevassero, raccogliessero le energie e lanciassero nuove iniziative. Un’opportunità propizia si presentò verso la fine del XIX secolo, con l’emergere del modello medico di trattamento, quando la psichiatria e la psicologia sembravano offrire un’alternativa non solo al carcere ma anche ad altre forme di punizione. Le carceri potevano essere trasformate in comunità terapeutiche. Tuttavia, questo modello trattamentale comportava la soppressione dei diritti dei detenuti e la corrispondente espansione del potere degli scienziati della mente:

    Nei tempi andati, prima dell’affermarsi del modello medico, la condanna alla detenzione era una condanna alla detenzione, e i reclusi avevano chiaro quale fosse il loro destino. In molti Paesi invece, l’entusiasmo per il carcere come comunità terapeutica aveva prodotto le condanne a tempo indeterminato, in modo che i detenuti dalla condotta riprovevole rimanevano reclusi più a lungo di quanto la gravità del loro reato potesse giustificare (Bianchi, 1986, 150).

    Nel corso del ventesimo secolo, dopo l’euforia iniziale per quello che appariva un processo di decarcerizzazione, gli abolizionisti si sono poi resi conto che le alternative alla custodia erano destinate a diventare alternative alla libertà.

    Un abolizionismo che prende di mira esclusivamente il carcere può produrre effetti involontari. Come ha fatto notare de Haan (1990), un clima penale mite deriva, almeno in parte, dalla profonda convinzione dei magistrati che la detenzione di lungo periodo produce danni elevatissimi. E se la cattiva coscienza rende relativamente difficile la giustificazione delle pene lunghe, una politica di cattiva coscienza è proprio quella da perseguire, così da rendere altrettanto difficile giustificare la stessa esistenza della detenzione. Una simile politica, tuttavia, non va polarizzata sul carcere o su altre forme di punizione, ma deve produrre concetti altri di criminalità e nozioni diverse del sistema della giustizia criminale nel suo complesso. I capitoli che seguono esaminano questi concetti così come sono stati elaborati dagli abolizionisti.

    2. Se, in termini di attivismo politico e civile, gli antenati degli abolizionisti sono gli uomini e le donne che hanno combattuto contro la schiavitù e la pena capitale, meno agevole è identificare i loro precursori sotto il profilo della elaborazione filosofica. Accontentiamoci, per ora, di una caratterizzazione preliminare e generale. L’abolizionismo si colloca all’interno delle filosofie impegnate a individuare le componenti patologiche dei processi sociali (Honneth, 2007). In queste filosofie predomina l’idea che le società devono incoraggiare il pluralismo delle attività, ognuna da ritenersi degna di valore, e che ogni persona deve essere trattata come un fine e non come un mezzo per il raggiungimento di altri fini. Questa nozione aristotelica (e kantiana) poggia sulla convinzione che la società nel suo insieme non può fiorire quando alcuni dei suoi membri sopravvivono in visibile stato di malessere (Nussbaum, 2000a). Ciò aiuta a collocare l’abolizionismo in una prospettiva teorica, ma c’è bisogno d’altro.

    Mentre in Aristotele è la disuguaglianza che impedisce il fiorire delle società, in Rousseau (1973) è la competizione che, generando inganno e violenza, preclude agli uomini il raggiungimento della vita buona. La competizione, infatti, contribuisce al declino dei sentimenti di sicurezza e allo smarrimento della moralità pubblica: di qui il proliferare di mezzi artificiali per il controllo dei comportamenti. Come Rousseau, gli abolizionisti sono anti-hobbesiani nel senso che, mentre Hobbes propugna il superamento dell’ansia e della sofferenza attraverso un contratto di formazione dello Stato, Rousseau predilige il ritorno a interazioni umane naturali pre-competitive. Ecco una seconda coordinata che può esserci di aiuto per localizzare l’abolizionismo.

    Una terza coordinata si ricollega alla diffidenza di Hegel (1952) nei confronti degli scambi commerciali che, secondo il filosofo tedesco, distruggono quella totalità etica che ha caratterizzato l’esistenza in condizioni naturali nell’antica Grecia. Gli individui, isolati e concorrenti, si allontanano dalla sfera pubblica e smarriscono il senso degli obblighi verso gli altri trasformandosi così in esseri atomizzati (Taylor, 1979). La patologia sociale che ne scaturisce porta alla formazione di identità impermeabili per cui gli individui demarcano la propria area d’intimità e delegano alle autorità la soluzione di ogni problema sociale (Taylor, 2007). Dopo aver designato i guardiani della moralità, ognuno può dedicarsi ai propri interessi materiali, e lasciando ai sentimenti punitivi libertà di diffusione, il successo verrà sempre più celebrato e il fallimento sempre più stigmatizzato.

    Non vi è nulla di utopistico nel tentativo di rettificare le ingiustizie rimediabili: gli abolizionisti non sognano la giustizia perfetta ma mirano a stabilire dei princìpi di giustizia radicale. La loro attenzione rivolta ai rapporti sociali anziché alle istituzioni, al contesto nel quale le persone interagiscono anziché alle norme ufficiali e ai professionisti estranei a quel contesto, rivela uno specifico retroterra politico e filosofico. Secondo la distinzione tracciata da Amartya Sen (2009), vi sono, rispetto all’idea di giustizia, un approccio contrattualistico e un approccio comparativo. Il primo detta princìpi generali, universali e si preoccupa di costruire istituzioni giuste, per il cui funzionamento è necessario che tutti siano acquiescenti. Il secondo approccio, a sua volta, presta attenzione alle diverse modalità con cui le persone conducono la propria vita, si comportano e interagiscono tra loro. Un approccio contrattualistico può essere definito come istituzionalismo trascendente, in quanto è alla ricerca di istituzioni ideali capaci di formare una società perfettamente giusta. Al contrario, un approccio comparativo è alla ricerca di un sistema sociale che soddisfi le persone nella loro vita collettiva concreta.

    Quando la gente in ogni parte del mondo chiede più giustizia globale – e vorrei porre l’enfasi sulla parola più – non chiede una sorta di umanitarismo minimo, né si agita per una società mondiale perfettamente giusta. Chiede semplicemente l’eliminazione di alcune delle ingiustizie più aberranti e maggiore giustizia globale (ibid., 26).

    La comparazione necessita di informazioni, che presuppongono, a loro volta, prossimità tra gli attori coinvolti nella ricerca di idee di giustizia.

    Alcune forme di sofferenza umana possono essere inevitabili e a queste, forse, non v’è rimedio in contesti e momenti specifici. Altre forme di sofferenza sono inutili e rimediabili. Secondo Gouldner (1975), il lavoro del sociologo consiste nel prestare particolare attenzione a queste ultime. La sofferenza penale è evitabile e in particolar modo se ne prova l’inefficacia; e il punto di vista dei detenuti merita d’essere ascoltato, non perché costoro sono dotati di virtù speciali, e neppure perché sono gli unici a vivere in un mondo di sofferenze:

    una sociologia dei perdenti si giustifica in quanto, e fintanto che, la loro sofferenza è poco nota e in quanto – essendo appunto perdenti – la natura e l’intensità del loro soffrire contengono cose che sono evitabili (ibid., 37).

    Analogamente, Nils Christie ci ricorda spesso che la sua intenzione è semplicemente quella di ridurre l’ammontare di sofferenza nel mondo: «non ho mai conosciuto qualcuno che intende aumentarla» (comunicazione personale). Christie sarà particolarmente fortunato nei suoi incontri, anche se il suo punto di vista e quello di altri abolizionisti sono in consonanza con una varietà di nozioni che troviamo in sociologia, in filosofia e nelle scienze politiche.

    L’abolizionismo è una contro-idea sollevata da lavoratori culturali secondo cui: «infliggere pena, a chi, e per quale motivo, comporta una serie infinita di problemi morali». I filosofi – sostiene Christie – dovrebbero affrontare questi problemi, e dovrebbero farlo anche coloro che, di fronte alla complessità degli stessi, sono portati a concludere che non è l’azione, ma il pensiero l’unica arma utilizzabile. «Non credo che questa sia la peggiore delle opzioni se l’alternativa è infliggere pena» (Christie, 1993, 184-185).

    3. Questo libro si prefigge di trattare le contro-idee, il pensiero, l’origine, la filosofia e le conquiste dell’abolizionismo. Come ha preso forma questa scuola di pensiero? Dove sono situate le sue fondamenta?

    Come già sottolineato, l’abolizionismo non è solo una mera strategia o una serie di rivendicazioni miranti alla riduzione (o all’abbandono) della pena custodiale, ma è anche una prospettiva che consente di giungere a definizioni di criminalità diverse da quelle convenzionali.

    Nel primo capitolo si discute del contributo abolizionista relativamente ad alcune definizioni chiave. Punto di partenza è un articolo pionieristico di Louk Hulsman pubblicato in Contemporary Crises nel 1986, in cui le argomentazioni sono corredate con analisi supplementari, fornite da altri abolizionisti. Il capitolo contiene dei suggerimenti relativi all’apparato filosofico che sostiene il pensiero abolizionista, il suo anti-platonismo radicale e, segnatamente, il suo rigetto della distinzione tra bene e male e la sua critica implicita della nozione platonica di virtù come conoscenza. Viene suggerito che i padri filosofici più idonei per gli abolizionisti potrebbero essere Aristotele (1977), per la sua distinzione tra giustizia e equità, e Baruch Spinoza (1959), per la sua visione eretica secondo cui nulla è in sé male o errato in quanto ogni cosa è il prodotto o una componente dell’infinità di Dio e della natura.

    L’eguaglianza giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni dello Stato per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In questa prospettiva eguaglianza significa diritto alla mutua coercizione. Mancare di rispetto alla libertà degli altri equivale a negare loro il diritto alla libertà. Lo Stato interviene per rimuovere questa negazione e per ripristinare la situazione iniziale. La coercizione è pertanto legittima, in quanto sanziona un atto che ha negato la libertà degli altri (Ferrajoli, 2007). Per gli abolizionisti argomentazioni di questo tipo sono valide solo nelle società in cui l’equo accesso alla giustizia si accompagna con l’accesso equo alle risorse. La critica abolizionista della legge e del sistema della giustizia criminale, presentata nel secondo capitolo, s’indirizza a sua volta alle società ingiuste nelle quali viviamo (Holterman e van Maarseveen, 1980). Questo capitolo esamina anche le risposte critiche dell’abolizionismo ad altri assunti comuni: quello che la legge si riferisce agli individui e non agli attori collettivi e quello secondo cui responsabilità e irresponsabilità possono essere stabilite scientificamente. Qui viene sottolineata la prossimità delle argomentazioni abolizioniste a quelle elaborate dai teorici del conflitto, anche se si fa notare come le prime siano dotate di spiccata originalità. Ad esempio, mentre i teorici del conflitto si limitano a criticare il sistema della giustizia criminale come espressione di valori antagonistici e di interessi che operano dall’alto, gli abolizionisti si riappropriano della stessa nozione di conflitto e la trasformano in un’arma da utilizzare dal basso. Il capitolo si concentra così sull’idea che i conflitti vengono sequestrati dal sistema della giustizia criminale nel senso che sono sottratti alle parti direttamente coinvolte. L’atto del sequestro da parte di professionisti comporta una specifica costruzione della realtà che, a sua volta, ruota intorno a un incidente strettamente definito nel tempo e nello spazio, per cui l’individuo è separato dal contesto dove l’incidente (o l’azione) ha avuto luogo. Nel presentare la critica abolizionista del professionalismo legale si avverte l’eco di alcune elaborazioni offerte dalla fenomenologia e dall’etnometodologia come, ad esempio, l’idea secondo cui il significato della criminalità non può essere disgiunto dall’ambiente nel quale prende corpo. Il capitolo si conclude con la contrapposizione tra quella che gli abolizionisti definiscono la giustizia industrializzata, ma anche sacralizzata, che prevale negli attuali sistemi, e la giustizia naturale e sostanziale da loro stessi patrocinata.

    Fra i tratti caratteristicamente critici delle teorie e delle pratiche abolizioniste vi sono quelli che concernono la natura, la funzione e la filosofia della punizione. Il terzo capitolo affronta il tema del carcere disegnando una mappa analitica nella quale individuare i nemici e gli alleati teorici dell’abolizionismo. Si comincia con l’asserzione di Kant secondo cui i crimini rendono i relativi autori di proprietà dello Stato, il cui diritto di punire si presenta perciò come un imperativo categorico. Si discute del rifiuto di Kant di considerare la detenzione come uno strumento riabilitativo e della sua idea che rinunciare alla retribuzione costituisce compassione impraticabile, affettazione. Se in Kant il sovrano ha il diritto di punire, in Hegel è il reo ad avere il diritto a essere punito. Il capitolo procede con l’analisi delle diverse forme di male considerate da Hegel, e della sua idea secondo cui reato e punizione sono facce della stessa realtà. La mappa analitica disegnata in questo capitolo include la critica mossa da Marx a Kant e Hegel e il concetto di punizione come vendetta proposto da Durkheim. Si fa notare l’affinità intellettuale tra Durkheim e Nietzsche e si esamina la teoria dell’evoluzione penale proposta dal primo alla luce delle argomentazioni abolizioniste. Vi sono ovviamente altri approcci all’analisi del carcere e delle sue funzioni. In questo capitolo si suggerisce anche una distinzione schematica tra approcci istituzionali e materiali, vale a dire tra analisi che enfatizzano la funzione regolatrice del carcere in rapporto al mercato del lavoro e del processo produttivo, e analisi che, invece, ne enfatizzano la pura funzione simbolica e retributiva. Sono poi presentate elaborazioni di natura mista, in particolar modo il concetto di zona sociale carceraria, che accoglie gli esclusi, i lavoratori occasionali e i piccoli criminali; in altre parole, i perdenti che costituiscono la riserva umana destinataria della penalità contemporanea.

    La detenzione può essere giustificata se contribuisce a incrementare la felicità più che la sofferenza. Da qui l’urgenza, in ogni teoria della pena, di considerarne le conseguenze sociali. Chi difende la coercizione istituzionale nella forma della pena detentiva può sostenere il trattamento riabilitativo, può essere convinto dell’effetto deterrente, individuale o generale, della stessa o può credere nella sua funzione di incapacitazione dei criminali recidivi. Il capitolo quarto valuta le argomentazioni abolizioniste contro le presunte funzioni del carcere. Secondo il punto di vista di Mathiesen, ad esempio, il carcere è indifendibile anche quando, in versione moderata di retribuzione penale, si assegna ai reati un valore punitivo che si traduce in una specifica quantità di tempo. Mathiesen argomenta che il tempo può essere solo misurato soggettivamente e che la sua percezione dipende dalla prossimità con chi sconta una pena. Il capitolo riassume, quindi, il dibattito sulla presunta evoluzione della pena verso una graduale mitezza e propone una definizione esatta – o che aspira ad essere tale – di quella che gli abolizionisti designano come sofferenza legale. Un paragrafo intitolato Manifattura di handicap cerca di identificare gli effetti concreti della detenzione sui corpi e le menti dei carcerati. Tornando alla mappa analitica tracciata nel precedente capitolo, va notato che gli abolizionisti sono più attenti agli aspetti istituzionali piuttosto che a quelli materiali della pena detentiva, e che le loro preoccupazioni sono principalmente indirizzate alle componenti immorali e distruttive della punizione. Il capitolo si conclude con un’analisi di quelli che Christie considera sviluppi potenziali nella sfera economica che, a suo dire, potrebbero innescare mutamento, produrre solidarietà e, in ultima analisi, condurre a sistemi di convivenza più sensibili verso le idee abolizioniste.

    Come già detto, l’abolizionismo non possiede una singola fonte d’ispirazione teorica o politica, ma ha un retroterra composito dal quale, consapevolmente o meno, deduce argomentazioni e proposte pratiche. I tre capitoli successivi, quindi, mirano a collocare in modo più dettagliato le maggiori figure della scuola di pensiero abolizionista in specifiche tradizioni di pensiero.

    Il capitolo quinto offre una biografia intellettuale di Louk Hulsman, collegando le sue idee con alcuni passaggi cruciali che si incontrano nelle Sacre Scritture dove la misericordia è invocata e la retribuzione respinta. Il vangelo secondo Marco e Luca, insieme alle epistole di Paolo, sembrano offrire un opportuno sostegno teologico all’abolizionismo di Hulsman, che va anche assimilato all’ecumenismo di San Francesco e alla sua convinzione che i ladri non sono quelli che rubano ma quelli che non danno abbastanza ai bisognosi. La teologia radicale, o teologia della liberazione, conferisce anch’essa una significativa fonte di ispirazione, e questo capitolo affianca tale fonte alle argomentazioni abolizioniste avanzate da alcuni giganti della letteratura Occidentale. Con l’anarchismo di Bakunin, Hulsman condivide la convinzione che il conseguimento della libertà richiede un’azione politica condotta religiosamente. In alcune pagine di Marx, Engels, Tolstoy e Hugo troviamo l’eco dei concetti elaborati da Hulsman di redenzione, punizione, auto-governo, misericordia e pietas. Il sistema di pensiero di Hulsman, insomma, rivela un alto grado di sincretismo.

    Simile, se non superiore, è il grado di sincretismo che si riscontra nella traiettoria intellettuale di Thomas Mathiesen, al cui pensiero è dedicato il sesto capitolo. Vi si discute del suo iniziale apparato concettuale di tipo materialista e della sua sociologia pluralistica e interdisciplinare. Gli scritti di Marx ed Engels costituiscono lo

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