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Questo odio non ti somiglia: Omosessualità in divisa
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E-book397 pagine5 ore

Questo odio non ti somiglia: Omosessualità in divisa

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Info su questo ebook

"L'idea che vi fosse un gruppo di persone che in sé possedevano sia la condizione di essere omosessuali o transessuali, sia la condizione di essere persone in divisa, mi sembrava dirompente rispetto agli stereotipi esistenti nel mondo LGBTI, nel mondo delle forze dell'ordine e in generale nella società italiana, dove ogni aspetto tende a essere ideologizzato: essere omosessuali è di sinistra, essere poliziotti è di destra. Queste due caratteristiche apparentemente in conflitto, questa discrepanza, per me era molto interessante. Di fatto come LGBTI in divisa ci troviamo a vivere una doppia discriminazione: come omosessuali nei nostri ambienti di lavoro e non, e come persone in divisa nell'ambiente LGBTI e non." Libro patrocinato dalla Sezione Italiana di Amnesty International.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita26 mar 2020
ISBN9788835394150
Questo odio non ti somiglia: Omosessualità in divisa

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    Anteprima del libro

    Questo odio non ti somiglia - Carlo Scovino

    Ringraziamenti

    Prefazione

    Da oltre quindici anni lavoro con Carlo Scovino e a lui e al suo entusiasmo, alla sua passione, alla sua creatività e capacità di fare rete con competenza, ho affidato molte delle attività terapeutico-riabilitative del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze (DSMD) che dirigo.

    Conosco, apprezzo e condivido la sua attenzione a tutta la materia dei diritti, alla non discriminazione e al principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Ciò rappresenta il fil rouge di tutti i progetti di inclusione sociale, di lotta allo stigma e al pregiudizio che il DSM continua a realizzare anno dopo anno con tenacia e determinazione.

    Il tema dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e del­l’omosessualità in generale ha interessato per molti anni la psichiatria, e non sempre i rapporti sono stati facili. Il 17 maggio 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità cancellò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali definendola per la prima volta una variante naturale del comportamento umano. Quella data viene ricordata ogni anno celebrando la Giornata Mondiale contro l’Omofobia (IDAHO – International Day Against Homophobia).

    Il cammino per arrivare alla decriminalizzazione dell’omosessualità nella storia è stato lungo e tortuoso: bisogna aspettare l’inizio degli anni Settanta per vedere la comunità gay iniziare a richiedere il riconoscimento dei diritti civili in molti paesi occidentali, ma contemporaneamente anche il mondo scientifico iniziò a rivedere le teorie riguardo l’omosessualità, e nel 1974 venne cancellata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) pubblicato dall’American Psychiatric Association (APA). Nella prima versione del 1952 risultava ancora una condizione psicopatologica, ed era compresa tra i Disturbi Sociopatici di Personalità. Nel 1968 era considerata una deviazione sessuale come la pedofilia ed era catalogata tra i Disturbi Mentali non Psicotici. E ancora nel 1974 sui testi scientifici si parlava di omosessualità egodistonica, ovvero quella condizione in cui una persona omosessuale non accetta il proprio orientamento sessuale e non lo vive con serenità. Questa teoria venne superata nel 1987, per arrivare poi appunto al 1990, quando anche l’OMS decise di depennare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Il secondo capitolo di questo libro ripercorre la storia di questo cammino in maniera più dettagliata.

    Il mondo della psichiatria e della ricerca scientifica continua a fornire utili elementi di comprensione non solo dal punto di vista clinico, ma anche da quello socio-culturale, perché contribuisce ad avviare processi di cambiamento verso la parità di tutti i cittadini di fronte alla legge senza distinzione d’età, fede religiosa, appartenenza politica o di censo, scelte sessuali e origine etnica. Recentemente la World Psychiatric Association (2017) ha pubblicato un importante position statement ripreso anche dalla SIP (Società Italiana di Psichiatria, affiliata alla WPA) nel quale si afferma che gli orientamenti sessuali sono innati e determinati da fattori biologici, psicologici, ambientali e sociali e che riguardano una popolazione di oltre 250 milioni di persone (4% di same-sex orientation-gay, lesbian, bisexual – 0.5% transgender).

    Vi è un forte richiamo al ruolo e alla responsabilità che gli psichiatri devono svolgere per sostenere la riduzione delle ineguaglianze sociali e delle discriminazioni, incluse quelle relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale. Oltre a contrastare lo stigma e i pregiudizi essi devono affermare con forza che non esistono evidenze scientifiche che possano cambiare l’innato orientamento sessuale.

    Viviamo in una fase storica in cui il mondo accademico, e non solo, è chiamato a provare a governare situazioni complesse e articolate che richiedono impegno, studio e una ricerca continua e approfondita. La costruzione di una società più affettiva, solidale e rispettosa dei diritti di tutti, così come sono sanciti nella nostra Costituzione e nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ha necessariamente bisogno di persone, idee e pensieri che possano percorrere un terreno a volte accidentato e possano inoltrarsi in territori ancora inesplorati.

    Il tema di questo saggio – poliziotti e militari gay, lesbiche e transgender – non è ancora molto dibattuto e la bibliografia non sembra essere cospicua, a parte alcune eccezioni di avvocati e colleghi psichiatri per lo più di origine statunitense, ma ormai i tempi sono maturi perché l’argomento possa essere adeguatamente affrontato in sede accademica e anche nel dibattito pubblico.

    Gli esempi non mancano, soprattutto le best practices già realizzate da alcuni corpi di polizia e forze militari gay in Europa e oltreoceano (per esempio USA, Israele, Australia).

    Ma l’Italia non sempre è il fanalino di coda: la nascita dell’Os­servatorio contro le Discriminazioni Razziali (nel 2010 in collaborazione con alcune Associazioni LGBT) e il grande impegno profuso dalla Pubblica Amministrazione nei programmi di formazione sugli hate crimes e sulle discriminazioni di carattere sessuale, ne sono una prova concreta. Molto deve essere ancora fatto e molto può essere migliorato, ma nell’attualità gli alti comandi delle forze di polizia e delle forze armate hanno dimostrato, anche con dichiarazioni pubbliche, che si è aperta una nuova stagione (ne sono prova le decine di poliziotti/e militari che si sono uniti civilmente indossando le loro divise d’ordinanza, con l’autorizzazione dei comandi centrali, così come questo testo illustra).

    Una certa cultura maschilista italiana oppone una tenace resistenza ai cambiamenti e alla richiesta e riconoscimento di nuovi diritti. Il Decreto Cirinnà ha avviato un processo che richiederà molto tempo affinché sia implementato nella pratica, ma è inarrestabile, ed è bene ricordare che riconoscere diritti a chi non li ha non significa toglierne a qualcun altro.

    Basti pensare alle persone affette da disturbi mentali alle quali, prima del 1978 (anno della legge 180), veniva negato ogni diritto di cittadinanza nel momento in cui varcavano la soglia di un ospedale psichiatrico. La loro malattia veniva considerata alla stregua di un reato, e venivano iscritte nel Casellario Giudiziario. Dopo l’ingresso nel­l’istituzione asilare, la persona spariva agli occhi del mondo, e con ciò iniziava quel processo di cosificazione che annullava i residui di un corpo, di una mente e di un’anima che necessitavano di cure e di ascolto.

    I diritti non sono mai una questione di bontà d’animo: tutte le persone appartengono alla comunità umana e devono goderne in egual misura. Le grandi battaglie di riconoscimento dei diritti condotte dal movimento LGBT internazionale, da alcuni esimi colleghi e da tante ONG impegnate nella difesa dei diritti umani, hanno dato visibilità a milioni di persone ritenute prima invisibili e malate.

    L’attrazione per lo stesso sesso, l’orientamento e i comportamenti sono alcune delle tante declinazioni e normali varianti della sessualità umana. Il compito di noi psichiatri non è quello di curare l’attrazione per lo stesso sesso (LGBT), ma di accompagnare le persone a vivere sufficientemente bene la loro vita, qualunque sia il loro orientamento sessuale, e offrire se necessario trattamenti con forti evidenze scientifiche.

    Un/a poliziotto/a gay, lesbica o transgender che fa coming ou t può svolgere in maniera idonea le funzioni di polizia e/o militari, perché l’orientamento sessuale non determina competenze funzionali che sono date da una formazione permanente, da un buon addestramento e anche da buone capacità empatiche. Va ricordato che la polizia e le forze militari sono lo specchio del paese che hanno deciso di servire e al quale hanno giurato fedeltà. La tutela della nostra sicurezza e la protezione della sovranità nazionale hanno a che fare con operatori, quale che sia la loro posizione nella catena di comando, che siano in grado di gestire realtà e situazioni sempre più complesse nel pieno rispetto dei dettami della Costituzione.

    Ma la battaglia per il riconoscimento dei diritti non può e non deve escludere coloro che hanno deciso di fare coming out. I tempi lontani del don’t ask, don’t tell non chiedere, non dire –, in vigore presso alcuni eserciti, sono stati in parte lasciati alle spalle (vedi il clamore mondiale suscitato dal caso di Chelsea Manning, che ha scontato sette anni di carcere negli USA e dove ha deciso di cambiare sesso).

    La dichiarazione pubblica del proprio orientamento sessuale da parte di poliziotti/e e militari può provocare ostilità, paura e condanna (e quella non verbale ferisce ancora di più), e questo può avere gravi ripercussioni sul piano della salute mentale, come testimoniato dalle innumerevoli ricerche effettuate in questo campo. Un militare o un/a poliziotto/a che tema ripercussioni sul luogo di lavoro (avanzamento di carriera, trasferimenti ad altre sedi e/o mansioni, ecc.), che quotidianamente combatte una lotta intrapsichica tra le sue pulsioni/desideri sessuali, affettivi ed emotivi e che sa di non poter contare sul diritto al principio dell’uguaglianza di fronte alla legge (la stessa legge che ha scelto di servire e per la quale rischia la vita tutti i giorni) è probabile che soffra di disturbi d’ansia persistenti, di disturbi del sonno e di importanti crisi depressive (anche in questo caso la ricerca ha già prodotto interessanti risultati).

    Credo sia importante in termini scientifici provare a ribaltare la strategia comunicazionale specialmente in questa fase storica dove le informazioni corrono veloci sulla rete senza la necessaria ricerca delle fonti, della fondatezza di alcune affermazioni ecc. Bisogna rispondere ad alcune affermazioni che non hanno alcuna validità scientifica con prove concrete, dati e ricerche validate.

    Ovviamente qui non si tratta di tacitare nessuno: alcuni politici, alcuni giornalisti e alcuni rappresentanti religiosi possono affermare liberamente le loro opinioni, ma gli stessi non possono pretendere di veder riconosciute le loro dichiarazioni da validità scientifica. Siamo nel campo delle opinioni, che sono tutte legittime, ma esse non possono essere utilizzate per validare una presa di posizione religiosa e/o politica tanto più quando parliamo delle scelte/preferenze sessuali delle persone. L’ambito della psichiatria e delle neuroscienze può essere d’aiuto nel fornire risposte, perché la ricerca scientifica, che non è un dogma assoluto, può essere riformulata da ulteriori ricerche e approfondimenti.

    Nella mia carriera di psichiatra ho incontrato pazienti omosessuali, gay e/o transgender, e il mio ruolo è stato quello di accompagnarli a vivere una vita affettiva, sentimentale e sessuale rispondente ai loro desideri.

    Per troppo tempo il codice etero normativo è stato utilizzato (e anche da alcuni psichiatri) come codice di riferimento diagnostico ed esistenziale sul quale uniformare tutto e tutti. Tale atteggiamento non è più rispondente alla realtà attuale, che richiede un approccio metodologico, oltreché scientifico, diverso e che sia inclusivo di tutte le differenze. La stagione dei diritti è ormai avviata (si pensi, ad esempio, alle tante associazioni di utenti psichiatrici nate negli ultimi quindici anni che spronano continuamente i servizi pubblici a essere più efficaci ed efficienti), e il principio della non discriminazione e dell’uguaglianza davanti alla legge risuona sempre più non solo nel dibattito internazionale e nazionale ma anche in quello più famigliare, delle amicizie e della percezione di sé come cittadini con pieni diritti.

    L’Associazione Polis Aperta, che raccoglie un centinaio di iscritti tra poliziotti e militari nonché un gruppo social tematico frequentato da circa tremila persone, ben rappresenta il processo di cambiamento che è iniziato.

    Come spesso accade con i libri, nessuno sa a priori quale sarà la loro evoluzione in termini di diffusione, di richieste di presentazione, di promozione di dibattiti ecc. ma quello che è certo, e me lo auguro, è che questo libro possa far conoscere una realtà così poco nota ai più, aprendo nuovi spazi di riflessione, di libertà e di crescita civile.

    Claudio Mencacci

    Past President Società Italiana di Psichiatria

    Introduzione

    Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

    (art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)

    Questo testo ha subito molteplici aggiustamenti lungo tutto il 2018: un anno che mi ha visto particolarmente provato da una serie di avvenimenti sostanzialmente di natura famigliare. Mi sono chiesto dove iniziasse la mia Storia, dov’erano le fonti della mia vita, quali sommerse avventure e passioni mi avevano forgiato, da dove proviene la molteplicità di moti e tendenze di cui si compone il mio carattere… Un ritmo che tutto abbraccia decide dei nostri pensieri e delle nostre azioni: la curva del nostro destino è parte di un vigoroso e colorato mosaico. La mia inquiétude riesco a comprenderla solo come suprema volontà creativa. Ѐ possibile, se pur è necessario un impegno costante e continuo, accogliere in sé una varietà di impulsi contraddittori: esiste un’armonia in cui le dissonanze si compongono senza dissolversi.

    Non avevo intenzione di scrivere un altro libro sulle violazioni dei diritti umani delle persone LGBT, fino a quando non ho scoperto che sin dal 2005 esisteva in Italia Polis Aperta, la prima associazione per le persone omo-bisessuali e transgender operanti negli ambienti militari e di polizia, con l’obiettivo di liberare l’ambiente di lavoro delle caserme dalla discriminazione legata all’orientamento sessuale.

    L’associazione, attraverso iniziative specifiche di carattere culturale e di sensibilizzazione, si propone di sviluppare una rete di solidarietà fra gli iscritti. Inoltre si prefigge di assistere, nelle forme legali più idonee, i soggetti discriminati. Per i soci fondatori, Polis Aperta ha il significato di polizia democratica, libera e rispettosa dei diritti di tutte e di tutti.

    La scoperta è avvenuta nel maggio 2017 a Torino, durante il mio giro di presentazioni del libro Love is a human right. Omosessualità e diritti umani (Rogas ed., 2016), patrocinato da Amnesty International, di cui sono un attivista, quando un membro dell’associazione Polis Aperta si è presentato e mi ha consegnato un volantino.

    Amnesty International racconta la fenomenologia quotidiana della violenza: la microstoria, la carne del male dell’uomo sull’uomo. La sua forza sta nel dare voce al fatto singolo, all’episodio specifico per il quale si può sempre fare qualcosa, se si vuole. Al di là dell’esito che una campagna/azione può avere, la sua stessa esistenza è un atto di resistenza, una testimonianza contro l’assuefazione spettacolare, contro l’impersonalità e la falsa imparzialità dei numeri. Restituire vita a un solo numero è un evento dirompente e sovversivo che vede nell’informazione la sua arma oggi più efficace: nessuna metafora della violenza e dell’orrore, bensì il racconto tutto umano della sofferenza e della sopraffazione. Amnesty International è un grande racconto vivente: ogni suo capitolo ha un nome, un volto, un’età, un luogo dove vive e sopravvive e a volte purtroppo muore. Raccontare l’ingiustizia restituisce alla memoria quel diritto che le era stato tolto: non è un gesto consolatorio o compensatorio ma è un primo atto di giustizia. Il racconto come liberazione. Spesso la vita delle persone che soffrono dipende dal modo di raccontare, dalla capacità di farsi ascoltare, di spiegare e di convincere: il racconto può restituire quell’umanità che è stata violentata.

    Nella quarta di copertina del libro Liberi di essere, a cura della Sezione Italiana di A.I. (ECP, Firenze, 1997), compare questa scritta:

    Non so quando né come, ma vinceremo perché siamo capaci di fare una cosa semplice che i nostri governanti hanno dimenticato per colpa delle centinaia di arresti arbitrari, torture inumane, esecuzioni sommarie di detenuti in attesa di processo. Noi siamo capaci di sorridere e di essere felici e questo perché siamo uomini liberi…

    Dopo quell’incontro torinese, ancora una volta folgorato come San Paolo sulla via di Damasco (come è successo per la stesura del precedente saggio), sono stato incuriosito dal voler incontrare alcuni rappresentanti dell’associazione e dall’approfondire un tema a me quasi sconosciuto (e non solo al sottoscritto).

    Il giro di presentazione del mio precedente saggio è stato una bellissima esperienza dal punto di vista umano. Ho incontrato tante persone, tra cui moltissimi soci e attivisti di Amnesty International [da qui in avanti A.I.] che mi hanno accolto con calore, partecipazione e genuinamente interessati ad approfondire il tema del libro. Persone di diverse età, provenienza professionale e culturale, ma cariche di entusiasmo e determinazione. Cito Anna, una socia del gruppo di Ragusa (non me ne vogliano tutte le altre socie e soci di A.I.), per la sua tenacia e forza d’animo, che mi ha invitato a proseguire nel mio lavoro di sensibilizzazione e informazione. Ho avuto anche incontri divertenti, e cito a mo’ di esempio quello avvenuto durante la presentazione a Bergamo, dove un giovane simpatizzante di A.I. (21 anni) si è unito a me, all’ex responsabile della Circoscrizione Lombardia e alla mia migliore amica per mangiare una pizza, al termine del­l’incontro. Durante tutta la serata è stato assolutamente a suo agio nella conversazione seria e a volte leggera che si era intavolata. A fine serata mi ha detto Carlo, sei un uomo terribilmente affascinante e per te potrei rinunciare alla mia eterosessualità. Per quanto ne fossi lusingato, mi sembrava un po’ troppo! La sua prorompente e gagliarda gioventù non mi aveva turbato: mi aveva incuriosito la sua vivacità intellettuale. L’eros si nutre di misteri e di tensioni, e quella situazione non aveva promosso nessun tipo di alchimia, non perché il giovanotto non fosse ragionevolmente attraente, ma perché… preferisco lo sguardo di un uomo già adulto e già messo alla prova dalla vita.

    Durante gli incontri non c’erano folle oceaniche, ma costantemente una ventina di presenze (gli addetti ai lavori mi hanno riferito che questa è la media degli intervenuti) e io, che per ragioni personali e professionali sono sempre interessato all’incontro de visu con le persone con le quali posso realmente interagire, ne sono stato onorato e compiaciuto.

    Ho cercato l’unico libro pubblicato in Italia (credo), Non chiedere, non dire? Vite di gay in divisa, scritto dal giornalista Giulio Russo e pubblicato nel 2006 da Ombre Corte, che affronta il tema dell’omosessualità nelle forze armate e nelle forze dell’ordine attraverso molte interviste ai diretti interessati.

    Ho cercato in internet il discorso di commemorazione di Étienne Cardiles, pronunciato il 25 aprile durante la solenne cerimonia per ricordare il suo compagno poliziotto di 37 anni Xavier Jugelé – la persona con la quale aveva condiviso gli ultimi quattro anni – ucciso da un simpatizzante dell’ISIS il 20 aprile 2017 sugli Champs-Elysées a Parigi. Il poliziotto Xavier, con diversi anni di esperienza nel corpo della polizia, era in pausa con alcuni colleghi al momento dell’attacco e uscendo dall’automobile è stato aggredito fatalmente.

    lapide commemorativa posta sul luogo dell’attentato

    Guardiano della Pace da sei anni, era partito due volte per la Grecia per aiutare i migranti, nel 2015 e nel 2016. Xavier era membro di FLAG!, un’associazione che sostiene i poliziotti e i gendarmi LGBT. Per alcuni giorni sono stato accompagnato da quel commovente discorso: rivedevo gli articoli scritti dai maggiori quotidiani internazionali e il viso di Étienne, e non riuscivo a non pensare a quell’amore così intenso, pieno di emozione e così umano. Le frasi che hanno reso celebre questo ricordo: Non avrete il mio odio e Soffro ma senza odio perché quest’odio non ti somiglia [1] .

    La prima affermazione ho deciso di utilizzarla alla fine di ogni capitolo, come una sorta di mantra e di preghiera, affinché ne restasse traccia all’interno delle pagine.

    La seconda mi ha emozionato e mi ha convinto a utilizzarla per il titolo di questo libro con la speranza che possa scaldare il cuore e le menti di molti lettori.

    L’ex presidente della Francia Francois Hollande lo ha ricordato affermando:

    Jugelé era un eroe del quotidiano. Aggredire un poliziotto o un gendarme significa colpire l’autorità dello Stato. La Francia ha perduto uno dei suoi figli più coraggiosi e la Repubblica uno dei suoi migliori guardiani [2] ,

    prima di apporre la decorazione della Legione d’Onore sul terzo dei cuscini di velluto blu posati sulla bara, con le tre medaglie d’oro e il berretto da capitano che gli sono stati conferiti a titolo postumo. Hollande ha anche affermato che sarà celebrato un omaggio nazionale in sua memoria.

    La frase utilizzata da Étienne Cardiles – Non avrete il mio odio – è la stessa usata da Antoine Leiris, che ha perduto la moglie durante gli attentati, sempre a Parigi, del 13 novembre 2015 (ambedue i vedovi si sono abbracciati, lontano dalle telecamere, alla fine della solenne cerimonia di commemorazione).

    Cardiles nel suo discorso ha anche detto: Ti piaceva questo tipo di missione, perché gli Champs-Elysées sono l’immagine della Francia e della sua cultura. In quell’istante, in quel posto il peggio è arrivato [3] . Ha poi continuato ricordando, fra le altre cose, il coraggio del compagno scomparso e la sua grandissima passione per le arti, particolarmente il cinema e la musica, di cui era un grande cultore. Xavier Jugelé era molto attivo nella comunità LGBT parigina e aveva inoltre partecipato, il 13 novembre 2015, alle operazioni di polizia successive alla strage del Bataclan. Quando il locale ha riaperto i battenti con il concerto di Sting, Jugelè è ritornato in quel luogo, e rispondendo alla domanda di un giornalista della rivista statunitense People ha detto: Sono felice di essere qui. Stasera siamo qui come testimoni e per difendere i nostri valori civili. Questo concerto ha lo scopo di celebrare la vita e dire di no ai terroristi [4] .

    Originario della zona di Valle della Loira, nella Francia centrale, Jugelé lavorava nella capitale dal 2014. Si era unito civilmente al suo compagno ma non avevano figli.

    Nel suo toccante discorso Cardiles ha affermato

    … l’interesse pubblico, il servizio verso gli altri e la protezione di tutti noi facevano parte della tua formazione e delle tue convinzioni. Cerchiamo la pace e manteniamo la pace. Quando sono arrivate le prime notizie che riferivano che un grave attacco era in corso sugli Champs Elysees e che un poliziotto era stato ucciso, qualcosa mi ha detto che eri tu. Sarai nel mio cuore per sempre. Ti amo… Soffro senza odio [5] .

    È questa la formula generosa e salvifica alla quale si aggrappa Étienne Cardiles, che ha assicurato di aver ripensato proprio a quelle parole.

    Non era sicuro di farcela, il compagno del poliziotto, ad affrontare nella vastità del cortile della Prefettura di Polizia lo schieramento di autorità civili e militari, i colleghi di Xavier, i rappresentanti delle forze dell’ordine, il giudizio pubblico e le telecamere, che coglievano ogni attimo e ogni dettaglio dell’omaggio nazionale voluto dall’ex presidente François Hollande, alla memoria del gendarme caduto sotto i colpi di kalashnikov.

    Dopo pochi minuti dall’ingresso della bara nel cortile d’onore, avvolta nel tricolore, è risuonato per la prima volta dagli altoparlanti e dagli schermi televisivi di tutta la Francia il nome del congiunto della vittima, omesso fino a quel momento nei discorsi ufficiali, forse per evitare di rimarcare che Xavier Jugelé conviveva con un uomo, a cui si era unito civilmente a norma di PACS [6] , e che militava nell’associazione LGBT della polizia nazionale. Le polemiche, i livori omofobi alimentati dalle chat (causa di un esposto in procura da parte del Ministero dell’Interno) e perfino i battibecchi della campagna elettorale si sono dissolti di fronte alla dignità di Cardiles, che offriva pacatamente e pubblicamente il ritratto di una felicità spezzata per sempre e di un uomo fiero della sua divisa e dei suoi ideali e appagato dalle sue gioie quotidiane quali la musica, il cinema e il teatro. Proseguendo nel suo discorso, Cardiles (funzionario del Ministero) ha affermato: … dovevamo andare in vacanza . I due compagni avevano acquistato i biglietti 48 ore prima, e sarebbe stato il loro modo di festeggiare il passaggio di Xavier dalla 32esima Compagnia di Pronto Intervento al Servizio di Cooperazione Tecnica Internazionale, dov’era atteso qualche giorno dopo l’attentato e in prossimità del suo trentottesimo compleanno.

    Xavier era una persona gentile, un uomo che ha speso la vita per la pace e per i diritti dei più deboli, e non certamente uno di quei poliziotti dalle maniere forti che abusano del potere che gli viene dalla divisa. Étienne Cardiles, durante il suo discorso, ha confessato di provare una sofferenza infinita ma non di non volere vendetta: il suo strazio è senza odio. Le sue parole sono chiare e potenti. Cardiles si rivolge a Xavier, che è come se gli fosse ancora al fianco, perché alla sua sinistra c’è, poggiata su un treppiedi, una grande foto che lo ritrae in divisa di servizio antiterrorismo:

    … sono rientrato a casa senza di te. Con un dolore profondo. Soffro senza odio. Questo odio, Xavier, non l’ho perché non ti rassomiglia, perché non corrisponde in nulla a ciò che faceva battere il tuo cuore e né a ciò che aveva fatto di te un gendarme e poi un guardiano della pace [7] .

    Ritengo il discorso di Xavier una grande lezione di vita, di amore e di politica. L’ex presidente Hollande nel suo discorso ha affermato:

    La tragica morte di Jugelé ricorda a tutti noi quanto dobbiamo alle forze dell’ordine: esse sono lo scudo della nostra democrazia. E lui era un eroe del quotidiano. Chi l’ha colpito ha colpito l’autorità dello Stato… [8]

    Nonostante alcune esternazioni fuori luogo (e censurate dai più), il discorso di Cardiles ha commosso il mondo intero. Sono certo che la sua morte contribuirà in qualche modo, in maniera consapevole o inconsapevole, ad aprire nuove riflessioni sulla questione della non discriminazione nei confronti di poliziotti e militari gay, bisessuali e transgender che esistono in tutto il mondo e chiedono il loro pieno riconoscimento davanti alla legge. Quand’ero bambino mia madre talvolta raccontava qualche evento connesso alla violazione delle norme e al termine del racconto affermava, cambiando il tono della voce, … e poi è arrivata la legge, intendendo con questo i poliziotti in carne e ossa.

    Talvolta ho l’impressione che alcuni politici e giornalisti non si rendano conto che le loro prese di posizione, le loro esternazioni e le loro dichiarazioni massacrano la ragione, contribuendo a fomentare odio e violenza di cui non si sente francamente il bisogno. In un mondo che sembra culturalmente svuotato dai sentimenti e dall’umanità, sono convinto che bisogna recuperare la capacità di prendersi cura l’uno dell’altro, e la cura richiede sempre una certa reciprocità. Parafrasando Martha Nussbaum, per superare l’alterità altrui e conferire un volto concreto al rispetto, la compassione deve tradursi in solidarietà trasformativa e in lotta per il riconoscimento e la giustizia. Nell’ultimo anno ho assistito all’esaltazione della paura tout court. Le paure vanno riconosciute, e non trasformate in ferocia urbana, per far sì che tutti insieme si possa ricostruire un tessuto sociale sempre più umano e solidale. Nell’esaltazione della paura rischiamo di inciampare in un presente triste che sta sotto il nostro naso. Facciamo molta fatica a cogliere e sviluppare il fiorire di nuovi corpi intermedi, diversissimi da quelli del passato, che possano permetterci di dialogare e di capire il valore della reciprocità e di riacquistare fiducia.

    Approcciare alla scrittura di questo nuovo libro ancora una volta è stato un atto creativo, e fors’anche curativo, perché mi ha aiutato a rimodulare la mia oscillante inquietudine e il mio movimentato tono dell’umore, regalo non richiesto della fine di una lunga storia d’amore durata oltre un decennio, e che mi ha lasciato svuotato. Prima di scrivere, come affermano molti autori, bisogna essere anche lettori, e io lo sono sempre stato, e per la stesura di questo libro non mi sono risparmiato. Ho continuato a viaggiare appena le mie condizioni economiche me lo consentivano, quasi sempre spinto da una curiosità intellettuale e sociale, ma anche per allontanare da me gli artigli di un passato che non volevo continuasse ad accompagnarmi. Guardavo e guardo al presente e al futuro come scoperta di nuove possibilità e opportunità, così come faceva Alberto Moravia (stando alle affermazioni di Dacia Maraini). A differenza degli altri animali che occupano un posto determinato nell’universo, gli esseri umani devono trovarsi un loro spazio, costruirsi un mondo proprio, ed è per questo motivo, credo, che non possono stare fermi: devono muoversi, anche se il rischio è di commettere errori fatali. Il logos deve vedersela con la forza motrice del desiderio che ha attraversato compatto il corso dei secoli fino a noi.

    Alcune parti di questo libro continuano (e in alcune parti le ripetono) la riflessione già avviata con Love is a human right, di cui questo testo doveva originariamente rappresentare solo un’appendice.

    Ma le idee fortunatamente mutano e si trasformano, e grazie al suggerimento dell’editore sono approdato alla scrittura di un libro il cui tema è stata un’avventura fatta di nuove scoperte, incontri ed eventi di cui non conoscevo l’esistenza. Sono convinto che la diffusione della cultura e di una corretta informazione siano il principale strumento per contrastare il periodico riemergere di antiche violenze e di nuovi estremismi. Sono altresì convinto che la società contemporanea non possa fare a meno della pluralità delle sue voci e delle sue culture provenienti da tanti luoghi diversi.

    Se si si vuole ribaltare la polemica fuorviante, astorica e ascientifica occorre insistere, e resistere, sulla formulazione di un nuovo modo di dire le cose, di nominare l’innominato e l’innominabile: dentro le uniformi di poliziotti e militari vivono corpi, anime e menti di persone che sono anche gay, lesbiche o transgender, e il loro orientamento sessuale non inficia le loro funzioni.

    Barrington Moore jr, nel libro Critica alla tolleranza (Einaudi, 1970), afferma che

    … l’idea che l’atteggiamento scientifico verso la società umana porta necessariamente con sé una tolleranza conservatrice dell’ordine esistente, o che priva gli studiosi della capacità di penetrare con l’intuizione problemi del passato e del presente, mi sembra completamente assurda.

    La scienza è tollerante verso la ragione e implacabilmente intollerante verso l’irrazionale e il falso. La scienza è una luce fioca e tremolante nel buio della ragione ma è la sola che abbiamo.

    All’interno di queste pagine ci sono anche incursioni nella mia vita privata, famigliare e professionale, e non è stata un’operazione consapevole: è accaduto spontaneamente. Devo confessare che sono anche stato tentato di eliminarle, ma alla fine le ho lasciate perché credo che appartengano al mio modo di scrivere: rimandi e rivisitazioni fanno parte della vita di ciascuno di noi ed entrano ed escono dalle nostre

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