Elisa
Di Maxalla
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Anteprima del libro
Elisa - Maxalla
Indice
Elisa
Nota
ELISA
di MaXalla
Elisa
Copyright © 2019 by MaXalla
Tutti i diritti riservati.
Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore e/o vengono utilizzati in modo fittizio. Ogni rassomiglianza a fatti, luoghi o persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.
ELISA
Una musa, un sogno, ricordi...
- - -
L’angusto abitacolo della macchina è surriscaldato. L’aria proveniente dalle piccole bocchette del cruscotto è caldissima, come quella di un phon acceso da ore. Non ama il getto freddo e umido sparato dal climatizzatore, ma ora si pente di non averlo acceso alla partenza, prima di inzuppare col proprio sudore l’unico completo scuro in suo possesso.
Il rigido colletto della camicia e il nodo scorsoio della cravatta sono un tormento, minacciano di soffocarlo, mentre le scarpe, che ricorda di aver usato solo una volta in vita sua, gli stanno stritolando i piedi, provocandogli dolorose fitte ad ogni movimento sulla pedaliera.
Sai bene che è tutta una farsa... vuoi davvero andarci? Si domanda, per l’ennesima volta.
Più ci pensa, più deve ammettere con se stesso che è stata una pessima idea, ma ormai è per strada e tanto vale andare fino in fondo.
Al suo arrivo, il parcheggio di fianco alla chiesa è già gremito di macchine. Sa di essere in ritardo: la sveglia non ha suonato o, semplicemente, si è dimenticato di impostarla... la sera prima era così stanco da non riuscire a ricordarlo.
Sbuffando, sudando e imprecando, compie una serie di complicate manovre, prima di riuscire a infilare la sua utilitaria fra un cassonetto dei rifiuti e un mastodontico SUV di un orrendo color ocra metallizzato. Chissà perché, ma è convinto che sia l’auto del marito.
Esce, contento di lasciare quella sauna su quattro ruote, e attraversa il parcheggio di corsa, sotto il cocente sole del pomeriggio estivo, che prova a ustionargli la cute della testa, malamente protetta da corti e radi capelli castani spruzzati di bianco.
Trafelato e con i piedi in agonia, raggiunge il portone proprio mentre il sacrestano lo sta chiudendo: sgattaiola all’interno e si unisce alle altre persone giunte lì per quello strano funerale. È completamente fradicio, sotto la giacca sente la camicia appiccicata al petto e rivoli di sudore gli scendono lungo l’incavo della schiena. La folata di aria gelida che lo investe, proveniente dalla lunga navata ricoperta di marmo rosa, lo fa rabbrividire, proprio come il giorno in cui l’ha conosciuta...
In quell’atmosfera attutita, avvertivo il lieve tocco dei fiocchi ghiacciati, che lentamente si posavano sulla copertura in vetroresina della pensilina, giallastra e crepata. Quel fatidico 10 Dicembre era un giorno senza vento, perciò cadevano fitti e perpendicolari, formando una sorta di cortina davanti ai due lati aperti di quell’angolo di plexiglass. All’alba aveva ripreso a nevicare intensamente. Nuovi accumuli ricoprivano i marciapiedi e sull’asfalto si vedevano le due strisce nere entro le quali sfrecciavano le auto, come in una gigantesca pista Polistil in negativo.
Io ero lì, in piedi, alla fermata dell’autobus, a congelare. Battevo forte i denti, nonostante lo spesso piumino azzurro e la sciarpa bianca, che mi avvolgeva strettamente il collo.
Nel vano tentativo di riscaldarmi muovevo i piedi negli scarponcini di nabuk chiaro, ma il freddo attraversava la fine tomaia, l’imbottitura di candido pelo sintetico, le calze di cotone arancioni e, ancora più facilmente, il leggero tessuto dei jeans, gelandomi i piedi e le gambe.
Ogni tanto mi alitavo sulle mani nude, ormai cianotiche e rigide, che stentavano a reggere l’ultimo numero de L’Uomo Ragno
davanti ai miei occhi lacrimanti.
Non è mica sempre così sfigato ‘sto Peter Parker, pensai, voltando la pagina del fumetto e tirando su col naso.
Distratto dalla vignetta, nella quale il nostro amichevole arrampicamuri di quartiere baciava Felicia Hardy, la bella e sinuosa Gatta Nera, non notai il camion lanciato ad alta velocità: fui investito in pieno da un’ondata di putrido nevischio, che la ruota del veicolo sollevò dalla pozzanghera davanti alla pensilina.
Quella schifezza m’imbrattò da capo a piedi, bagnando il piumino, i jeans e soprattutto il fumetto appena comprato, per il quale avevo dimezzato la mia paghetta. I soldi erano sempre pochi; i miei non lesinavano sul mio abbigliamento, ma razionavano i fondi per i miei viveri.
«Ehi!!! Ma... ma che cazz... », imprecai, indietreggiando e andando a sbattere contro qualcuno dietro di me.
«Fai attenzione!», esclamò quella persona, una ragazza.
Mi girai, scuotendo energicamente L’Uomo Ragno
per far scivolare via l’acqua, e notai due anfibi neri, con tre grandi fibbie ciascuno, accanto ad uno zainetto, un lungo gonnellone scuro a balze, la maglia grigia, che fuoriusciva da uno spesso chiodo dal taglio asimmetrico, e una massa di capelli cotonati in stile Medusa... quest’ultimo particolare mi aiutò a riconoscerla.
«Ciao! Anche tu da queste parti?», le chiesi, continuando ad agitare il fumetto.
Non ero l’unico a essere in ritardo per le lezioni, quella mattina. La mia nuova compagna di classe, che in quei due primi mesi dell’anno scolastico non avevo frequentato molto, mi squadrò per qualche secondo. I suoi limpidi occhi castani screziati d’oro, appena visibili nella fessura delle palpebre nere di ombretto e orlate da un deciso tratto di eye-liner, mi fissavano, come se stesse valutando l’opportunità di rispondermi... oppure esaminasse uno strano animale.
«Sì, l’altro autobus è già passato», disse infine, facendo una lieve smorfia con la bocca e tornando a leggere il libro che aveva in mano.
Mi riscaldai al calore della sua voce, il cui timbro pacato e leggermente roco non avrei dimenticato per il resto della mia vita.
«Forse siamo solo noi due ad averlo perso...», dichiarai, guardandomi intorno.
Non c’era nessun altro sotto la pensilina.
«Sì», constatò lei, senza distogliere lo sguardo dalla pagina.
«Qualcosa di interessante?», domandai meccanicamente, senza alcun vero interesse.
Sospirando, la ragazza alzò la copertina affinché potessi leggerne il titolo: Così parlò Zarathustra
di tal Friedrich Nietzsche.
«Ah!», esclamai, sapendo vagamente chi fosse l’autore, ma ignorando del tutto il soggetto del libro.
La ragazza fece un sorrisetto ironico, poi ricondusse la sua attenzione alle parole sulla carta.
Quasi vergognandomi delle mie letture - il fumetto ancora sgocciolava nella mia mano - accettai la sfida alla mia cultura generale che quell’atteggiamento sottintendeva, perciò buttai lì, con aria da conoscitore: «Già, il famosissimo concetto di uomo e superuomo.»
Con quella frase avevo dato fondo a tutte le nozioni in mio possesso sul signor Nietzsche.
La ragazza mi guardò nuovamente, forse stupita dalla mia osservazione.
«Sì, hai ragione, parla proprio dell’Übermensch... l’uomo che diviene se stesso in un’epoca caratterizzata dal nichilismo attivo, definendolo un essere libero dalle catene dei falsi valori etici e sociali, che abbraccia lo spirito dionisiaco e la dottrina filosofica del superomismo
, secondo la quale il nuovo uomo possiede moderne virtù: la creatività, l’amore