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Pianeti dimenticati
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E-book310 pagine4 ore

Pianeti dimenticati

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Fantascienza - racconti (240 pagine) - La prima antologia di “sword & planet” italiana: avventura retro, romanticismo decadente, antiche civiltà, mostri e alieni, astronavi, duelli con pistole laser!


Pianeti Dimenticati è un’antologia sword & planet di avventura retro, romanticismo decadente, antiche civiltà, mostri e alieni, astronavi, robot ribelli, fughe rocambolesche, duelli in punta di spada, showdown con pistole laser, misteriosi pianeti (e altrettanto misteriose fanciulle aliene!), scontri con selvaggi nativi, mostri tentacolari, robot assassini, raggi della morte… Non c'è pausa, non c'è respiro.

Pianeti Dimenticati è ambientato nel Vecchio Sistema Solare, ovvero quello pensato dalla scienza e immaginato dalla fantascienza prima dell’esplorazione spaziale. Mercurio mostra sempre la stessa faccia verso il Sole, Venere è selvaggio e ricoperto di nubi e foreste, Marte è il pianeta desertico con antiche rovine, civiltà decadenti e popolazioni barbariche di Burroughs, Brackett, Bradbury e C. L. Moore, e infine Plutone è impregnato di innominabili orrori lovecraftiani.

Sword & planet: narrativa pulp che riprende i cliché dell'Età d'Oro della fantascienza cento anni dopo, accettando la sfida di riproporre questo genere con linguaggio e sensibilità attuali.

Questa è un'antologia di racconti che si muove su più pianeti e più generi, riproponendo le atmosfere leggere, eppure cariche di violenza dei pulp del ventesimo secolo: dai viaggi su Marte degli anni Venti e Trenta, alle guerre interstellari degli anni Cinquanta, la raccolta si propone come un divertissement dove la satira si mescola col piacere della lettura.


Lorenzo Davia è ingegnere, giramondo e topo di biblioteca. Grande appassionato di fantascienza e steampunk, collabora con varie riviste, tra le quali l'Horror Magazine, il Fantasy Magazine e il Gatehouse Gazette. Suoi racconti sono apparsi nelle antologie Steampunk! Vapore Italico e Iustitiae Mortis delle Edizioni Scudo, Il magazzino dei mondi 1 e 2, 365 Racconti Horror per un Anno365 Racconti sulla Fine del Mondo e 365 Racconti d'Amore (tutte della Delos Books). Tiene un blog sullo steampunk e il retrofuturismo, Rivangare il futuro.

Giorgio Smojver, nato a Padova da esuli giuliani, è laureato in Lettere classiche presso l'Università degli Studi di Padova, appassionato di mitologia comparata e letteratura medievale. È stato per anni bibliotecario e coordinatore del sistema bibliotecario del Comune di Padova, e in questa veste ho curato attività di promozione della letteratura. Ritiratosi, si è dedicato alla scrittura. Ha pubblicato un romanzo, Le Aquile e l'Abisso (Watson) e diversi racconti, tra i quali: L'anello infranto, in Premio Esecranda 2018, L'allodola e i rovi, in Oltre la SogliaCastrum Daemonum in Impero – Antologia Gladius & Sorcery, Watson.

LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2021
ISBN9788825415964
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    Anteprima del libro

    Pianeti dimenticati - Lorenzo Davia

    9788825415131

    Pianeti dimenticati: un'antologia in salsa Googie

    Zeno Saracino

    La fine di un grande conflitto mondiale è sempre foriera di cambiamento: un reale superamento della guerra non sarebbe stato possibile senza l'accettazione della necessità di cambiare prospettiva, di andare oltre la propria fazione, il proprio stato, il proprio partito.

    Eppure proprio quegli elementi che trasformano la pace in un periodo di progresso, appaiono legati a doppio filo al conflitto stesso, ne sono involontari figli: le eccitanti novità della scienza sono il prodotto di una ricerca che trova nella scusante bellica finanziamenti altrimenti impossibili; il boom economico diventa realtà grazie ai boom dell'aviazione intenta a bombardare, degli eserciti intenti all'occupazione; è una crescita possibile solo sulle ceneri di un mondo distrutto.

    I diritti delle donne e delle minoranze passano dall'essere movimenti minoritari a realtà costituzionali solo grazie alla mancanza di manodopera causata dalla guerra stessa; le necessità militari travalicano la struttura sociale, l'obbligano a mutare suo malgrado.

    Una nazione giovane quale gli Stati Uniti attraverso la Prima e la Seconda Guerra Mondiale dovette affrontare questi cambiamenti senza il supporto di uno stato forte o di specifiche tradizioni secolari. Il confuso coacervo di trasformazioni sociali, economiche e tecnologiche degli anni Venti e degli anni Cinquanta trovò un suo originale collante nella produzione letteraria più bassa, appartenente ai giornali, ai pulp, alla narrativa da edicola. Su questa cartaccia letta da ogni classe sociale c'era un genere che dominava le classifiche, giungendo presto ad affermarsi come dominante: la fantascienza.

    Gli Stati Uniti non disponevano di un'eredità storica tale da giustificare i cambiamenti in atto, mentre l'esempio di un'Europa guerrafondaia sembrava scoraggiare l'insegnamento del passato.

    Non restava che ritrovare una forma di unità attraverso lo sguardo a un futuro capace di raccogliere i singoli elementi di rottura e riconciliarli nella visione di una società ideale.

    Dopotutto proprio quegli elementi che la società percepiva come alieni o destabilizzanti rappresentavano invece la quotidianità nella narrazione fantascientifica, diventavano normali.

    La disinvoltura con cui i protagonisti, spesso bambini o ragazzi, adoperavano razzi e tute da astronauta, armi laser e treni supersonici, svolgeva una funzione involontariamente didattica: ammaestrava una giovane generazione a prendere familiarità con strumenti difficili quali la radio, il telefono. Attraverso il medium letterario trasfondeva in queste generazioni l'audacia necessaria a impossessarsi delle novità tecnologiche e a usarle a proprio profitto: diventava così normale usare l'aereo per viaggiare, il dirigibile per attraversare l'oceano o persino immaginare un futuro dominato dall'energia atomica.

    Durante il primo e il secondo dopoguerra la fantascienza svolse pertanto un indispensabile ruolo di collante sociale per ampie fasce della popolazione americana: attraverso i suoi mezzi più umili, ovvero i pulp sfogliati nelle pause delle lezioni o del lavoro.

    Quest'ubriacatura di ottimismo, di fiducia verso il futuro, d'ingenuo amore per il progresso trovava un perfetto connubio con la fantascienza; e i due elementi erano a loro volta accomunati nello stile architettonico Art Déco e a partire dagli anni Cinquanta in quello Googie.

    Chiamato anche popolux o doo-wop, lo stile Googie nasce negli anni Cinquanta quale diretta conseguenza della cultura dell'automobile: la sua caratteristica primaria è la visibilità, il saper attirare l'attenzione di un uomo alla guida. Non esiste stile architettonico che meglio s'identifichi nell'insegna come elemento principale. Cartelli al neon, innanzitutto; conditi di stelle e stelline fosforescenti. E poi tetti a forma di sombrero, insegne che ricordano un boomerang, una cometa, la ruota di un'auto ruggente. Il kitch che mira a catturare lo sguardo: che questo sia inorridito o compiaciuto, poco importa. Caffettiere giganti, hot-dog di plastica, silhouette di automobili e aerei. E ovviamente tanta fantascienza pulp: razzi di ogni genere e tipo, plasticose sagome di pianeti e stelle in orbita e così via…

    Il Googie era lo stile dei benzinai che sorgevano più o meno ovunque; delle caffetterie presso cui sostavano i viaggiatori; dei bowling e dei ristoranti e dei drive-in popolati da una gioventù che si ritrovava all'improvviso a essere protagonista del mercato.

    Ma il Googie, accanto all'elemento consumista, rifletteva anche la corsa spaziale.

    Gli angoli acuti, le strutture a sbalzo, i tetti inclinati, le strutture a raggiera sembravano voler proiettare l'edificio verso il cielo: questi diventava così un aereo spiaggiato, un uccello meccanico semplificato nelle sue forme geometriche, un'astronave giunta da un pianeta alieno.

    Non è un caso se il Googie a sua volta divenne l'emblema dei cartoni animati, specie de I Pronipoti (The Jetson): si trattava, nuovamente, di una forma di fantascienza pulp.

    Pianeti Dimenticati è un'antologia di racconti che si muove su più pianeti e più generi, riproponendo le atmosfere leggere, eppure cariche di violenza dei pulp del ventesimo secolo: dai viaggi su Marte degli anni Venti e Trenta, alle guerre interstellari degli anni Cinquanta, la raccolta si propone come un divertissement dove la satira si mescola col piacere della lettura.

    Se considerate quanto appreso dello stile Googie e lo applicate alla forma cartacea, otterreste sicuramente Pianeti Dimenticati. L'antologia – con un racconto per ogni pianeta – propone storie sgangherate, kitch; epperò che catturano l'attenzione del lettore proprio come quelle insegne anni Cinquanta distraevano l'automobilista. Non sono queste storie raffinate o sottili: ogni scrittore, nello scrivere del proprio pianeta, ha riversato tutte le sue energie per intrattenere lo spettatore, lanciandogli addosso ogni trucco narrativo che gli venisse alla mente.

    Fughe rocambolesche, duelli in punta di spada, showdown con pistole laser, misteriosi pianeti (e altrettanto misteriose fanciulle aliene!), scontri con selvaggi nativi, mostri tentacolari, robot assassini, raggi della morte… Non c'è pausa, non c'è respiro. È un'antologia Googie; e come tale di consumo. Eppure, proprio come lo stile Googie venne rivalutato dai postmoderni verso la fine del Novecento, egualmente l'antologia riflette la mentalità di chi non vuole (non può?) abbandonarsi all'ingenuità d'un tempo.

    Conseguentemente i racconti lasciano trapelare in sottofondo, come d'altronde traspariva dagli stessi anni Venti e Cinquanta, un sostrato di violenza e razzismo assai poco divertente.

    I personaggi umiliano e insultano le minoranze; sono tronfi, stupidi, carichi dell'arroganza di una nazione che ha vinto due guerre mondiali. Il capitalismo non è in questi racconti un sistema economico, è una fede incrollabile; i rigurgiti autoritari sono venati dell'anticomunismo della Guerra Fredda; e la stessa, esagerata, violenza contro gli alieni fa sorridere, ma a denti stretti.

    Un veterano punk – nell'uso disinvolto dei generi, così come nella stessa scrittura – quale Alessandro Forlani abbraccia perfettamente lo stile Googie con un racconto quale V di YVGGOTH dove la satira tracima nel grottesco, sfonda l'(ir)realtà.

    La lezione del pulp viene poi replicata con tutti i suoi eccessi Burroughsiani da Giorgio Smojver con Le Sorelle della Polvere dove un Marte mai così western, mai così antico si sposa con una trama action al cardiopalma.

    E richiami alle opere di Edgar Rice Burroughs, come a quelle di Leigh Brackett e Catherine L. Moore, troviamo anche in I Vermi di Vulcano di Emiliano Maramonte e Le Ombre di Mercurio di Damiano Lotto, con i protagonisti precipitati in mondi e contesti alieni nei quali devono trovare nuovi alleati e combattere nuovi (o vecchi) nemici.

    Uno spirito verniano che rimanda ai primi anni del Novecento, quando la competizione nel nome della scienza travalicava nazioni e continenti, mari e montagne, pervade Le Rupi di Titania, di Roberto Furlani: racconto di un'hybris sovrumana, ma con l'erudizione di un gentleman.

    Il pulp, quale infanzia della fantascienza d'intrattenimento, non disdegnava però il fiabesco e l'avventuroso, specie in alcuni vecchi topos: ed è il caso della fiaba nera di La Bellezza di Venere di A. Napolitano e R. Bommarito così come di Le Piratesse della Cintura di M. Caterina Mortillaro dove si ripropone una scollacciata versione d'una società di sole donne: ossessione anni Cinquanta riflesso di sotterranee paure. E in quest'ambito La Regina della Luna di Lorenzo Davia recupera l'incubo di ogni maccartista: quell'Octobriana cuore della rivoluzione comunista che si presta – con occhio postmoderno – a un riutilizzo fantascientifico.

    Molto più vicine alla space opera classica sono invece le avventure narrate nei racconti Come non salvare una principessa di Axa Vallotto e L’Occhio di Giove di Fabio Aloisio, con i loro equipaggi di piloti di razzi impegnati in missioni di recupero al limite dell’impossibile.

    Il Prigioniero di Saturno di F. T. Hoffmann infine ricorda atmosfere molto più oniriche e ai confini della realtà.

    Ma ogni racconto, come ogni pianeta, dell’antologia propone una sua idea di fantascienza, una sua idea di pulp: tutte però accomunate da quell'amore per l'avventura che allora come adesso trasforma la lettura da un obbligo in un piacere.

    I Vermi di Vulcano

    Emiliano Maramonte

    La battaglia era stata cruenta.

    Tenent inspirò a fondo, scacciò la sensazione di stordimento e spalancò le porte della Sala del Trono.

    L’odore di marcio permeava il vasto ambiente. La poderosa luce solare si riversava dai finestroni opachi della volta e inondava la pietra iridescente di cui erano fatte le colonne e i muri del palazzo reale. Tenent si preparò allo scontro finale. Lei era lì, ritta sullo scranno marmoreo, adorna del leggendario abito multicolore composto da un mosaico di lembi di pelle strappati ai nemici. Il suo volto bello e terribile trasudava alterigia, nonostante le sconfitte subite. Ai lati del trono soffiavano e ondeggiavano, lucidi di bava, fedeli vermi rosei dalla testa piatta, le fauci scattanti come orride tagliole.

    Tenent attese l’arrivo dei Planti superstiti. I Lanceolati, i più forti tra i Planti, dalle mani verdi, spinose e taglienti, avevano combattuto con coraggio e indomito valore e gli avevano permesso di arrivare là dove altri avevano fallito. Avrebbe tributato gratitudine a quei guerrieri, per sempre.

    La Regina Durga si alzò con un movimento imperioso. Senza indugi diede l’ordine alle viscide bestie di attaccare. Tenent sollevò la spada lorda di sangue putrido e la mostrò alla sua odiata avversaria, promettendole una fine atroce. Un manipolo di Planti irruppe nella Sala ma si arrestò alla vista del pericolo strisciante.

    Tenent si accorse che la rabbia scorreva ancora potente nelle sue vene, e che le forze tornavano a inebriare i suoi muscoli. Lanciò il grido di battaglia, incitando i soldati a sostenere l’assalto finale.

    I vermi rosei puntarono su di lui, emettendo osceni gorgoglii, e parvero gonfiarsi, raddoppiando una stazza già consistente. Il manipolo di uomini pianta si suddivise in gruppetti che andarono ad affrontare ognuno la propria preda.

    Tenent spiccò un balzo, superò la testa di un verme, e atterrò sul dorso di un altro, che s’imbizzarrì e tentò di disarcionarlo. Tenent non perse tempo: lo trafisse a fondo, spingendo il braccio nel groviglio di organi molli e puzzolenti al di sotto della pelle coriacea. La bestia impazzì di dolore e rotolò su un fianco. Il suo sangue nero sprizzava dallo squarcio e insozzava la pietra sotto di lui e il corpo del carnefice.

    Tre Planti furono martoriati dalle bocche affamate dei vermi. Un altro fu sbalzato contro una colonna mentre cercava di strangolarne uno con la sua liana. Altri due giacquero in pozze di linfa verdastra, gli arti mutilati dalle mandibole trancianti.

    Tenent e i suoi non si persero d’animo e lottarono fino all’ultima goccia di energia. Gli anelli coriacei dei vermi resistevano alle lame, ma i Lanceolati si avventarono tra le zampe chitinose e li rovesciavano con le liane per maciullarne i ventri molli.

    E vinsero.

    I vermi erano battuti. Le loro carni morenti pulsavano degli ultimi guizzi di vita animale, la maggior parte era già stretta nella morsa gelida del trapasso.

    Durga aveva assistito all’eccidio senza proferire parola. Forse si aspettava una disfatta simile.

    Tenent riprese fiato. Era allo stremo, ma doveva un ultimo gesto alla sua gente oppressa. Fece un cenno ai Planti sopravvissuti di attendere e s’incamminò verso il trono. La Regina appariva allarmata e, per la prima volta, impaurita. Tenent si avvicinò un passo dopo l’altro, brandendo la spada ricoperta di fluidi rappresi. La Regina si sedette rassegnata serrando le mani sui braccioli lapidei del trono.

    Tenent le poggiò la punta della spada sul collo bianco come il latte. Alcune gocce di sangue scuro stillarono sull’inestimabile vestito. Lei aveva il respiro pesante e lo fissava spaurita. Gli chiese: – Che cosa siamo diventati?

    – Io un selvaggio disperato, tu una tiranna senza cuore – rispose lui, sprezzante.

    – Questo mondo aveva bisogno di una guida. Adesso è mio.

    – Sciocchezze.

    – Non dovevo farlo.

    – Basta scuse…

    Da dietro il trono provenne un sibilo prolungato che culminò in un soffio minaccioso. Una massa immonda debordò dal profilo del marmo e travolse i due schiacciando Durga e immobilizzando le gambe di Tenent. Il peso del verme roseo premette su un punto debole del pavimento e un’inattesa voragine si spalancò sotto di lui. La bestia e la regina precipitarono nell’abisso proprio mentre mani verdi e nodose si sporgevano a salvare il loro condottiero.

    Gli uomini pianta scrutarono atterriti le nere profondità del palazzo dentro cui saettavano appendici verminose. A Tenent non importava più nulla. Lasciò cadere la spada e si diresse sofferente al portale d’ingresso del palazzo. Fuori, l’esercito festeggiava il giorno della liberazione. Suri, il suo luogotenente, gli venne incontro e lo abbracciò come si fa con un fratello tornato a casa dopo anni di lontananza. – Ce l’abbiamo fatta!

    Tenent rivolse alla testa frondosa un’occhiata fugace e cercò la sua cavalcatura. Il clamore della battaglia prima e quello della vittoria poi dovevano aver spaventato la bestia. Fischiò più volte e Tirit arrivò con l’andatura oscillante tipica delle zampe ramificate. – Vieni qui, bello.

    Si sentiva svuotato. Qualcosa dentro di lui si era spezzato. Era stanco. La guerra era finita. Si voltò verso il Palazzo Reale di Durga e sospirò. Aveva bisogno di riposo e di una buona birra kalet.

    La Barriera del Cielo teneva a bada la possanza mortale del sole di Vulcano. Tenent alzò gli occhi al disco marrone che faceva capolino dietro le immense fasce offuscanti innalzate in tempi perduti fino allo zenit. Quello era il momento giusto.

    Chiuse gli occhi, allargò le braccia ed espose le fasce arboree per accogliere il dono della rinascita.

    Il calore discese nelle viscere, guizzò nell’addome e dilagò in ogni appendice, rigenerando ferite e lacerazioni, colmando i tessuti di inebriante vigore. Non poteva farne a meno.

    Assaporò gli ultimi istanti dell’estasi energetica, poi raggiunse il suo paziente destriero vegetale. Salì in groppa e lo spronò alla corsa, mentre il campo di battaglia risuonava di incessanti schiamazzi di esultanza.

    Diresse al villaggio dei Planti, al passo del tramonto malinconico come i suoi pensieri.

    Braccia si sporgevano verso di lui, e lo osannavano. Il salvatore di Vulcano era tornato. Tenent giunse alla Locanda delle Foglie d’Oro, costretto ad aprirsi una via nella folla adorante di uomini e donne pianta. Entrò e lo accolsero i familiari effluvi di arrosto di kamen. Gli avventori si voltarono quasi all’unisono e lo salutarono sollevando sorridenti i boccali di birra. Ricambiò con una smorfia priva di entusiasmo e prese posto al suo tavolo preferito. Subito si avvicinò Imet, il centenario locandiere. Sporse un braccio colmo di fronde ingiallite dall’età e lasciò sul tavolo un boccale schiumoso di fragrante birra delle terre di Kalel. – Grazie, Comandante. Questa la offre la casa. – Tenent gli diede una pacca sulla schiena ingobbita e gli disse: – Portamene un’altra. – Imet non se lo fece ripetere due volte.

    Tutti i presenti sollevarono i boccali e tributarono uno sguaiato ringraziamento al loro salvatore. Lui non volle deluderli, e alzò a mezz’aria il suo, poi ne bevve un lungo sorso.

    Come sempre il gusto era esaltante, ma non bastò a cancellare il malessere che pervadeva Tenent. Che ne sarebbe stato della sua vita? Aveva sognato per anni quel momento e alla fine era arrivato, la vendetta si era compiuta così, in un istante, e l’ardore si era sciolto assieme a essa. Sospirò e bevve ancora.

    Una carezza vellutata al collo gli provocò un brivido. Di fianco a lui scivolò la donna che amava.

    – Feera, sei tu.

    Tra le lisce e umidicce foglioline del suo volto brillavano occhi innamorati. – Sono felice che tu sia qui. Ho temuto per la tua vita.

    Tenent schioccò le labbra per raccogliere le fragranze residue della birra e rispose: – Non è stato facile, ma avevo buone speranze.

    Lei si sporse e gli regalò un bacio che sapeva di passione e clorofilla. Gli avvolse le propaggini frondose attorno alle spalle e gli sussurrò che lo voleva.

    Tenent era ancora pieno del vigore della rigenerazione solare, ma non si sentiva propenso a possederla. Accettò lo stesso di seguirla in una stanza della locanda.

    Feera lasciò cadere il vestito di iuta bianca e gli mostrò il corpo sinuoso punteggiato di fresche infiorescenze. Petali vellutati fremettero. La sua gioventù gridava desiderio.

    – Sei stato via così a lungo…

    Tenent le si avvicinò, lei gli si avvinghiò con l’intento di sbilanciarlo verso il giaciglio, per poi montarlo cavalcioni. Lui non si sentiva pronto: la sua erezione era incompleta. Non vibrava di desiderio animale, come sempre accadeva a contatto con le delizie della sua donna. Feera provò ancora una volta a provocarlo, strofinando le foglie inguinali sul pube di Tenent ma ottenne un blando risultato. A un tratto cessò di muoversi. Lo fissò preoccupata.

    – Che ti succede? Hai perso l’ardore, mio eroe?

    Tenent si svincolò da lei, si ravviò i lunghi capelli, si massaggiò le fasce arboree sul petto e disse: – Scusa. – E se ne andò.

    La sera si era impadronita di Terra Penumbra. La Barriera del Cielo era oscura come i foschi presagi di uno sciamano. Tenent vagava per il villaggio, in cerca di risposte o, più semplicemente, di un po’ di conforto. Gli abitanti raggiungevano alla spicciolata le proprie dimore per infiggere le radici nell’humus del riposo e assopirsi per tutta la notte. Qualcuno di passaggio gli rivolgeva ancora un cenno gioioso di gratitudine, dopo averlo riconosciuto nel lucore diffuso delle lampade a olio disseminate ai bordi delle stradicciole.

    Alla fine decise di rifugiarsi nel Posto Segreto. Non ci andava da anni. Gli avrebbe fatto bene rievocare ed esorcizzare ricordi sepolti. Accese una torcia e si lasciò alle spalle l’ultimo sentiero dell’ultima casa del villaggio dei Planti, per inoltrarsi nella zona di nessuno, a un tiro di schioppo dalle Terre Arse. Là dove finiva il bosco, sorgeva una capanna di fango e pietra. L’aveva costruita lui stesso per mantenere una traccia di ciò che era stato, qualcosa a metà tra un museo e un santuario. Aveva il tetto a cupola e un ampio uscio con una porta rudimentale fatta di assi di legno. La illuminò e provò una stretta al petto. Entrò.

    Gli oggetti erano al loro posto, esattamente dove li aveva lasciati.

    Si accostò alla divisa della Marina, appesa a un ramo che sporgeva da una parete. Ne percorse con i polpastrelli la superficie ruvida e sgualcita e gli tornarono in mente le immagini dell’addestramento e i momenti più rischiosi delle missioni nel Sistema Solare. Quasi aveva scordato la magnificenza raggiunta dal Corpo di Esplorazione Spaziale. Cercò con lo sguardo le cornici con le foto e ne trovò una che gli scavò nell’animo un solco di tristezza.

    Un uomo e una donna con le tute spaziali sorridevano verso l’obiettivo, con il pollice alzato in segno di entusiasmo.

    Tenente di vascello Blasio Martinez; guardiamarina Teresa Delmar, in missione presso l’abbandonato avamposto terrestre di Vulcano.

    Un’altra vita, remota come la più remota delle galassie.

    Tenent posò la cornice sul ciocco popolato di altri reperti recuperati dai rottami della sua nave e sospirò.

    Che cos’era diventato? Capì che la domanda non aveva più senso ormai. Era un Planti anche lui, un figlio di Vulcano e della regione termonormalizzata di Penumbra. Quel che era stato, era stato. Ora devo pensare alla mia gente, rifletté. Ma qual era il suo ruolo dopo aver ottenuto la tanto agognata vendetta? Non lo sapeva. Ecco il problema.

    Uscì, richiuse la porticina di legno e lasciò per sempre al suo destino quel santuario inutile.

    La notte era calda. Presto sarebbe giunto il soffio rovente che precedeva il crepuscolo di fuoco.

    Tenent affrettò il passo e una strana sensazione lo indusse a fermarsi. Spostò la torcia per rischiarare i dintorni. Il bosco vibrava di silenzio. Era troppo placido.

    Udì un improvviso fruscio alla sua destra. Poi un altro più prolungato che si diffuse da un cespuglio di fronte. Qualcuno lo stava spiando. O seguendo. Sporse la torcia nella direzione del suono e disse ad alta voce: – Chi è là!

    Al fruscio si aggiunse un gorgoglio.

    Tenent si preparò al peggio. Si accovacciò per prendere un sasso. Si diede dello stupido per essersi allontanato dal villaggio senza armi.

    – Chiunque tu sia, mostrati a me!

    Da dietro un tronco comparve un Planti che entrò nel chiarore della fiamma. No, era una lei.

    Tenent sussultò. – Feera!

    Era spaventata. Piangeva. Era ferita. Rivoli di linfa colavano dai petali strappati. Lui si avvicinò.

    Ed esplose una risata distorta, inquietante.

    Si immobilizzò.

    – Aiutami – lo implorò Feera, stringendosi le braccia al petto, tremante.

    – Chi ti ha fatto questo? – chiese sentendo montare la rabbia; mosse un altro passo verso la sua donna.

    E poi vide Durga.

    Si era trasformata in un incubo vivente. Tenent sentì i peli rizzarsi sulla schiena e le fasce arboree contrarsi, secernendo linfa emozionale.

    – Sorpreso?

    La voce della Regina possedeva un timbro cavernoso, ma, allo stesso tempo, umano. In ogni caso, suscitava ribrezzo. Si fece avanti.

    – Dovresti essere morta! Sei sparita nella voragine.

    – Ho alleati molto potenti nelle viscere del pianeta – ribatté lei, strisciando verso di lui.

    Tenent fece una smorfia di disgusto. Durga era metà donna e metà verme. La pelle era una mappa di macchie violacee, alcune delle quali infette e purulente. Le braccia si erano come ritirate per far posto a zampe articolate terminanti con artigli affilatissimi. Il viso era una maschera d’orrore, ornato di lineamenti abbruttiti, ferini. Una larga fenditura contornata di denti si contraeva in attesa di un insperato pasto.

    – Cosa vuoi? – le chiese. – Lascia stare Feera. Lei non c’entra niente.

    Durga si produsse in una risata simile a un muggito di rotlek.

    – Questa patetica pianta non conta nulla per me. Voglio solo che tu capisca che sono tornata.

    – Ti ucciderò ancora – promise e strinse il sasso nella mano, l’odio gli scorreva nelle vene come un’alluvione.

    – Perché dovresti? Io non ti ho mai abbandonato – spiegò la Regina, sbavando un fluido scuro e grumoso.

    – Taci! Mi hai lasciato

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