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Il Divano di Stalin
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E-book76 pagine1 ora

Il Divano di Stalin

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Info su questo ebook

Cosa passa per la testa di un dittatore quando la perde? Può morire un simbolo? Il materialismo dialettico vale più di un pesce? Se il mondo appare diverso è perché si è già morti? Dimenticare il XX secolo?

Nei tre giorni di coma da ictus Stalin ripensò la sua vita, le sue scelte, gli incontri, gli amori, i ricordi, l'esilio. Mentre i suoi tre porcellini si azzuffavano per il potere e il busto di Lenin lo fissava, lui forse comprese cosa era stata la sua esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita17 apr 2019
ISBN9788831616157
Il Divano di Stalin

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    Anteprima del libro

    Il Divano di Stalin - Francesco Franchini

    Indice

    Copertina

    Il Divano di Stalin

    A cura di Progetto Sarasvati 2019

    IL DIVANO DI STALIN

    di Francesco Franchini

    Avresti fatto meglio a farti prete Keke

    Chi fischietta, chi miagola, chi piagnucola, se soltanto lui ciarla o punta il dito Mandel’stam

    I like that man! Winston Churchill

    ISTRUZIONI PER SOPRAVVIVERE:

    Mantenere la calma in ogni circostanza. Guardare dritto negli occhi. Non guardare troppo a lungo fisso negli occhi. Ridere alle sue storielle. Non ridere troppo alla sue storielle. Commuoversi alla sue storielle. Non arrivare a piangere. Mettersi spalle al muro al passaggio del capo. Mostrare le mani al passaggio del capo. Lavarsi le mani e tagliarsi le unghie. Lucidare gli stivali. Non farsi notare, non attirare l'attenzione.

    (Ritrovato in una giubba di una delle guardie alla dacia di Stalin)

    IL NIENTE

    Di fronte al mausoleo di Lenin rinchiuso nella sua bara di vetro, imbalsamato, inerte finalmente. Ben eretto con la giacca bianca, gli stivali neri e le medaglie sul cuore, nell’orecchio sinistro una banda di fiati stonata che riempie l’aria. Nasconde il sorriso in attesa del suo fato che sarebbe certo giunto a ghermirlo e lo avrebbe portato fino alla gloria immortale... Il busto di Lenin sul comò, lucidato a specchio, riflette con i suoi occhi bronzei un anziano contadino georgiano, in canottiera e pantaloni del pigiama, senza scarpe, con i grossi calzini di lana e i capelli stropicciati, che odora di vomito e sporco, con i denti neri dal fumo, il naso rosso, gli occhi spalancati a fissare il muro, sdraiato sul divano macchiato di vino...

    Il dio vivente è pronto, la forza del popolo è con lui, lo amano, avrebbe ancora una volta salvato il suo paese, cacciato gli invasori, riunito i popoli, elevato gli animi, reso l'uguaglianza e il benessere agli uomini. Il petto ha ancora spazio per altre decorazioni. Lui è invincibile, inarrivabile, immortale. Sarebbe assurto all'olimpo dei grandi della storia... Gli dei lo guardano dall'alto in mantelli bianchi, quasi spaventati al suo cospetto, sembra lo aspettino, lo circondano, lo invocano, sente il freddo rotondo d’una nuova medaglia sul petto all’altezza del cuore. Li vede scuotere la testa. Uno di loro con la fronte lucente si avvicina e tampona la schiuma dalle sue labbra prima che cali sulla maglietta impregnata di sudore, bava e morte imminente... La mano del Padre di tutti noi si alza lentamente verso il cielo, oltre il tetto di legno odoroso di resina, indica lassù nell’empireo il futuro celestiale della patria, il trionfo del proletariato. La libertà e la pace. Tra le nuvole i volti di Marx, di Lenin, di Engels. Il Padre assiso di fronte all'assemblea intona la canzone della vittoria: Ardgicolofet...Russtonskia...Stamngprad... farfuglia con metà bocca... Niente. Nessun applauso. Nessun commento. Il niente lo circonda. Le nubi scompaiono lente mostrando il soffitto, gli dei si sformano allo stesso modo dei suoi pensieri, non sono che uomini, tra poco solo ombre. Agli occhi del padre della patria le cose si stanno sbavando, dileguando. Dal suo piedistallo il busto di Lenin sembra sogghignare. Può morire un simbolo?

    I TRE PORCELLINI

    I tre porcellini erano in orario, sarebbero arrivati tra poco più di dieci minuti appena superata la foresta. Una foresta piena di insidie ma nulla in confronto al lupo cattivo che li aspettava all'interno della dacia. Erano sereni, come succedeva raramente. Il balletto del Bolshoi era stato un successo, la serata finalmente chiara, non umida dopo tanti giorni di nebbia fitta e vento del nord. Il lupo seduto impettito con la giacca bianca nel palco reale era apparso sazio, la sauna del mattino gli aveva alleviato i dolori al braccio e inumidito i baffi. Aveva ammiccato all'ospite speciale che gli era seduto accanto come un trofeo, il piccolo Schostakovic, con il quinto premio Stalin appena ricevuto all'occhiello, che memore degli anni passati, cercava di non tremare. Tutto pareva svolgersi per il meglio. Di cosa mai bisognava avere paura in una notte così bella, sotto tali stelle brillanti nel cielo limpido, sotto la custodia del piccolo padre? Seduto in bilico sul sedile della grossa limousine scura nel breve viaggio verso la lunga serata il primo porcellino leggeva i verbali del processo raccolti alla meglio in una cartellina rossa. Erano ambigui, ancora troppo ambigui per poter fucilare i medici. Si doveva aumentare la pressione pensava Berija, troppo dolci i colpi, troppo leggere le torture. Soprappensiero si leccò le labbra, erano asciutte, gli si erano seccate nelle notti alla Lubianka gridando alle sue vittime e non sarebbero tornate mai più ad essere quelle carnose della sua giovinezza, le sue amanti se ne lamentavano. Seduto vicino a lui sul sedile di pelle bruna scrostata, il secondo porcellino, Malenkov, a occhi chiusi, cercava di recuperare il sonno ben sapendo che la notte sarebbe stata faticosa per lui già anziano. Sull'altra limousine uguale alla prima, guidata con più prudenza da un

    sergente mongolo con grossi baffi, Kruscev il terzo porcellino e Bulganin il cane pastore, sorridevano. La responsabilità del processo era tutta di Berija, a loro due sarebbe bastato ridere alle battute del capo e almeno per stasera non avrebbero rischiato nulla, né il potere né la vita. Kruscev pulì il finestrino dal vapore del riscaldamento col palmo della mano goffa e guardo fuori. La foresta appariva sfocata come la Russia, gli uomini di guardia erano visibili solo dal respiro che saliva verso l'alto mischiato al fumo delle sigarette accese di nascosto per farsi compagnia, col rischio di finire in Siberia. Bulganin fissava i piedi di Kruscev, così piccoli, così femminili in quel corpo da contadino col viso scottato dal sole dell'Ucraina dove aveva passato dieci anni a sterminare Kulaki, i piccoli proprietari terrieri che avevano avuto l'ardire di non voler morire di fame coltivando grano per lo stato. Di queste vittime non erano rimasti segni sul volto di

    Kruscev, le piccole rughe attorno agli occhi gli erano apparse a Stalingrado, nel resistere alle truppe naziste, nel far mangiare topi e gatti ai soldati, nel piangere di nascosto sulle rovine dei palazzi imperiali. Il primo autista, georgiano come tutti gli uomini vicini a Berija, fece fischiare le gomme

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