I restauri dei gruppi scultorei del Museo Archeologico di Sperlonga. Studi su ''L'accecamento di Polifemo'' e ''L'assalto del mostro Scilla''
Di Mauro Rizzi
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I restauri dei gruppi scultorei del Museo Archeologico di Sperlonga. Studi su ''L'accecamento di Polifemo'' e ''L'assalto del mostro Scilla'' - Mauro Rizzi
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INTRODUZIONE
Questo testo è il frutto di un lungo e faticoso lavoro di ricerca scientifica svolto al termine del mio percorso di studi. Ho scelto di analizzare, in maniera approfondita, i due principali gruppi scultorei conservati all’interno del Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga, "L’accecamento di Polifemo" e "L’assalto del mostro Scilla alla nave di Ulisse", spinto dalla curiosità di conoscere la storia conservativa di queste sculture presenti in un luogo a me familiare.
Compito di uno storico dell’arte è anche quello di ricostruire la storia conservativa delle opere che si studiano, tanto più se si tratta di opere frammentarie e dunque difficili da fruire perché prive della loro completezza originaria.
Dopo una breve panoramica storica sul sito di Sperlonga è stato dato ampio spazio alla descrizione dell’area archeologica della Villa di Tiberio, da cui provengono i gruppi scultorei.
In seguito ho analizzato la storia degli scavi, iniziati nel 1957 con i primi ritrovamenti e le scoperte inattese, che hanno poi portato all’istituzione del nuovo museo e alla conseguente rilevanza del sito sperlongano. Fulcro dell’attenzione è la notevole decorazione scultorea della grotta, denominata antrum Cyclopis per la sua analogia con analoghi allestimenti di ville e palazzi imperiali, risalenti nella tipologia a modelli ellenistici. Dopo un breve cenno al programma figurativo della decorazione complessiva dell’antro di Sperlonga, sono passato ad esaminare nello specifico i due gruppi oggetto di questo studio. Per ognuno di essi è stato tracciato un profilo storico-artistico e iconografico, che ha fatto da cappello ad una analisi tecnico conservativa più approfondita.
I singoli personaggi dei due gruppi scultorei presi in esame, sono stati descritti nel dettaglio, indicando le parti originali e di rifacimento con appositi grafici che hanno dato forma ai rilievi da me compiuti sulla materia stessa delle opere.
Successivamente è stata tracciata la storia conservativa dei vari frammenti, dal momento del loro ritrovamento fino ad oggi, caratterizzando gli interventi realizzati dopo il recupero e cercando di individuare i restauri dovuti invece ad interventi antichi.
Tutti questi interventi sono stati messi a confronto per renderli strumenti conoscitivi utili alla fruizione delle opere in esame. Riflettendo su questo tema, ho deciso poi di soffermarmi su possibili proposte per migliorare e semplificare la fruizione dei gruppi scultorei da me studiati, così da rendere utile anche ad altri il mio studio.
Si è trattato di uno studio complesso, non privo di difficoltà. I primi problemi sono stati riscontrati durante i sopralluoghi iniziali. Poter individuare a primo impatto lo stato di conservazione di un’opera, senza un’approfondita conoscenza tecnica di questa, è impresa piuttosto ardua. Il trovarsi di fronte ad opere frammentarie ricomposte ma non complete, con rifacimenti, fori e tagli evidenti sulla superficie lapidea, mi ha fatto riflettere sulla difficoltà di fruire opere siffatte. Sin dal principio ho dunque realizzato che per fare un’analisi storico-artistica completa e critica delle sculture era necessario fare un’anamnesi conservativa dei frammenti, andando ad indagare la storia degli scavi, iniziati nel 1957, e gli interventi di restauro ad essi seguiti.
Dopo una accurata osservazione delle opere ho iniziato ad esaminare i testi riguardanti i gruppi scultorei in questione, cercando di trovare qualche notizia in più sui procedimenti di ricomposizione e di restauro. L’analisi bibliografica che mi ha permesso soprattutto di rintracciare immagini fotografiche sulle varie fasi degli allestimenti e degli interventi conservativi, è stata affiancata da una minuziosa verifica dei documenti e delle perizie sui restauri, conservati presso la Soprintendenza dei Beni Archeologici del Lazio e presso l’Archivio Centrale dello Stato.
SPERLONGA, LA VILLA DI TIBERIO E IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE
STORIA E ORIGINI DI UN LUOGO
Sulla costa laziale che si estende da Terracina a Gaeta, collocata su uno sperone di roccia che si getta nel mar Tirreno, Sperlonga sfoggia un territorio molto vario in cui elementi di pianura si fondono con quelli pedemontani, spaziando da boschi a laghi, fino ad arrivare alla magnifica costa.
Una conformazione così particolare ha dato vita, sin dall’antichità, ad un’economia basata sullo sfruttamento misto del territorio.
La fascia litoranea, con le sue pareti a picco sul mare e le sue insenature sabbiose, fu interessata infatti dalle più antiche frequentazioni antropiche: a partire dagli insediamenti paleolitici dell’uomo di Neanderthal nella Grotta Guattari del Circeo (50.000 a.C.), fino alla presenza di città greche - da considerarsi quali empori precoloniali - e ad etnie preromane, per giungere infine alla grandiosa civiltà romana[1].
Nel periodo compreso tra il Neolitico e l’Età del bronzo, le indagini archeologiche hanno provato l’esistenza di un fitto sistema di villaggi di capanne, basati sulla pastorizia e sull’agricoltura, cui si associavano scambi commerciali lungo le principali rotte del Mediterraneo e gli assi trasversali di transumanza.
Tra il VI e il V secolo a.C. il Lazio meridionale fu investito da ondate migratorie che si sovrapposero a un sostrato etnico-culturale omogeneo già stabilizzato; si trattava soprattutto di genti del ceppo volsco-umbro, che si erano stanziate all’incirca due secoli prima nell’alta valle del Liri. Queste ultime, sotto la spinta dei Marsi e dei Sanniti, penetrarono tra i Latini e gli Aurunci stanziandosi nella pianura tra Anzio e Terracina, denominata Anxur, espandendosi anche nella zona immediatamente sottostante. Di conseguenza è presumibile che gli Aurunci furono costretti a ritirarsi nella parte più meridionale del territorio.
È probabile che i Volsci controllassero l’intero comprensorio che va dai monti Lepini ai monti Ausoni, con la pianura pontina, Terracina e Fondi, e che gli Aurunci occupassero invece il territorio comprendente i monti omonimi con Minturno, il Garigliano e oltre, fino al Volturno.
La discesa dei Volsci tagliò fuori dalla regione pontina i Romani, che già in età regia, con i Tarquini, si erano spinti a conquistare Terracina.
Per tutto il V secolo a.C. si susseguirono gli scontri, fino ad arrivare al 338 a.C., anno della fondazione della colonia romana di Anzio che comportò successivamente l’avanzata dei Romani con la creazione delle coloniae marittimae di Anxur (Terracina) (329 a.C.) e di Minturnae (296 a.C.).
Alla ribellione dei Volsci nel 330 a.C., seguì quella degli Aurunci, del 314 a.C., che portò alla distruzione dei centri abitati con il conseguente sterminio della popolazione.
Con la scomparsa delle preesistenti città italiche le nuove colonie romane assunsero un ruolo di notevole importanza strategica sul nuovo asse viario che si andava costruendo: la via Appia (iniziata nel 312 a.C.), la regina viarum, costruita per volere del censore romano Appio Claudio Cieco, che partendo da Porta Capena, vicino alle Terme di Caracalla, collegava l'Urbe a Capua passando per Aricia (Ariccia), il Forum Appii (Borgo Faiti), Anxur (Terracina), Fundi (Fondi), Itri, Formiae (Formia), Minturnae (Minturno), e Sinuessa (Mondragone), per poi attraversare la Campania e la Puglia ed arrivare fino a Brindisi (Fig. 2).
A partire da questo momento la storia della regione sud-pontina si identificò con quella di Roma. Il centro di Sperlonga cominciò lentamente ad arroccarsi sulla collina di San Magno. Una necessità determinata non solo dalle malattie delle paludi, ma anche dai continui attacchi dei pirati che infestavano il Tirreno.
Il clima mite e il territorio fertile e rigoglioso favorirono, fin dal II secolo a.C., lo sviluppo di fattorie agricole di medie dimensioni che smerciavano i prodotti - in particolare olio e vino - dal vicino porto di Terracina. Nel settore nord-est della piana di Fondi e nella fascia pedemontana di nord-ovest, si può localizzare la produzione vinicola di lusso rappresentata dal rosso fundanum e dal famoso cecubum, i quali cominciano ad essere esportati, soprattutto dal I secolo a.C., in varie parti del Mediterraneo, come dimostra il ritrovamento, a largo di Tolone (testimone dell’esportazione verso la Gallia), di un relitto contenente anfore bollate con gli stessi sigilli ritrovati su contenitori recuperati in località Canneto, vicino Terracina.
Terracina, con Fondi e Formia, tutte di antichissima origine, rappresentavano i poli urbani di riferimento. Gaeta, Itri e Sperlonga non costituivano, invece, realtà autonome.
La possibilità di individuare nel sito di Sperlonga o sulle rive del lago di Fondi la mitica Amyclae, colonia spartana fondata dai Laconi sotto la guida dei Dioscuri e di Glauco, figlio di Minosse, re di Creta, ubicata secondo la tradizione storiografica e letteraria sulla costa tra Terracina e Fondi, non ha avuto alcun riscontro oggettivo[2]. La leggenda narra che Amyclae sarebbe stata abbandonata per un'invasione di serpenti. Un’altra versione racconta dello sterminio della popolazione in seguito ad un’incursione nemica.
La viabilità della zona era basata sull’asse viario dell’Appia. Per consentire un collegamento più diretto tra il porto di Terracina e la zona produttiva, oltre che con Formia, si intraprese la costruzione della via Flacca, iniziata nel 184 a.C. per volere del console Valerio Flacco, che si snodava, in prossimità di Sperlonga, in un impervio e suggestivo itinerario lungo il profilo roccioso dei monti a strapiombo sul mare.
La costruzione dell’arteria favorì l’impianto di numerosi insediamenti e rivestì un ruolo importante per lo spostamento delle truppe romane durante la seconda guerra punica, con Annibale stanziato nell’Italia meridionale.
Le devastazioni e lo spopolamento delle campagne, in seguito al conflitto annibalico nell’Italia centrale e meridionale, portò al declino delle piccole proprietà contadine e al conseguente acquisto di fondi terrieri da parte di aristocratici che diedero origine alla creazione di impianti aziendali in grado di produrre su vasta scala.
Questo tipo di azienda o villa era articolata in tre parti: la zona urbana, di pertinenza del proprietario; la zona rustica, destinata alla manodopera e al bestiame ed infine la zona fructuaria, per la lavorazione e lo stoccaggio dei prodotti.
La pars urbana solitamente si collocava su un basamento proteso verso la pianura o il mare. Lo schema più diffuso è il criptoportico rettangolare, con feritoie che illuminano lo spazio interno, dove erano collocate cisterne