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Al passo delle cicogne bianche
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E-book247 pagine3 ore

Al passo delle cicogne bianche

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Info su questo ebook

Due storie, una recente, l’altra antica di secoli, ruotano intorno a un’icona. A Creta, nell’anno 816, nei giorni di sosta delle cicogne bianche provenienti dal Sud, il monaco iconografo Pelaghios è costretto a lasciare l’isola per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste. Salva e porta con sé, protetta sotto le volute di una fascia stretta intorno alla vita, l’ultima icona. Dopo quasi due mesi, attraversata la Grecia e raggiunta Brindisi, termina la sua fuga all’abazia di Orsara di Puglia fondata dai confratelli basiliani un centinaio di anni prima. Con la morte di zia Konstantina nella città di Jànina, in Grecia, nel 1976, un’icona appartenente alla sua famiglia, trasmessa di generazione in generazione dalla madre alla figlia primogenita, finisce in eredità a Zafiris, primo maschio a possederla. Con l’icona, c’è una lettera composta in una lingua sconosciuta nella quale spiccano due frasi misteriose in italiano, distinte dal resto dell’incomprensibile testo. Le stesse frasi sono incise sul retro dell’icona. Il tentativo di decifrare le scritte induce Zafiris, grazie anche all’amico domenicano frate Egidio, sempre intento a consultare testi, codici e carte, a un lungo viaggio tra Bologna e Milano, Parigi e Buenos Aires, finché la sua vicenda va a intersecarsi con quella antica di secoli. Alla fine, grazie a un incontro oltreoceano e a un inaspettato colpo di fortuna, scoprirà il significato dello scritto enigmatico e riuscirà a risolvere il mistero dell’icona.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2015
ISBN9788865641798
Al passo delle cicogne bianche

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    Anteprima del libro

    Al passo delle cicogne bianche - Michelis Leonidas

    NOTE

    Premessa storica

    LEONIDAS MICHELIS

    AL PASSO DELLE CICOGNE BIANCHE

    © 2015, Leonidas Michelis

    © 2015, Atmosphere libri

    Via Seneca 66

    00136 Roma

    Cosa nasconde un’antica icona raffigurante un cavaliere su un cavallo nero che sfida un drago? Dalle persecuzioni iconoclaste medievali ai nostri giorni, dalla Grecia all’Italia, passando per Parigi e l’Argentina, il narratore svelerà il mistero.

    Il passaggio delle cicogne bianche nelle loro eterne migrazioni è l’esile filo che unisce a distanza di secoli i luoghi delle due storie, annodandone gli sviluppi quasi come una premonizione o un vago presentimento.

    LEONIDAS MICHELIS è nato in Grecia, nella città di Jànina (o Giannina). Vive in Italia dagli anni Sessanta. Laureato in ingegneria, ha lavorato nella grande industria in Italia e in America Latina, poi da libero professionista. Ha pubblicato i racconti Los claveles del aire nel 2007, i romanzi L’agave di smeraldo nel 2009, Il ragazzo di Jànina nel 2011 per Atmosphere libri (tradotto in greco nel 2013) e i racconti L’ombra imperfetta nel 2013.

    Premessa storica

    Nel 554 d.C. l’Italia divenne una provincia bizantina a seguito della guerra combattuta tra bizantini e ostrogoti. Per più di cinque secoli la civiltà orientale penetrò in ogni settore della vita e della cultura della penisola pervadendone la spiritualità e i comportamenti. Fra tutti i territori il Salento fu certamente il più bizantino, quello cioè che in maniera più autentica assimilò i valori e le idealità più profonde del Vicino Oriente. Nel cuore del Mediterraneo, esso diventò ponte tra Occidente e Oriente, crocevia di tutti i passaggi e le rotte del mondo di allora. Quando poi in Italia arrivarono i popoli stranieri, e nel 1071 i normanni completarono la conquista dell’intero Mezzogiorno, la civiltà bizantina continuò a esercitare la propria influenza nei luoghi del Salento per oltre mezzo millennio. In tale contesto di irradiazione della cultura greca in quel territorio il monastero di San Nicola di Casole, appena qualche chilometro a sud di Otranto, costituì l’unico vero polo o trait-d’union tra Roma e Bisanzio. Nel 726 l’imperatore bizantino di Costantinopoli Leone III, capo della Chiesa orientale, emanò un editto con il quale ordinava la distruzione di tutte le immagini sacre e delle icone presenti in tutte le province dell’Impero che rappresentassero Dio, la Madonna o i Santi.

    Furono fatti a pezzi e bruciati i mosaici, gli affreschi, le statue e le icone, ma non solo le opere d’arte, anche molti monaci vennero uccisi nel tentativo di mettere in salvo le loro immagini sacre. Il motivo ufficiale del provvedimento era quello di combattere il commercio delle immagini ritenute superstizione e idolatria, ma le finalità erano senza dubbio, anche politiche. Questa lotta fu chiamata lotta iconoclasta (da eikon = immagine e klazein = distruggere), Leone III fu scomunicato dal Papa, ma continuò nel suo folle e feroce piano e lo stesso fecero i suoi successori, provocando la fuga di migliaia di monaci, molti dei quali giunsero in Salento e trovarono dimora in rifugi naturali: le laure basiliane, all’ingresso delle quali c’era sempre un’immagine della Madonna detta Vergine Portinaia destinata a custodire le grotte scavate nelle roccenei quali i monaci continuarono a praticare il loro culto.

    Il Meridione d’Italia, zona di confine tra Occidente e Oriente, divenne terra di rifugio e di diffusione dell’ordine monastico di San Basilio e di quella devozione. Tra i primi esuli arrivati vi furono alcuni basiliani provenienti da Creta. I primi predicatori del cristianesimo sull’isola avevano assistito all’orazione di Pietro a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste. Il nucleo religioso originario era stato organizzato nell’anno 64 da Paolo, giunto a Creta in visita apostolica. Tito, suo discepolo, era stato incaricato della cristianizzazione della zona e nominato primo vescovo dell’isola.

    La scelta del Salento come terra di migrazione da parte dei monaci basiliani fu appropriata perché anche dopo la conquista normanna negli anni Sessanta dell’XI secolo, che avrebbe dovuto avvicinare la comunità locale al cristianesimo latino, la città di Otranto mantenne una loro notevole presenza: sotto gli arcivescovi latini fiorì un clero greco, mentre l’amministrazione civile continuava a essere gestita da funzionari, notai e giudici di formazione bizantina. I conquistatori, per quanto validi cavalieri, spesso non erano alfabetizzati, e non avevano uno spessore culturale tale da poter gestire e riorganizzare strutture amministrative complesse. Perciò si affidarono all’antica classe dirigente costituita da lettori, copisti, commentatori, poeti e autori di trattati teologici che tramandarono la cultura greca per alcune generazioni.

    Anche dopo il 1480, anno del sacco di Otranto e della distruzione del monastero per mano delle truppe turchesche, l’umanesimo di Casole continuò a esercitare a lungo la propria influenza. Dall’altra parte del mare vi era l’isola di Corfù, la Contessa dello Ionio, come veniva chiamata dai cittadini della Serenissima Repubblica. La presa di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204 comportò l’assoggettamento dell’Impero bizantino e la spartizione dei suoi territori tra i vincitori. Corfù venne inclusa nel bottino destinato ai veneziani, che avevano aiutato militarmente i crociati, combattendo contro i genovesi, allora occupanti dell’isola e che non intendevano assolutamente rinunciarvi. Quella fu la prima breve occupazione da parte della Serenissima. La seconda dominazione avvenne nel 1386, dopo circa centocinquanta anni di occupazioni dei greci e degli angioini. I veneziani governarono poi l’isola per ben quattrocento anni, cercando di assicurarsi un dominio stabile e garantendosi in tal modo anche il controllo dei commerci con l’Oriente.

    All’estremità nordovest dell’isola di Corfù c’era il castello di Anghelocastro, la cui particolare posizione strategica lo rese inespugnabile, determinando così la sorte e il corso della sua storia per secoli. Le fortificazioni di Anghelocastro, mantenute e consolidate nel tempo, avevano come scopo di tutelare la sicurezza degli abitanti della zona dalle incursioni degli aspiranti conquistatori che si susseguirono nel tempo, fra i quali genovesi, saraceni e turchi, e di garantire il controllo del traffico marittimo nell’Adriatico da parte di Venezia. Missione non sempre assicurata, evidentemente, come testimonia il sacco di Otranto.

    1.

    A Laura, la quale ha tenacemente voluto

    che portassi a termine questa storia…

    anche dopo, quando la tristezza ha rallentato le giornate

    1.

    Il secondo tuono scoppiò all’improvviso, e l’igumeno Invenzio proseguì il suo cammino verso la cripta. A mano a mano che scendeva la scala, tagliata rozzamente nella roccia, la sua ombra si allungava e i gradini che portavano alla cappella, sita nella parte orientale del monastero, diventavano ancora più insicuri. Alla fine della scala la luce si fece più ferma. Le tre lucerne fissate all’estremità di un’unica catena appesa al soffitto, all’altezza giusta, illuminavano giorno e notte l’icona appoggiata sull’altare di legno di ciliegio. Invenzio controllò l’olio e rincalzò gli stoppini accesi dei tre beccucci. Poi lasciò libera la catena che prese a oscillare, facendo barbugliare la luce a intervalli regolari sempre più brevi. Pareva spegnersi, poi riaccendersi e di nuovo tornare a morire sull’icona. L’igumeno si avvicinò e si fece il segno della croce. La lancia del santo, in posa eretto con il suo manto rosso su un cavallo nero, trapassava la testa del drago alato.

    Qualche giorno addietro, le prime luci dell’alba avevano trovato l’igumeno incamminato lungo il viottolo di terra battuta che dal monastero portava all’insenatura di Porto Badisco. Il sole che sorgeva dal mare e accecava la discesa del monaco annunciava un’altra calda giornata estiva. Quando il sole fu più alto, illuminando l’orizzonte al largo di Otranto, come il tempo asciutto pretendeva, a Invenzio il mare apparve punteggiato da una miriade di galeoni che, minacciosi, si avvicinavano alla costa. In un primo momento pensò che si trattasse di una delle tante incursioni da parte dei corsari che infestavano le coste adriatiche in cerca di bottino. Ma presto capì che non era così.

    Giù al porto sentì un banditore che con voce alterata leggeva un editto, chiamando gli otrantini a organizzare la difesa della città e ordinando a tutti gli uomini di accorrere per prendervi parte. Nel tardo pomeriggio la protezione della città era affidata a poco più di mille uomini malamente equipaggiati.

    Prima di notte, l’armata turca era sbarcata nel tratto di costa che da Porto Badisco porta a Roca, nei vari porticcioli di cui il litorale era ricco. Era il 28 luglio del 1480.

    Invenzio allungò il passo. Aveva con sé il Typikon, che il monaco protocalligrafo Vittore aveva accuratamente copiato dall’antico Codice Torinese Greco C.III.17, una specie di statuto del cenobio di San Nicola di Casole, i regolamenti su cui si fondava la vita di quel luogo sacro. In esso dominavano le originarie regole di San Basilio, l’appello costante alla povertà, la legittimazione della figura del preposto e l’esaltazione dell’ascesi contemplativa. Quel manoscritto era un omaggio del monastero al terzogenito del conte di Badisco e signore di Roca che si accingeva a entrare al monastero per pronunciare i voti. L’igumeno gliel’avrebbe consegnato personalmente, ed era atteso.

    Ma, giunto davanti al palazzo nobiliare, non ebbe esitazione e si affrettò a proseguire oltre. Avrebbe consegnato il codice un’altra volta. Non ripercorse la strada del mattino, tagliò per i campi e si allontanò dalla costa, aggirando e poi risalendo il pendio della valle del fiume Idro. Ogni tanto si fermava ad ascoltare i rumori che gli giungevano da lontano.

    Quando arrivò al monastero, il suono della simantra aveva già chiamato i frati al refettorio. Quel dì, uno dei giorni pari della settimana, non si osservava il digiuno obbligatorio. Lasciò che i fratelli finissero di consumare il pasto frugale, poi ruppe il silenzio e spiegò l’accaduto. I monaci continuarono a osservare la regola del silenzio che regnava nel refettorio. Poi si ritirarono nelle loro celle a pregare.

    Invenzio rimase lì, immobile, assieme al monaco bibliofilace, che era il custode della biblioteca, e all’ecclesiarca, che sovrintendeva alla custodia della chiesa e delle sacre suppellettili.

    Il fruscio delle ampie tuniche venne presto inghiottito dalle porte che sigillavano il silenzio delle celle. Queste si susseguivano ordinatamente una dopo l’altra lungo i porticati che davano sulla corte interna della grande costruzione.

    I tre uscirono dopo aver finito di parlare. Invenzio salì la scala interna che portava al piano superiore, percorse i pochi metri che lo separavano dall’ampia sala della biblioteca, entrò con passo sicuro e chiuse la porta alle sue spalle. Qualcuno, che a quell’ora occupava ancora il proprio scrittoio, alzò gli occhi domandandosi il perché di quell’inconsueta invasione notturna. Con voce grave, Invenzio ordinò agli astanti di chiamare tutti gli altri ospiti, venuti a studiare o a insegnare da ogni parte d’Europa, che si erano già ritirati per la notte.

    Quella fortezza del sapere da oltre tre secoli era luogo d’incontro di latini e greci, liberi di affrontare nelle loro appassionate discussioni temi sia religiosi sia profani. Chi voleva studiare il latino e il greco, e poi il trivio e il quadrivio, riceveva vitto e alloggio e aveva a disposizione insigni professori e una ricchissima biblioteca. Quel faro di civiltà, per secoli ponte prezioso tra Occidente e Oriente, trait d’union tra Roma e Bisanzio, stava forse per spegnersi, e per sempre.

    Quando tutti ebbero preso posto, ognuno al proprio scranno, Invenzio riferì delle navi venute dall’Oriente, dei volti olivastri dei saraceni che avevano invaso la costa, e spiegò che quella stessa notte avrebbero dovuto lasciare il convento. Un monaco pratico di quei luoghi li avrebbe condotti verso Maglie, dove persone fidate si sarebbero prese cura di loro.

    Al momento della partenza l’igumeno seguì immobile la mesta processione. Ventisette sagome dall’età e dalla provenienza più svariata si confusero con la notte. Percorsero in fila indiana il lungo cortile. Nel varcare il portone, la luna appena sorta illuminò brevemente i loro volti prima che ritornassero a diventare tutt’uno con la notte.

    Alcuni giorni dopo lo sbarco degli uomini dell’Est iniziò l’assedio di Otranto. Furono giorni terribili ma, anche se gli animi cominciavano a scoraggiarsi, i salentini continuarono a lottare fieramente.

    Faceva caldo, l’acqua era stata inquinata e prima che di ciò ci si rendesse conto qualcuno aveva iniziato a soffrire di dissenteria. Qualche mugugno si alzava dai soldati della guarigione aragonese in custodia della città presi alla sprovvista.

    Presto Maometto II, dopo la conquista di Costantinopoli, l’assedio di Rodi e la presa dell’Albania si sarebbe fatto vivo e nel suo stile asciutto e lapidario avrebbe chiesto: a che punto siete? Quali parti del Salento avete conquistato? Che cosa avrebbe potuto rispondere Gedik Ahmet Pascia che non si aspettava di incontrare una resistenza così accanita, convinto di poter conquistare Otranto per via pacifica? Che stava quasi finendo la seconda settimana e ancora non aveva avuto ragione delle mura di una città difesa, per di più da gente che sapeva poco di guerra? Guardò le sue navi e decise che c’era una sola risposta possibile per estirpare «quel nido di serpi», costasse quel che costasse. Lo sbarramento eretto in mare, una palizzata attraversata da una arrugginita catena, non resse all’urto delle galee e le milizie da sbarco musulmane entrarono facilmente nello spazio intramurario di Otranto. Da lì tutto si svolse secondo modalità collaudate da altre parti: fu spazzata via la batteria dei cannoni a metà delle mura esterne e tutto precipitò senza rimedio per la città. La gente, avendo compreso quanto da lì a poco stava per accadere, cominciò a correre da una e dall’altra parte terrorizzata e senza saper che fare. Aveva risposto a tutti il vecchio cimatore di lana Antonio Primaldo: «Fin qui ci siamo battuti pe la patria e per salvare i nostri beni e la vita, ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare le nostre anime».

    Gli otrantini resistettero, dunque, ma non a lungo. Il 12 agosto gli ottomani espugnarono la città dove irruppero razziando tutto ciò che trovarono e trucidando chiunque tentasse di opporsi.

    Miasmi di distruzione e di morte aleggiavano ovunque, giungendo sino al fondo della cripta e sopraffacendo il profumo dell’incenso e dell’alloro che in tanti anni di culto aveva impregnato quel luogo. Ma almeno lì non si sentiva più il cupo vociare degli infedeli, né le urla strazianti di donne e bambini che avevano continuato a lacerare l’aria anche dopo che il sole era tramontato da ore.

    Invenzio fece ciò che mai avrebbe immaginato di dover compiere. Sollevò l’icona dall’altare, la avvolse in una pianeta di colore viola, la stessa che indossava il Venerdì Santo per celebrare la messa, e si avviò su per la scala. Quindi lasciò la cripta e uscì dal monastero.

    Il tronco del vecchio ulivo in fondo al cortile parve vibrare, quasi volesse cambiare forma, finché un’ombra se ne staccò e si diresse verso l’igumeno. Il monaco Gennadio, il più giovane del monastero, vestito laicamente, protese le mani e s’inginocchiò.

    Cedutagli l’icona e impartitagli la sua benedizione, Invenzio gli fece segno di andare. Poi si voltò, raccolse il cappuccio sulla testa e tornò verso il monastero. Si sedette sul gradone del primo colonnato, quello che portava all’ingresso dell’abbazia. E aspettò la fine.

    2.

    Forse te l’avrò già detto altre volte in cui ti ho parlato di quel periodo e di quella casa. Ricordo che su quella parete non batteva mai il sole.

    Era appesa a metà altezza sopra un divano assai ampio, così che nessuno la potesse raggiungere e toccare. La notai mentre attraversavo la grande sala diretto verso la camera da letto.

    Il funerale di zia Konstantina era avvenuto quella stessa mattina. Era la fine di aprile del 1976. Non avevo fatto in tempo a rivederla viva, e non avevo neanche potuto accompagnarla alla sua ultima dimora. Meglio così. La tomba di famiglia, disposta come una casa in miniatura – così me la ricordavo dalle poche volte in cui vi avevo accompagnato la nonna –, mi incuteva timore, specialmente per la fotografia del nonno, appesa dietro l’ingresso di ferro battuto. Il suo sguardo penetrante pareva seguire il visitatore ovunque si trovasse, in ogni suo movimento.

    Quel giorno la luce pervadeva gli interni della casa, finestra dopo finestra, di cui nel mio procedere io scostavo le tende pesanti sino al pavimento e che aprivo una dopo l’altra affinché ogni angolo della casa tornasse a riprendere i lineamenti di qualche mese prima, quando avevo visto la zia per l’ultima volta.

    Nessuna ombra turbava la grande parete della sala. La luce indiretta lasciava inalterati i contorni della spalliera del divano accostata al muro, dei due tavolini, uno per parte, sino all’angoliera intarsiata che senza soluzione di continuità faceva da raccordo con l’altra parete. La tavola dipinta appesa alla parete sembrava come sospesa per via delle ombre che non vi sostavano e delle prospettive antiche create dai muri della stanza.

    Una volta che, ancora ragazzo, mi aveva visto osservarla, Konstantina mi aveva confidato che quella tavola era passata di generazione in generazione alla prima figlia femmina, perché le donne sapevano custodire meglio i riti familiari, e se i figli erano tutti maschi, oppure se non ce n’erano, si saltava una generazione e la si affidava alla prima figlia della successiva.

    «Questo, Zafiris, succede da almeno tre secoli, da quando si sono ritrovate tracce scritte di questa regola» disse la zia chiamandomi per nome, cosa che faceva di rado.

    In realtà non si sapeva se erano proprio tre secoli, come testimoniava il documento notarile ritrovato, oppure se quel rituale» aveva origini più antiche.

    Konstantina era stata l’ultima a possedere quell’icona, e l’aveva conservata fino alla morte perché la sorte era stata avara con lei: non aveva avuto figli.

    Quando era stato aperto il testamento avevo saputo che zia Konstantina, tra i tanti nipoti che le sorelle e i fratelli avevano messo al mondo, aveva lasciato a me la custodia di quella reliquia insieme a una busta sigillata con la ceralacca. Al suo interno avevo trovato fotografie, cartine geografiche con percorsi evidenziati e documenti vari, alcuni in fotocopia, altri in originale, qualcuno in greco, altri in italiano.

    Sulla via del ritorno cercai di farmi una ragione di quel lascito.

    Konstantina, assieme al marito, zio Anestis, era venuta a trovarmi a Bologna qualche mese prima che mi laureassi. Allora abitavo da donna Jannelle – così veniva chiamata in dialetto, con una leggera punta di vezzo, donna Anna – in una camera della sua grande casa. L’avevo incontrata per caso, qualche anno prima, davanti al suo portone mentre ero in cerca di una sistemazione. Aveva in mano la borsa della spesa e, mentre le chiedevo se conosceva qualcuno che affittasse delle stanze, feci l’atto di accompagnarla portandole la sporta. Arrivati con l’ultima rampa al quarto piano, lei mi mostrò il suo appartamento.

    «Non ho mai affittato, però, pensandoci bene, in questa grande casa, qualcuno che mi faccia compagnia non mi dispiacerebbe» disse quasi subito.

    Quello stesso giorno mi trasferii là, occupando la prima stanza dopo la porta d’ingresso. Una grande finestra dava sui tetti della casa di fronte. Sporgendomi un

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