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Breve storia di Bergamo
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E-book386 pagine4 ore

Breve storia di Bergamo

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Dalle invasioni galliche alle signorie, dai Promessi Sposi all’Atalanta: tutta la storia della città dei Mille in un solo libro

Quando si nomina Bergamo, vengono subito in mente Città Alta, le mura venete patrimonio dell’UNESCO e la spedizione dei Mille di Garibaldi, che proprio da Bergamo vide arrivare un numero altissimo di volontari. Ma la lunga storia di questa città nasconde molto di più. Dalla prima occupazione del territorio bergamasco nell’età del rame all’invasione gallica e all’epoca romana, dai secoli come libero Comune alla dominazione veneziana fino ai giorni nostri: Giulia Greco e Rossella Monaco ripercorrono le tappe della storia di Bergamo, accompagnando il lettore alla scoperta dei momenti salienti della vita della città.
Non solo i fatti, ma anche le tradizioni, gli aneddoti e i miti che sempre accompagnano la nascita e lo sviluppo di una comunità: la leggenda del fiume Brembo, il castello dell’Innominato manzoniano, sant’Alessandro, lo Zanni... Un viaggio affascinante attraverso la sfaccettata storia di quella che sarà (con Brescia) capitale italiana della cultura 2023.

Un percorso per scoprire (o riscoprire) il ruolo di Bergamo nella storia italiana

Tra gli aneddoti:

Quando Bergamo era in fondo al mare
Il martirio di Sant’Alessandro
Fra il IX e il X secolo: il trono di spade bergamasco
Guelfi e ghibellini a Bergamo: i Rivola e i Suardi
Bergamo città eretica
La famiglia Tasso e il servizio postale
La fedeltà del caporale Becharino da Pratta
Il mistero della salma di Bartolomeo Colleoni, capitano di ventura e difensore di Bergamo
Lo Zanni, antenato di Arlecchino
La Bergamo dei Promessi sposi
Francesco Nullo e le giubbe rosse garibaldine
L’albero degli zoccoli: la vita contadina sul finire dell’Ottocento
I fratelli Calvi, martiri della grande guerra
Angelica Casile, “la cocca” partigiana
La prigionia di Salvatore Quasimodo nel penitenziario di S.Agata
Giulia Greco
Nata in provincia di Bergamo nel 1984, lavora da diversi anni come redattrice, editor e ghostwriter per diverse realtà italiane. Scrive e si occupa del coordinamento di progetti editoriali di carattere storico, artistico e gastronomico e insegna presso la scuola di scrittura e di editoria Baskerville.
Rossella Monaco
È nata a Vaprio d’Adda nel 1986. Scrive e traduce libri. Ha tradotto inediti di Dickens, Thoreau, Verne e Fitzgerald e lavorato a profili biografici di scrittori e uomini politici, del presente e del passato. Con la Newton Compton ha pubblicato I grandi eroi della montagna, scritto insieme a Pietro Garanzini, Storie e segreti delle grandi famiglie italiane e, con Giulia Greco, Breve storia di Bergamo.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2022
ISBN9788822760432
Breve storia di Bergamo

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    Breve storia di Bergamo - Giulia Greco

    PREISTORIA E PROTOSTORIA

    Quando Bergamo era in fondo al mare

    Quando si racconta la storia di Bergamo, in genere, si inizia col parlare dei primi insediamenti umani. Ci arriveremo tra un po’: prima utilizzeremo qualche riga per un esercizio di fantasia. Immaginiamo la città, con la sua cinta muraria, il profilo di torri e campanili; immaginiamo i boschi che la circondano, l’intenso lavorio della pianura e delle valli; immaginiamo tutto questo – tutto ciò di cui parleremo nelle pagine di questo libro – seppellito dall’acqua. È in un grande specchio di mare che rifletteremo il nostro sguardo.

    Siamo in un territorio racchiuso tra due valli e due laghi prealpini, Como e il Sebino.

    Qui, circa 220 milioni di anni fa, nel Triassico superiore, le rocce che oggi affiorano a 300-500 metri erano isolotti immersi in mari tropicali. La vita, vivace e variopinta, brulicava sott’acqua e sulla terraferma. A testimonianza rimane un ricco campionario fossile, che fissa in un’immobile eternità tantissime specie, dai pesci ai progenitori delle aragoste fino ai primi rettili volatori. Tra questi spicca il fossile di una specie di pterosauro, l’Eudimorphodon ranzii, il più antico rettile volante conosciuto, rinvenuto nel 1973 in una cava a Cene, in Val Seriana. Si tratta di un reperto perfettamente conservato e noto in tutto il mondo per il suo valore inestimabile; infatti, è grazie a testimonianze come questa che siamo in grado di ricostruire come doveva essere il mondo a quell’epoca. Oggi il fossile è conservato nel museo cittadino di scienze naturali Enrico Caffi, che l’ha eletto a proprio simbolo.

    Il tempo che precede la storia è qualcosa di tanto esteso che ci risulta difficile immaginarlo. Pensiamo che l’Homo sapiens abita questo mondo da circa duecentomila anni e che, di questo lasso di tempo, conosciamo ben poco. E ora consideriamo che questo periodo rappresenta solo una parte infinitesimale rispetto ai milioni di anni all’interno dei quali ci stiamo muovendo in questo paragrafo. Dal Triassico potremmo fare un lunghissimo salto in avanti e ancora, nell’ampia pianura che dalle pendici delle Alpi lambisce l’Appennino, vale a dire l’attuale valle del Po, troveremmo un grande golfo alimentato da imponenti ghiacciai.

    «Ecce homo!»: dall’Età della Pietra all’Età del Ferro

    Durante l’Età della Pietra, il periodo che inizia con la comparsa dei primi ominidi (circa due milioni e mezzo di anni fa) e arriva all’8000-5000 a.C., l’attuale territorio bergamasco è una vasta pianura ricca di acque e circondata da colline dalle quali si dipartono le vallate. Qui, dal Paleolitico, si insediano gruppi di cacciatori-raccoglitori che, durante i mesi estivi, si spostano verso i pascoli d’alta quota. Le tracce del loro passaggio sono state rinvenute in corrispondenza degli antichi bivacchi sotto forma di resti di lavorazione di strumenti per la caccia o, ancora, sono testimoniate da sepolture, come quella venuta alla luce in Val Cavallina, in località Buco del Corno, che ha restituito i resti ossei di un individuo neanderthaliano, probabilmente di sesso femminile, insieme a parte del corredo: un dente forato di Hyaena crocuta usato a mo’ di pendaglio.

    Risalgono invece all’Età del Rame (iv millennio a.C.) numerosi ritrovamenti effettuati nel xix secolo nella bassa bergamasca; si tratta soprattutto di armi, come un’ascia-martello o un pugnale in selce, e non mancano sepolture collettive in grotta in diverse località della provincia. In particolare, queste ultime ci hanno restituito corredi funerari che comprendono strumenti di pietra, oggetti metallici, ceramici e ornamenti che testimoniano rapporti con le culture transalpine da ricondurre agli spostamenti di gruppi umani legati alla ricerca del metallo.

    Questi rapporti proseguono durante l’Età del Bronzo e sono ancora una volta le grotte – come quella di Andrea, a Zogno, o quella del Gatt o del Cünì, a Berbenno – a renderne testimonianza, consegnandoci corredi composti, tra l’altro, da oggetti metallici connotati da una decisa influenza centroeuropea o, ancora, da conchiglie tipiche dei mari caldi. Dai denti forati di lupo o di cervo possiamo desumere che questi uomini vivessero di caccia, ma la presenza di resti di capre e di pecore porta a concludere che a essa si affiancasse l’allevamento.

    La grotta che forse ci racconta la storia più affascinante e misteriosa è la Tomba dei Polacchi, una cavità che si sviluppa orizzontalmente lungo quattro chilometri, compresa nel territorio di Rota Imagna, ai piedi del Resegone. Non bisogna farsi ingannare dal nome, la cui origine va ricercata nel dialetto: in questo caso non abbiamo a che fare con delle sepolture – tomba è una deformazione del termine tamba, ovvero antro – e gli abitanti della Polonia c’entrano ben poco; molto probabilmente pol sta per stagno e ak richiamerebbe l’acqua. Infatti questo, durante le Età del Bronzo e del Ferro, doveva essere nientemeno che un luogo di culto in cui i nostri antenati celebravano divinità legate alle acque sorgive e ai fiumi. A sostenere la tesi, importanti ritrovamenti archeologici avvenuti a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, quando alcuni appassionati speleologi rinvengono per caso, nei pressi della cosiddetta grande stalattite, un vaso in terracotta collocato a mo’ di offerta e contenente due spilloni in bronzo, una scoria di ferro e una zampa di pecora. Vicino, è stato trovato un rasoio in bronzo decorato con un’ascia bipenne; una scoperta eccezionale perché tipica dei corredi funebri ma unico caso noto in un contesto devozionale: forse un modo di propiziarsi le divinità attraverso un’offerta rara? Chi può dirlo…

    Se continuiamo a lasciarci guidare dall’acqua in questo nostro percorso, osserviamo come, sempre durante l’Età del Bronzo, forse a causa di un cambiamento climatico, gli uomini iniziano a stanziarsi nei pressi di paludi, piccoli laghi e fiumi, bonificando o costruendo palafitte. Contemporaneamente vedono una crescita gli abitati posti nelle cosiddette aree colluviali, zone fertili e riparate perché nate in seguito all’accumulo di detriti alla base dei pendii collinari. A poco a poco, gli abitanti di questi piccoli centri confluiscono in un unico nucleo dando vita, intorno al vi-v secolo a.C. (siamo sul finire della prima Età del Ferro), a un primo abitato protourbano ascrivibile alla cultura di Golasecca. Interessante come questo abitato sorga sulla sommità del colle di Bergamo, nel punto in cui, quattrocento anni dopo, sarà fondata la città romana e insisteranno, nei secoli, quella medioevale e moderna. Ma non corriamo troppo avanti.

    Intanto possiamo dire che non conosciamo la precisa data di nascita di Bergamo e che la città è priva di un vero e proprio atto di fondazione. Le più recenti scoperte archeologiche ci dicono che già tremila anni fa alcuni gruppi umani devono essersi insediati sul colle, in un’area che oggi rappresenta il cuore della città antica, compresa tra il Duomo e il Palazzo del Podestà. Tuttavia non sappiamo molto di più, come non è certa l’origine del popolo che ha dato vita al primo centro protourbano. La scarsità di reperti archeologici e di fonti letterarie porta gli studiosi a sottolineare come qualunque tentativo di approfondimento delle vicende relative alla Bergamo preromana si riduca a ipotesi.

    La letteratura classica vuole che fondatori della città fossero gli Orobi. Citando Catone, nella Naturalis Historia¹ Plinio afferma che questi la battezzarono come Parra (o Barra). Ma lo storico latino non chiarisce l’origine di questo popolo (o meglio, citando Alessandro Cornelio, avanza un’ipotesi greca, da non considerare). Attualmente si pensa possa trattarsi di una popolazione di stirpe ligure oppure gallica, tuttavia non c’è una risposta definitiva. L’unica cosa certa è che le pendici sulle quali gli Orobi hanno vissuto portano ancora oggi il loro nome.

    Parra Oppidum degli Orobi

    Parre è un comune della Val Seriana in cui sorge un bel parco archeologico. Qui, nel xix secolo, durante dei lavori agricoli in località Castello, viene alla luce un accumulo di manufatti bronzei deposto in un pozzetto nel v secolo a.C. e poi forse dimenticato. Gli archeologi lo catalogano come il ripostiglio di un artigiano fonditore. Parliamo di oltre una tonnellata di materiale, che all’epoca viene in gran parte venduto a una fonderia, mentre quanto si è salvato è oggi esposto presso il Museo archeologico di Bergamo. Solo molto più tardi, negli anni Ottanta dello scorso secolo, l’area è sottoposta a una serie di campagne di scavo, che procedono fino al 2011. A partire da queste indagini è stato individuato un abitato di circa 13.000 metri quadrati. Si può dunque supporre che quel Parra Oromobiorum oppidum menzionato nella Naturalis Historia pliniana sia da individuarsi proprio in questo antico nucleo. Parra sarebbe il nome latino della località valligiana (dal celtico barros, testa, sommità, cima, punta; ed effettivamente ci troviamo in posizione rialzata); oppidum indica un importante centro in questo caso attribuito agli Orobi, gli abitanti delle valli lombarde durante l’Età del Ferro.

    Questa tesi confermerebbe la grande rilevanza strategica della Val Seriana, un’area che si contraddistingue per una straordinaria ricchezza mineraria e che, per questo motivo, a cavallo tra l’Età del Bronzo e quella del Ferro vede sorgere alcuni tra i più antichi insediamenti. In questi primi centri si svolge l’intero ciclo della produzione metallurgica: i metalli vengono estratti dai minerali (con il progredire delle epoche: rame, stagno – dal cui legame si ottiene il bronzo – e piombo), in seguito vengono fusi per essere colati in matrici di pietra e infine rifiniti artigianalmente per diventare manufatti utilizzati nel quotidiano.

    Il primo centro protourbano golasecchiano: anello di congiunzione tra due culture

    Durante l’Età del Ferro sono numerose le culture protostoriche che compongono il panorama dell’Italia settentrionale. L’una di fianco all’altra, convivono entità etniche distinte che si traducono in culture regionali, espressioni di civiltà connotate da organizzazioni sociali e politiche anche molto differenti. Da ovest, troviamo i Liguri nel settore marittimo; popolazioni di stirpe celto-ligure negli attuali Piemonte e Ovest Lombardia; genti di stirpe retica popolano le vallate alpine, mentre scendendo a est verso la Pianura Padana si incontrano popolazioni etrusche; nell’area a est di Verona, i Veneti.

    Il territorio bergamasco, posto ai margini delle grandi culture preistoriche o protostoriche, rimane in sostanza suddiviso tra due civiltà e dunque abitato da due diverse popolazioni.

    Nelle valli trova espressione la cosiddetta cultura centroalpina, di stirpe retica, che coinvolge tutta l’area delle Alpi centrali, dal Sud dell’Austria al Trentino-Alto Adige, dalle vallate bresciane alla Valtellina, fino ai Grigioni. Si tratta di un universo composto da molte comunità, che nella Bergamasca si manterrà piuttosto chiuso alle influenze esterne e pressoché immutato e autonomo fino all’età augustea.

    Antica carta geografica che mostra i territori degli Orobi, degli Euganei e dei Galli transpadani (Galleria delle carte geografiche, Musei vaticani, Roma).

    L’area collinare e la pianura, invece, sono soggette all’influenza della cultura di Golasecca, di origine celtica, aperta agli influssi centro-italici e padani nonché a quelli celtici d’oltralpe. Siamo al cospetto di una delle più sviluppate culture preistoriche, che caratterizza l’Italia nordoccidentale tra il ix e il iv secolo a.C. e vede in Como il centro di maggior rilievo.

    Nel corso della Prima Età del Ferro si intensificano i traffici tra gli Etruschi, insediati nella fascia centrale della penisola italica, e la cultura golasecchiana, determinando di conseguenza la fioritura di diversi centri abitati in tutto il Nord Italia. È in questo contesto che si colloca il primo abitato protourbano che vede la luce sul territorio bergamasco tra il vi e il v secolo a.C.

    Già a quest’epoca è un centro piuttosto consistente: lo testimoniano gli scavi eseguiti in città dalla Soprintendenza archeologica lombarda che, a partire dal 1980, ha indagato le fasi più antiche conservate al di sotto dei livelli romani. Le attività di scavo hanno riportato alla luce muri costruiti con pietra locale legati con l’argilla e una pavimentazione lastrica (nonché i successivi strati di crollo e di abbandono), individuando un’area di circa 24 ettari che si suppone fosse densamente abitata.

    Ci troviamo sul colle di Bergamo, tra i 300 e i 400 metri sul livello del mare, e questa prima città deve adattarsi a una morfologia non uniforme, caratterizzata da diversi saliscendi. Al tempo stesso, la posizione rialzata la connota come un baluardo sulla Pianura Padana, oltre che sbocco naturale delle due principali valli orobiche, Seriana e Brembana.

    Per questo motivo possiamo immaginarla come un anello di congiunzione tra la montagna, con la sua ricchezza mineraria e l’economia silvo-pastorale, e la pianura rurale votata all’attività agricola. È il luogo in cui si incontrano diversi mondi economici e da cui transitano coloro che percorrono i sentieri in direzione dei monti per raggiungere i ricchi giacimenti metalliferi.

    Uno snodo viario e commerciale, dunque, un luogo di passaggio lungo il percorso pedemontano che collega l’Etruria padana e i passi alpini. E così, se finora il territorio orobico aveva goduto di un ruolo strategico in relazione alla Val Seriana, ora questo ruolo si estende al controllo della pianura, nelle direzioni delle attuali Como, Milano e Brescia.

    La fioritura del primo nucleo protourbano, tuttavia, non ha vita lunga. All’inizio del iv secolo a.C., le popolazioni celtiche d’oltralpe che i Romani battezzeranno come Galli penetrano nell’Italia settentrionale e domineranno per i cento anni successivi. L’invasione causa il crollo di un intero sistema: gli scambi e i percorsi mercantili che mettevano in comunicazione l’area italica e il Nord delle Alpi subiscono una brusca interruzione e la cultura golasecchiana cede il passo a quella gallica, o di La Tène (dall’omonimo villaggio svizzero in cui vengono scoperti per la prima volta manufatti caratteristici di questa cultura). Vengono dunque meno i presupposti che hanno consentito la nascita di quel primo abitato sul colle, il quale sembra subire un rapido spopolamento e andare incontro alla decadenza. Tale declino trova conferma nella scarsità di attestazioni risalenti alla seconda Età del Ferro, e se da un lato ciò può essere ricondotto ai successivi interventi urbanistici operati dai Romani, non possiamo trascurare come, tra il iv e il ii secolo a.C., tutte le aree che in passato si erano arricchite grazie al percorso commerciale pedemontano subiscono un processo di spopolamento.

    La necropoli golasecchiana di Brembate Sotto

    Il passaggio dalla cultura di Golasecca alla civiltà detta di La Tène interessa gran parte del Nord Italia fino alla conquista romana. Nella Bergamasca ha lasciato traccia nel comune di Brembate Sotto, posto lungo il corso del Brembo poco prima che questo si getti nell’Adda. Nel 1888, durante i lavori per la costruzione della strada provinciale, alcuni operai rinvengono a qualche centinaio di metri dalla sponda del fiume alcune antiche urne, dei vasetti, delle armi. Tuttavia, la fretta di portare a termine il cantiere ha la meglio, la notizia dei ritrovamenti viene taciuta e gli oggetti vanno dispersi. Soltanto l’anno successivo prendono il via degli scavi archeologici in seguito ai quali viene alla luce una necropoli in uso tra la metà del vi secolo e i primi anni del iv. Si tratta del più significativo sito di carattere funerario riconducibile a questo periodo presente nella provincia, caratterizzato da tombe a incinerazione come vuole la cultura di Golasecca. Il suo ritrovamento lascia supporre che ci sia ancora molto da scoprire: qui doveva sorgere un importante abitato che con tutta probabilità rappresentava un nodo strategico per i rapporti a vasto raggio intrattenuti dalla cultura golasecchiana, come testimoniano i diversi oggetti restituiti dagli scavi, sia di tradizione golasecchiana sia di importazione, parte dei quali sono oggi conservati presso il Museo archeologico di Bergamo.

    L’invasione gallica

    Sappiamo che i Galli – o Celti, l’altro nome con il quale è indicato questo popolo – sono in realtà un insieme di tribù di origine indoeuropea mai riunitesi sotto un unico Stato. Sono accomunate dalla stessa lingua, declinata in diversi dialetti, e da un sentimento di unità etnica per il quale si percepiscono come discendenti dallo stesso ceppo. In origine stanziati in un’area compresa tra la Senna, il medio Reno e l’alto Elba, a partire dal iv secolo a.C. i Galli si espandono in altre zone dell’Europa del centronord prima di raggiungere la penisola italica. Per convenzione, il 388 a.C. è la data che sancisce l’invasione e segna l’inizio della Seconda Età del Ferro.

    I movimenti protostorici di questo popolo sono scarsamente indagabili e spesso le fonti attingono a testimonianze classiche, come quelle di Cesare o di Livio, non sempre confermate dai riscontri archeologici. Sulla base di questi ultimi, oggi non è azzardato pensare che una presenza gallica in Val Padana preceda le date convenzionali e possa essere ricondotta già al v secolo a.C., tradotta in una convivenza tra Galli ed Etruschi, che in quel periodo esercitano la propria influenza sull’area; mentre gli Etruschi si sarebbero serviti del popolo celtico per affermare i propri commerci nel Centro Europa, i Galli si sarebbero affermati in modo graduale con la propria cultura e le proprie strutture politiche e sociali. Ciò non significa che la convivenza sia stata sempre pacifica, ma in quest’ottica l’area padana sarebbe stata, per un certo periodo, un punto di incontro tra le due sfere (mediterranea e continentale), fino agli scontri aperti e alla più significativa penetrazione del iv secolo, quando i Senoni si spingono oltre il Po.

    Così come le fonti non sono certe né univoche, nella Bergamasca gli indizi archeologici dell’età gallica sono molto limitati e non risolvono le ambiguità. A oggi non è possibile determinare con certezza quale gruppo di Galli fosse insediato sul colle bergamasco, se gli Insubri, che vedono in Milano il proprio centro d’elezione, o i Cenomani, stanziati nel Bresciano.

    Nonostante le incertezze, nella nostra panoramica è interessante soffermarsi a notare un dato: i Galli, abituati a spostarsi per trarre sostentamento dall’occupazione di nuove terre, tradizionalmente si muovono in modo svelto e agile grazie all’ausilio di cavalli e carri da guerra. Di conseguenza, il territorio collinare sul quale sorge il primo centro protourbano non è per nulla adeguato alle necessità di queste genti, che scelgono dunque di insediarsi in pianura, dando vita a popolosi villaggi rurali; tra questi, quelli compresi nelle attuali aree di Ghisalba, Verdello e Treviglio sembra fossero i maggiori. Ciò spiegherebbe come mai l’abitato protourbano sul colle e le sue vitali vie di collegamento siano andati incontro a quel rapido declino. Perciò, i Galli aprono e percorrono nuove strade e prendono a sfruttare maggiormente le potenzialità agricole della pianura, che acquisisce più importanza. Questi processi delineano un nuovo scenario che pone le premesse per la penetrazione romana.

    Le miniere e il commercio minerario della Val di Scalve

    Sul corso del bizzoso torrente Dezzo, arrivando dalla Valle Camonica, sembra di risalire una stretta fessura tra i monti. E proprio dal celtico skalf deriva il nome della Val di Scalve. Questi territori, in epoca protostorica, sono già abitati dai Galli, molto prima della conquista romana.

    Fino agli anni Settanta del Novecento, la Val di Scalve è una terra di miniere, nota soprattutto per l’estrazione del ferro, del piombo e dello zinco. I primi documenti relativi a questo commercio risalgono all’anno Mille, ma la tradizione orale riporta alla memoria le fatiche dei damnati ad metalla, prigionieri-schiavi del governo di Roma, sotto l’impero di Augusto, costretti a lavorare per l’estrazione dei metalli utili a fabbricare le armi. Si tratta soprattutto di prigionieri politici e religiosi, mandati tra le genti retiche a trarre vantaggio dalle ricchezze del sottosuolo.

    Verso la fine del xviii secolo, Giovan Battista Rota scrive in Dell’origine e della storia antica di Bergamo: «Sono abbastanza note le miniere di ferro delle quali ancora oggidì traggono grande utilità i nostri valligiani. E stante che questo ferro sia fino, saldo e trattabile più di ogni altro, si dee credere che i romani in Bergamo e nel distretto tenessero impiegata moltitudine di operai in fabbricar armi...».

    La presenza dei Romani è confermata anche dalla nota via Mala, che collega Lovere alla valle tramite il paese di Azzone, scavata dai soldati nella roccia, in una gola selvaggia nell’orrido del Dezzo: una strada suggestiva ricca di cascatelle che d’inverno gelano e che creano, per chi si trova a passare, uno spettacolo di cristalli, luci e ombre. L’escavazione intensiva dei metalli, a ogni modo, si registra solo a partire dal Basso Medioevo e il massimo sviluppo si ha sotto la dominazione veneta con la produzione delle palle di cannone e dei chiodi per usi bellici.

    Ulteriore elemento a sostegno dell’occupazione romana di queste terre, secondo alcuni storici, è la derivazione del nome Schilpario, dal latino scalpere che vuol dire scavare, anche se per altri deriva in realtà dall’antico schirparium, modificazione di schirpa, che nel linguaggio medioevale significa collezione di arnesi utili a una certa attività. La toponomastica viene sempre in aiuto quando si tratta di ricostruire la storia dei luoghi!

    Oggi il commercio minerario è stato sostituito del tutto dal turismo, attirato dalla bellezza della scenografia creata dalle vette sopra i 2000 metri e dall’ambiente montano, ricco di faggi e abeti. Rimangono comunque, a testimonianza della lunga storia estrattiva, diversi musei minerari ed etnografici, tra cui il Museo dell’illuminazione mineraria e il Museo della miniera di Schilpario. Nel periodo primaverile ed estivo, è poi possibile visitare le vecchie miniere, in pinete bellissime, a bordo di trenini turistici, accompagnati da guide.

    Brenno e il fiume Brembo, tra storia e leggenda

    Esiste una leggenda che potrebbe accompagnarci nel raccontare il passaggio dalla dominazione gallica alla Bergamo romana. Se ne trova traccia nel Liber Pergaminius, un poemetto incompiuto di Mosè del Brolo, arcivescovo, poeta, grammatico e traduttore nato a Bergamo sul finire dell’xi secolo.

    La leggenda prende le mosse dall’episodio del sacco di Roma, avvenuto nel 390 a.C. a opera dei Galli Senoni sotto la guida di Brenno. Sappiamo che l’evento si conclude con la sconfitta capitolina e con le autorità romane costrette a versare un riscatto pari a mille libbre d’oro. Tuttavia, come narra Tito Livio², i Romani si oppongono, sostenendo che le bilance adoperate per pesare il prezioso metallo siano truccate. Questo è il momento in cui Brenno getta la propria spada su uno dei piatti della bilancia e pronuncia la celebre frase «Vae victis!» – Guai ai vinti – con la volontà di imporre il primato della forza sul diritto. Secondo la tradizione, il condottiero Marco Furio Camillo affronta il Gallo lanciando a sua volta la propria spada sulla bilancia e pronunciando le parole «Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria», ovvero: non con l’oro, ma con il ferro, si riscatta la Patria.

    Brenno, capo dei Galli, e Marco Furio Camillo, dopo il sacco di Roma, in un’incisione del 1889.

    A questo punto i Galli, intascato il bottino, iniziano una ritirata verso nord inseguiti dai Romani decisi a recuperarlo e a vendicarsi. In questa rincorsa forsennata, dopo la battaglia di Fiesole dalla quale esce nuovamente vittorioso, Brenno giunge a Bergamo. Qui, intuita la potenzialità strategica del luogo, chiede agli abitanti di sottomettersi. Poi, di fronte al rifiuto di questi ultimi, mette la città a ferro e fuoco. Sul luogo giunge il console Tito Manlio, deciso a sfidare il condottiero celtico a duello. Nello scontro il Romano ha la meglio e, in segno di vittoria, indossa la torque – un pesante collare metallico – del Senone: da qui sarà ricordato con il nome di Tito Manlio Torquato. Decide però di risparmiargli la vita e così Brenno, marchiato dal disonore, si getta in un fiume, lasciandosi annegare. Quel fiume è uno dei principali della Bergamasca e, da allora, prende il nome di Brembo.

    ____________________________________________

    ¹ iii, 17, 124-5

    ² Ab urbe condita v, 48.

    L’EPOCA ROMANA

    La conquista romana della Gallia Cisalpina

    Al di là della leggenda, la storia vuole che mentre i Senoni assediano Roma, i Cenomani, stanziati in Pianura Padana, stringano un’alleanza con l’Impero; al contrario, le popolazioni dei Boi e degli Insubri si mantengono ostili nei confronti dei Romani. È di nuovo soprattutto la testimonianza di Tito Livio

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