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Pensiamo in stampatello: Quando candidarono Batman a Sindaco di Ravenna
Pensiamo in stampatello: Quando candidarono Batman a Sindaco di Ravenna
Pensiamo in stampatello: Quando candidarono Batman a Sindaco di Ravenna
E-book385 pagine3 ore

Pensiamo in stampatello: Quando candidarono Batman a Sindaco di Ravenna

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Info su questo ebook

Anita Giunchi, una prof giovane e precaria, si trova a insegnare Storia a diciannove diciottenni di una scuola superiore di Ravenna che hanno tutti una caratteristica in comune: a nessuno di loro importa niente di quello che dice lei. E allora lei decide di inventarsi qualcosa per farsi ascoltare da loro.
Ecco, questa è la storia di quello che si inventa. Che parte come un semplice progetto scolastico ma che poi, se ne va via per conto suo. Senza un inizio e senza una fine. Ma con un motivo: riuscire a stare al mondo.
E poi si parla di politica della fantasia in questo romanzo qui, di Batman e di rinotillexomania che è un disturbo molto antipatico che fa finire sempre, le dita dentro al naso.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2019
ISBN9788893781657
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    Anteprima del libro

    Pensiamo in stampatello - Francesca Massaroli

    Olmi

    I - Gennaio

    1.

    Era freddo. Era mattina. Era presto.Via De Gasperi non era più Via De Gasperi. Non c’era nessuno. Non c’erano esseri umani che correvano veloci sotto i portici grigi. Non c’erano biciclette che sfrecciavano da tutte le parti. Non c’erano macchine alla ricerca di un miracoloso parcheggio. Non c’erano macchine già miracolate.

    C’era della nebbia. Che sbiancava l’aria. C’era del freddo. Che congelava la nebbia. E c’era Carlotta Senferle. Che guidava lentamente verso Piazza San Francesco.

    «Che merda di freddo,» disse.

    Il termometro del cruscotto lampeggiava un due rosso come temperatura esterna.

    Voleva avvicinarsi il più possibile alla piazza. Alla rotonda prima dell’area pedonale rallentò e scalò la marcia poi, sterzò a sinistra parcheggiando sul marciapiede. Male. Tirò il freno a mano, non spense il motore e con l’indice della mano sinistra azionò l’accendisigari.

    Distese la schiena, il sedile cigolò, inspirò profondamente, espirò lentamente. Allungò le gambe tra i pedali aspettando lo scatto.

    Aveva dormito abbastanza bene quella notte. Non aveva sentito fitte. Nessun dolore alla coscia destra. Nessuna fitta dolorosa dentro al suo inguine. Inspirò profondamente, espirò lentamente. Mi sono riposata, pensò. Le notti piene di fitte erano finite da un pezzo. Ma non si ricordava neanche più quando erano cominciate. Inspirò profondamente, espirò lentamente. Sua mamma era morta da dodici anni. Forse erano cominciate allora. Gliele aveva lasciate in eredità lei. Con l’appartamento al quinto piano senza ascensore dove abitavano.

    Carlotta Senferle si era liberata piuttosto in fretta dell’appartamento, ma le fitte nelle gambe erano rimaste. E aveva provato di tutto per liberarsi anche di quelle. Di tutto aveva provato. E aveva ascoltato i consigli di tutti. Aveva cominciato con la ginnastica dolce. Anche sua mamma si curava con la ginnastica dolce, se lo ricordava bene, perché sua mamma era a un corso di ginnastica dolce ogni volta che si dimenticava di andare a prenderla da scuola. E tutti infatti, consigliavano la ginnastica dolce come unica e risolutiva cura per la sciatica. Carlotta Senferle non aveva ottenuto nessun miglioramento con la ginnastica dolce. Allora aveva provato con lo stretching. Sua mamma faceva molto stretching, tutti i pomeriggi, almeno per due ore e infatti tutti consigliavano anche lo stretching come unica e risolutiva cura per la sciatica. E invece Carlotta Senferle niente, faceva tanto stretching di giorno ma le sue notti continuavano a essere piene di fitte dolorose. Poi c’era stato lo yoga. Sua mamma andava anche a yoga. E poi andava anche a pilates. E a Carlotta Senferle invece non erano serviti a niente né lo yoga né il pilates. Poi erano entrate le benzodiazepine nella vita di sua mamma. E anche nella vita di Carlotta Senferle, dopo. Ma le benzodiazepine inciciuivano completamente durante il giorno e di notte invece, niente. Quelle fitte restavano. L’appartamento invece no, era riuscita a venderlo e neanche a fatica. Dopo un po’ di trambusto iniziale, dovuto ad alcuni acquirenti che avevano promesso di comprarlo ma che poi si erano tirati indietro, era arrivato l’acquirente ultimo e definitivo. Il signor Manetti Kristian, dottore nelle medicine della specie umana. Si era letteralmente presentato così la prima volta che si erano incontrati dentro l’agenzia immobiliare. Era un uomo vecchio, con i capelli gialli appiccicati alla testa che le aveva baciato la mano davanti all’agente immobiliare e aveva fatto anche un mezzo inchino.

    Conclusero l’acquisto in tre giorni e per festeggiare il rogito, appena usciti dallo studio notarile, il signor Manetti Kristian, dottore nelle medicine della specie umana, si era acceso una canna che subito e gentilmente aveva offerto alla venditrice. La quale, subito e gentilmente, aveva accettato.

    Da quel giorno nella vita di Carlotta Senferle, e soprattutto nelle sue notti, era entrata la marijuana. La sua amica Marija, come cominciò a chiamarla lei. Da quel giorno in avanti la sua amica Marjia diventò l’unica e risolutiva cura alle sue sofferenze.

    Carlotta Senferle, che non aveva mai avuto un’amica in tutta la sua vita, fin da subito, si legò empaticamente alla Marija perché fin da subito la Marjia riuscì a zittire quelle fitte. E Carlotta Senferle finalmente cominciò a stare bene.

    La Marija diventò la compagna delle sue notti. E poi anche dei suoi giorni. Carlotta Senferle nel tempo, si organizzò poi anche il piano terapeutico per la corretta somministrazione, e per farlo, riunì la metà destra e la metà sinistra del suo cervello che insieme, dopo brevissimo consulto, concordarono le indicazioni di dosaggio, le modalità e i tempi di assunzione. Fu stabilito quindi che, all’occorrenza, la paziente avrebbe potuto assumere tutta la marijuana necessaria.

    Carlotta Senferle si sarebbe fumata tutte le canne che voleva per fare sparire dal suo corpo quelle stronze di fitte.

    Dalle sue due metà del cervello però, le fu imposta solamente un’unica regola da rispettare sempre.

    Al giornale dove lavorava, nessuno di quegli stronzi dei suoi colleghi avrebbe dovuto beccarla mentre fumava. Mai.

    Niente fumate nei bagni quindi e niente fumate sul terrazzo-fumatoio che usavano tutti.

    Carlotta Senferle non aveva paura di ripercussioni personali. Lei, semplicemente, non voleva spartire assolutamente niente con quelle merde. Con quella casta di intellettuali. No, perché lei era un certo tipo di persona e invece loro, no.

    L’accendisigari del cruscotto scattò. Carlotta Senferle infilò la mano destra dentro la borsa che aveva lasciato aperta sul sedile del passeggero e da una tasca interna tirò fuori il portasigarette di metallo. Lo aprì. Una canna cadde e cominciò a rotolare leggera sul cappotto rosa. La fermò delicatamente prendendola con il pollice e l’indice della mano sinistra e se la portò tra le labbra mentre con la mano destra risistemava il portasigarette dentro la borsa.

    Sfilò l’accendisigari dal cruscotto, appoggiò un attimo la resistenza incandescente all’ estremità di carta arrotolata che subito si accese, e finalmente, intensamente, inspirò. Trattenne in gola il fumo e chiuse gli occhi. Poi, lentamente, espirò.

    Era la seconda canna quella mattina. La prima se l’era fatta sul presto, subito dopo il primo caffè, quello in cucina, e adesso, si era fatta l’ora di far su la seconda.

    L’abitacolo dell’auto cominciò a riempirsi di fumo. Carlotta Senferle lentamente inspirava e poi espirava mentre la canna si consumava. Guardò l’ora sul cruscotto. Era presto. Mancavano ancora ventisei minuti all’appuntamento.

    Da lì ci volevano due minuti a piedi per arrivare in Piazza San Francesco pensò, forse tre. Tornò a inspirare intensamente. Non soffiò fuori il fumo, lo trattenne dentro la bocca, dentro la gola, dentro al cervello.

    Chiuse gli occhi ed espirò. Quell’intervista forse, adesso, a quei ragazzetti squinternati, poteva essere anche meno schifosa di come gliela aveva presentata quella testa di cazzo del capo-redattore, pensò.

    Inspirò. Trattenne. Espirò. Quando quella merda due giorni prima l’aveva chiamata e le aveva detto: «Vacci tu Senferle a parlare con quelli là e poi torna qua in redazione, scrivi quello che vuoi ma stroncali», lei non aveva pensato niente. «Qua a Ravenna vincono sempre gli stessi», le aveva detto, «le elezioni ci sono fra sei mesi e devono continuare a vincere sempre gli stessi.» E mentre parlava quell’invertebrato si era infilato quel cazzo di dito nel naso. Come faceva ogni volta che parlava con lei. E se lo infilava sempre dentro la narice destra. Mentre parlava con lei. E poi grattava con l’unghia, dentro al naso. Si vedeva da fuori che grattava. Grattava la pelle dentro al naso mentre parlava con lei. E si sentiva anche da fuori, che grattava la pelle. Non si vergognava quello schifo del capo redattore, di parlare con lei e di grattarsi dentro al naso. Perché poi, alla fine del grattare, tirava fuori dal naso la caccola che aveva prodotto con tutto quel grattare e la lanciava via, con il pollice e l’indice. Mentre parlava con lei. Non lo faceva in maniera plateale, però lo faceva. E Carlotta Senferle ogni volta, lì davanti, lo vedeva. La prima volta che aveva assistito alla scena, le era venuto il voltastomaco. La seconda volta, le erano venuti su dallo stomaco anche un paio di conati. La terza volta, non era riuscita a stare zitta. Gli aveva detto che lei non avrebbe continuato ad assistere a delle scene del genere, perché le veniva da vomitare.

    «Sono malato,» aveva dichiarato lui senza riuscire a guardarla in faccia, «soffro di rinotillexomania. È un disturbo ossessivo compulsivo. Sto cercando di curarmi ma non funziona niente di niente,» le aveva detto. Sembrava sincero. E lei aveva apprezzato la sincerità. E per questo non gli aveva chiesto perché avesse una predilezione univoca per la narice destra. E poi, aveva pensato che fosse necessario escogitare un sistema per non vomitare.

    Le venne addirittura in mente di presentare anche a lui la sua amica Marija ma poi si era ricordata di quanto lui fosse catto-introdotto nella catto-realtà ravennate e l’idea era evaporata subito dal suo cervello.

    Il capo-redattore non le era mai piaciuto. Era una merda asservita al maggiore nonché unico Partito ravennate con una vita, ovviamente, perfetta. Aveva una perfetta fervente cattolica moglie e due figli perfetti e ferventi boy-scout. Il giorno che lui le aveva aveva fatto quella confessione però, per un attimo, le era sembrato vivo. Per un attimo, non era sembrato il solito cartonato sponsorizzato. E poi aveva capito che il sistema per farsi passare lo schifo assoluto che le veniva su dallo stomaco ogni volta che parlava con lui, doveva trovarlo da sola. Perché lei, doveva parlare faccia a faccia con lui, almeno una volta al giorno. E allora, aveva deciso di farsi una canna prima di entrare nel suo ufficio. Ogni giorno. E poi, dopo essersi fumata una bella canna carica, entrava, e lo ascoltava. E vedeva. La situazione diventò via via più gestibile. Delle volte addirittura, se la canna era bella pesante, provava anche a seguirla con gli occhi quella caccola. Seguiva con lo sguardo il percorso che faceva nell’aria ma il più delle volte, la perdeva di vista. E poi, le veniva da ridere. Perché pensava che stare dietro a quello che usciva dal naso di quello stronzo di capo-redattore, fosse più interessante che ascoltare quello che usciva dalla sua bocca.

    Carlotta Senferle girò la chiave e spense il motore la macchina. Inspirò, espirò.

    Quanti sono quegli squinternati che devo intervistare?, si chiese nella testa. Quattro, sì quattro. Oppure cinque. Non si ricordava. Il capo-redattore glielo aveva anche detto quanti erano, ma adesso, non se lo ricordava più, ma non era importante perché adesso, stava bene. Diede l’ultimo tiro e fece l’ultima respirata terapeutica. Spense la sigaretta nel posacenere e lo lasciò aperto per aromatizzare l’abitacolo. Cominciò a cercare il portamonete dentro la borsa. Lo trovò, tirò fuori un euro.

    Aprì la portiera, scese svelta dalla macchina e in mezzo al freddo arrivò davanti al parchimetro. Infilò l’euro, spinse il tasto verde. Il parchimetro le restituì l’euro. È domenica, non si paga, pensò. Le venne da ridere. Vide l’ora sul display della macchinetta. Regalerò loro al massimo dieci minuti del mio tempo o forse anche meno con tutto ‘sto freddo, pensò. Si annusò il cappotto per assicurarsi che non si sentisse l’odore della marija. Ma non lo sentiranno neanche quei ragazzotti perché chissà che cosa son buoni di spararsi loro quando sono insieme, pensò mentre si incamminava.

    Lei, Carlotta Senferle, la Giornalista, era stata ben chiara con quei ragazzi quando li aveva richiamati per confermare l’appuntamento.

    Si dovevano presentare da soli, senza nessun adulto. No, neanche la loro professoressa poteva venire, anche se era giovane, anche se era stata lei a dar loro quell’idea, aveva detto per telefono. Assolutamente no, aveva detto, ci dobbiamo essere solamente noi. Perché ho bisogno di conoscervi personalmente, senza ingerenze esterne. E voi siete tutti maggiorenni vero? Si era preoccupata di informarsi lei.

    Non voleva professori cagacazzo o adulti cagacazzo che fossero testimoni dell’incontro, aveva pensato Carlotta Senferle mentre parlava al telefono con loro. Anche se questo, non l’aveva detto.

    Aveva preparato le domande in cinque minuti. E quei quattro sciroccati di adolescenti, che forse erano anche cinque, potevano accontentarsi. Ma tanto non importava, quattro o cinque che fossero, avrebbero detto soltanto delle cazzate e alla fine l’articolo, se lo sarebbe poi inventata lei, dalla prima all’ultima parola. Perché quel progetto, che quei ragazzi le dovevano spiegare di persona, era una gigantesca stronzata, aveva pensato Carlotta Senferle fin dalla prima volta che ne aveva sentito parlare. Era una stronzata gigantesca e lampeggiante e non aveva un verso da nessuna parte.

    Ma come era venuto in mente a quelli, una stronzata di tali dimensioni? Perché poi, lì, in mezzo a loro, c’era anche il figlio della segretaria del Sindaco in carica nonché Segretario Comunale del Partito. Ma figurati se a Ravenna, qualcuno, può portar via il potere al Partito imperante. A Ravenna, o sei del Partito, oppure puoi andartene da Ravenna se vuoi essere di un altro di partito. È una cosa semplice da fare e ci sono pure tante altre città intorno a Ravenna. C’è anche l’Emilia qua vicino se non vuoi essere del Partito, ci sono pure le Marche, c’è l’Abruzzo, c’è la Toscana, ci sono tanti di quei posti dove puoi andare; c’è anche Marte, c’è Saturno se ti vuoi allontanare un po’ di più, stava pensando Carlotta Senferle mentre camminava verso la Piazza. Però te ne devi andare da Ravenna, se vuoi fare qualcosa fuori dal Partito perché qui, a Ravenna, non sono ammesse alternative. E per fortuna che sono io, quella che si fa i cannoni, stava pensando quando arrivò in Piazza San Francesco.

    Dalla parte opposta della Piazza, le sembrò di distinguere, attraverso la nebbia, quattro ragazzi vicini al gradone di marmo che dal muro della biblioteca di Storia Contemporanea correva fino all’entrata della chiesa. E sembrava che anche loro, stessero guardando lei.

    2.

    «Quelli come te, non esistono.»

    «Ah no? Allora io non esisto.»

    «No. Perché se quello che stai dicendo è vero, tu non esisti. Oppure, la devi smettere con le tue cazzate da perfetto santo del cielo, perché tu, io e tutti noi ce li abbiamo dei bisogni da soddisfare, non puoi negarlo. E la devi smettere di sparare tutte le tue cazzate da intellettuale, vacca di quella puttana maiala. I bisogni li devi soddisfare anche te, per forza e non puoi fare diverso. E quindi non è vero che tu, dei bisogni da soddisfare, non ne hai. I bisogni fisiologici per esempio, li avrai pure anche tu, cazzo.»

    Il ragazzo, stizzito, si alzò dal gradone di marmo e si allontanò dagli altri tre seduti vicino a lui. Dopo qualche secondo ritornò sui suoi passi e puntò il dito indice verso l’altro maschio del gruppo ancora seduto.

    «A meno che, adesso che ci penso, tu, un giorno, non abbia deliberatamente deciso di pisciarti e di cagarti nelle mutande. Eh? Hai deciso così quel giorno lì? Perché se tu, quel giorno hai deciso di pisciarti e di cagarti nelle mutande, ecco, allora va bene, puoi dirlo tranquillamente che tu sei uno che nella vita, non ha nessun bisogno da soddisfare. Anzi io, in quel caso lì, arriverò anche a darti ragione. E guarda, potrei anche arrivare a chiederti scusa per la mia totale mancanza di fiducia nei tuoi confronti. Però se è così, se hai deciso di pisciarti e di cagarti nelle mutande, vedi bene di non venirti mai più a sedere vicino a me eh.»

    Il ragazzo seduto sorrise.

    «Tondo ma perché devi sempre estremizzare ogni ragionamento? Proprio non vuoi capire quello che dico. Volevo solamente dire che ormai, non abbiamo neanche più dei bisogni reali da soddisfare. Abbiamo diciotto anni e non abbiamo praticamente mai avuto desiderio. Abbiamo sempre avuto tutto in anticipo. Siamo pieni di roba da sempre, roba che magari non abbiamo neanche mai desiderato prima. Abbiamo sempre chiesto e abbiamo sempre ottenuto. In diciotto anni non abbiamo mai saputo che cosa voglia dire guadagnarsi qualcosa. Non abbiamo nessun bisogno, nessun desiderio che ci spinga ad agire. Io di bisogni Tondo, non ne ho. E ti dirò di più , forse avrei solamente il bisogno di avere dei bisogni per riuscire a capire la bellezza della dimensione del desiderio. Però ti posso assicurare che non ho mai deciso né di pisciarmi né di cagarmi nelle mutande. Puoi stare tranquillo.»

    «Va bene Samu. Guarda che puoi dirmelo in faccia quello che pensi. Puoi dirmelo in faccia che per te, io sono solamente un ignorantone. Perché io, a parte che non ho capito un cazzo di tutto quello che hai detto tu, ma comunque io non vivo come te, in quel cazzo di limbo dei senza bisogni. Io di bisogni ne ho. Ne ho a chili di bisogni io. E se ho la fortuna di poter avere le cose di cui ho bisogno, perché cavolo dovrei avere la voglia di fare della fatica per guadagnarmele?»

    «Ma vi sembra il posto questo per litigare sul niente? E per parlare in questo modo scurrile poi anche?»

    «Quindi io sarei scurrile Emma? Guarda bella che ha iniziato il tuo caro fidanzato e io, sto solo cercando di analizzare le cerebrocazzate scurrili che dice lui.»

    «Io non ho iniziato proprio niente e tu, non sai neanche che cosa vuole dire, scurrile.»

    «No figuriamoci. Samu l’intellettuale, lui non inizia mai niente no. Non è stato Samu l’intellettuale a organizzare tutta ‘sta buffonata di domenica mattina che non è neanche l’alba vero? E adesso ci tocca di stare qui, come quattro coglioni dentro un surgelatore, ad aspettare che arrivi chissà chi, e ‘sto intellettuale mi viene a parlare di condizione interiore del bisogno. E magari

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