La settima donna
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Anteprima del libro
La settima donna - Giuliano Brentegani
l’alto)
Prologo
Le persone non cambiano.
I gesti delle persone non cambiano.
La mattina, una volta scesi dal treno per andare al lavoro, ci si immerge nella consuetudine più consolidata.
La solita ragazza con gli occhiali, accento di fuori città, che vestita regolarmente di nero se ne va spedita con le ciocche dei biondi capelli che escono furtivamente dal cappuccio che le ripara il viso dal vento.
Il solito baffuto e longilineo signore, forse un professore universitario, che inforca la sua bicicletta e pedala via veloce verso il centro della città. E saluta sempre le stesse persone, con lo stesso gesto, girandosi dal suo velocipede invadendo leggermente la corsia per i pedoni.
La solita bella, affascinante, ragazza dai capelli corvini, gli occhi scuri ed una sensuale formosità del corpo che incroci tutti i giorni. Incroci il suo sguardo ma sai già che mai ti rivolgerà la parola.
Uguale è anche la ragazza dai capelli ricci che pare abbia il cellulare incollato all’orecchio: ogni giorno, alla stessa ora, chiama un marito, un fidanzato o un amante: non mi è dato saperlo, ma la sua gestualità è uguale e puntuale come un orologio svizzero.
Tutto pare immutabile. Tutto nell’arco della giornata si ripete con uguale ciclicità, giorno dopo giorno: il sorriso di plastica di certi colleghi che ti accolgono al lavoro, il puntuale messaggino WhatsApp del solito amico, gli stessi gesti dell’anziana signora che fruga nella sua borsa quando fa la spesa nella solita bottega.
La consueta, rassicurante, pacca sulla spalla che ti danno gli amici, o presunti tali, quando la sera ti accolgono nel tuo solito locale...
Chi parla sono io, Francesco Castelli, professione bibliotecario. In questa mia vita fatta di piccole grandi cose che si susseguono uguali tutti i giorni stava per succedere un evento nuovo, imprevedibile, che mi avrebbe cambiato la vita. E l’avrebbe cambiata per sempre.
Un evento chiamato Caitriona.
Parte prima
A proposito di Helena
Capitolo 1
Helena, dalla nascita al 6 agosto 1629
Il mio nome è Helena.
Il cognome, quello vero, non lo so.
Forse anche Helena non è il mio vero nome. Chissà. Così mi chiamarono le persone che mi accudirono sin da bambina e da allora mi hanno sempre chiamata così.
Mi è stato raccontato che quando avevo circa sei mesi la mia famiglia, i miei genitori ed una sorella molto più grande di me, furono uccisi mentre io venni risparmiata solo perché troppo piccola. Il motivo? Mia madre venne accusata di stregoneria, crimine che nel XVI secolo equivaleva a condanna a morte certa per l’interessata e, nella maggior parte dei casi, per i familiari. Scampavano ad umilianti processi, atroci torture e morte sul rogo solo i bambini al di sotto degli otto anni.
In una stellata notte d’estate venni così lasciata sul sagrato di una chiesa ma non fui degnata nemmeno di uno sguardo: ero pur sempre la figlia di una strega… Lo stesso intimorito sacerdote che fu svegliato dai miei singhiozzi mi portò via lontano e mi abbandonò in un bosco, vicino ad un fiume, lasciandomi al mio destino.
Forse attirata dal mio pianto o semplicemente per caso, mi trovò una donna di mezza età che decise di portarmi con sé. Birgit, questo il suo nome, e suo marito Friederich Braun mi fecero crescere con loro, come se fossi la loro figlia naturale. Dissero che il mio nome era Helena, come dicevo, e rimasi nella loro modesta ma accogliente abitazione fino a tredici anni.
Ma l’Inquisizione cominciò a nutrire dei sospetti su di me e su questa mia famiglia adottiva: si vociferava che non potevo essere figlia di quella donna, lei troppo anziana ed io troppo giovane, e che forse a causa mia il povero Friederich morì di peste. Per ora si trattava solo di sussurri giunti alle orecchie di mia madre ma era meglio non rischiare… Così il giorno del mio tredicesimo compleanno Birgit, che ormai non aveva più molti giorni di vita davanti a sé, mi accompagnò lontano dagli uomini in un’abitazione, una baracca, immersa nel bosco: era la casa che Friederich aveva costruito di nascosto per me nel corso degli anni, nel caso fosse successo tutto questo…
Si trattava di una semplice capanna, costruita con legno e fango. Il tetto era realizzato con paglia. Non vi erano stanze ma un unico locale. Dallo stesso lato della porta di ingresso si trovava una sola, piccola, finestra: da questa entrava poco freddo d’inverno e, al contempo, faceva uscire il fumo del focolare, posto proprio in mezzo alla stanza e autentico fulcro vitale di tutta la casa. All’interno a farla da padrone era il fieno, presente un po’ ovunque: sul pavimento e anche sul letto, fatto con una semplice panca in legno. Dello stesso materiale erano poi realizzati tavolo, due sedie ed alcune mensole appese al muro. Col tempo i miei decori ed i ritratti che mi portò Birgit andarono ad abbellire ogni angolo della stanza. Lo so, non era una reggia e nemmeno paragonabile al posto dove abitavo prima… ma era il mio nido, l’unico posto dove mi sentivo protetta.
Tutto era stato previsto, come se la storia fosse stata già scritta…
Birgit mi disse che ero speciale, che dovevo rimanere sempre in questo luogo e, soprattutto, stare lontana dagli uomini: mai e poi mai avrei dovuto farmi vedere in città. Dovevo insomma intraprendere una vita da eremita e lei, di nascosto, sarebbe venuta a trovarmi per portarmi cibo e vestiti. Inizialmente venne quasi tutti i giorni, mi lasciò anche i ritratti che era solita farmi per appenderli alle pareti della casetta, ma la sua età e le ormai precarie condizioni di salute la condussero alla morte nel giro di pochi mesi.
Così mi ritrovai completamente sola ad affrontare una vita a cui non ero certo abituata. Ma il mio carattere, la mia determinazione e la mia voglia di vivere mi aiutarono a superare questa prova. Imparai ad accendere un fuoco, a pescare, a cacciare piccoli animali, a riconoscere le erbe e le piante commestibili e quelle che avevano proprietà curative… insomma, imparai a sopravvivere.
Credo di essere stata una bella ragazza: riflessa nelle dolci acque dell’amico fiume vedevo una giovane donna dai lunghi capelli rossi con gli occhi blu. Ma il tempo passò in fretta. I vestiti che mi procurò a suo tempo Birgit mi andavano ormai stretti e, per le esigenze di sviluppo di un’adolescente con un corpo di donna, non mi bastava più il poco cibo che riuscivo a procurarmi. A diciassette anni era giunto il momento, andando contro le raccomandazioni ricevute, di andare in città.
Cercando di non fami notare, iniziai a vendere i prodotti curativi che ero in grado di realizzare: aloe, maggiorana, fiori di pervinca, verbena, belladonna erano alcune delle erbe che utilizzavo per le pomate e i decotti. Ma poiché mi muovevo nell’ombra, riuscii a venderne solo in modiche quantità e le monete ricavate furono ben poche. La miseria del tempo mi mise in contatto soprattutto con contadini e povera gente: come non potevano permettersi la visita di un medico, non erano logicamente in grado di pagare anche me. Così, il più delle volte venivo ricompensata in natura con cibo o stoffe che richiedevo a seconda delle mie misere esigenze.
Certo, ho anche fatto qualche piccolo furtarello a persone benestanti: qualche soldo e qualche spezia rubata durante i mercati.
Una sola volta, ormai avevo ventun anni, mi misi a chiedere l’elemosina: e quel giorno, non lo scorderò mai, uno sguardo accusatore si posò su di me. Si trattava di un sacerdote. Quei due occhi neri e profondamente inquisitori mi misero una tal paura che lasciai cadere le due sole monete che avevo e me ne scappai a perdifiato per tornare nel mio amato bosco.
Da allora non misi più piede in città. Avevo paura che mi potessero prendere e fare del male: eravamo in pieno periodo di caccia alle streghe e l’unica, raccapricciante, esecuzione sul rogo a cui avevo assistito due anni prima mi aveva terrorizzata.
Adesso di anni ne ho trenta e gli unici esseri umani che ho visto da due lustri a questa parte sono stati solo alcuni viandanti e cacciatori: nessuno è mai venuto a cercarmi e, da quanto avevo visto guardando la città dall’alto della collina, erano diminuiti anche i roghi delle presunte streghe... quest’estate, dalla piazza principale adibita a queste atroci esecuzioni, si era levata solo una grande, triste, fumata di morte contro la dozzina dell’estate precedente… mi sentivo quasi al sicuro ormai: lontano dagli uomini, lontano da una minaccia che stava apparentemente scemando.
Oggi è una bella giornata: il cielo è di un azzurro intenso simile ai miei occhi e l’aria frizzante e pulita mi ha messo voglia di addentrarmi ancor più nel bosco a raccogliere un po’ di erbe medicinali. Ad un certo punto, sono china, sento un fruscio tra le foglie ed alzo lo sguardo: davanti a me, a circa cinque metri di distanza, un uomo completamente vestito di nero. Mi alzo lentamente, senza mai staccargli gli occhi di dosso. Indietreggio lasciando cadere il mio raccolto e mi volto di scatto per scappare ma mi trovo di fronte un altro uomo, anche lui vestito come il precedente. Urlo dalla paura e cerco invano un’altra via di fuga ma altri due stanno arrivando. Sono accerchiata. Sono terrorizzata. Non so più dove guardare e dalla mia bocca non esce più nessun suono, la paura ha come anestetizzato le mie corde vocali. Con questi quattro loschi figuri sempre più vicini, la prima cosa che si fa largo nei miei veloci pensieri è che vogliano abusare di me. Ma ben presto mi rendo conto che la realtà è ancora peggiore quando il più anziano dei quattro, afferrandomi per un braccio, dice queste semplici parole:
Finalmente ti abbiamo scovata, strega!
Capitolo 2
Helena, 6-7 agosto 1629
Oggi ho avuto la conferma di essere bella.
O, meglio, di essere un qualcosa di desiderabile.
Sono stata violentata da due dei quattro militi che mi hanno rapita.
Adesso me ne sto seduta dentro la prigione mobile in cui sono stata rinchiusa e sento colare dal mio sesso un miscuglio formato dal mio caldo sangue e dallo sperma sporco di questi maledetti esseri umani. Mi sento umiliata, arrabbiata, mi sento sporca: avrei voluto lavarmi, non so cosa avrei dato per farlo. Mi sento un oggetto, mi sento depredata della mia anima e del mio corpo. Non mi sento più viva, sono morta dentro. Non riesco nemmeno a piangere.
Dopo avermi messa su una specie di cesta legata ad una portantina per tenerla sollevata da terra, all’arrivo in paese mi hanno sistemata in questa cella mobile e, simultaneamente, i due più anziani sono entrati per abusare di me: uno mi teneva ferma mentre l’altro mi penetrava per poi dare il cambio all’altro collega. Dalla ripetitività e calma dei gesti ho dedotto che si tratti di una prassi consolidata, quasi volessero illustrare agli altri due giovani come fare: il loro bieco silenzio li ha comunque resi complici, è come se mi avessero violentata anche loro.
Adesso, nel cuore della notte, mi stanno portando non so dove, so solo che stiamo uscendo dal villaggio.
Anche se stremata dall’orribile incubo che si è impossessato della mia vita non riesco a dormire. Da una piccola apertura presente nella prigione ambulante noto che ormai sta albeggiando e intravedo l’approssimarsi di una città. Passano pochi minuti e, grazie a Birgit che mi aveva insegnato a leggere e scrivere, ne leggo il nome sulla grande iscrizione posta sopra la via d’accesso: Bamberg.
Arrivati in quella che doveva essere la piazza del mercato, sento il convoglio rallentare ed infine fermarsi. Mi appoggio col viso all’angusta finestrella e scorgo uno dei quattro uomini che mi avevano catturato ad invitare a voce alta la gente presente di venire a vedere com’è fatta una strega e come viene punita.
Sono terrorizzata.
Rimango col viso nella nicchia coi miei occhi che si muovono all’impazzata in tutte le direzioni per vedere chi si sarebbe avvicinato. Noto a destra il soldato che fa cenno con un braccio di avvicinarsi. Con passo timoroso, le persone vicine vengono verso l’apertura della prigione mobile in cui sono rinchiusa.
Grido aiuto a perdifiato, lo faccio con tutte le mie forze.
Alcuni indietreggiano come spaventati. Altri invece si scagliano con forza verso la minuscola apertura da dove si intravede il mio viso. Ricevo un pugno da una signora anziana. Indietreggio e mi metto nell’angolo più distante della mia prigione che adesso era diventata la mia ancora di salvezza dalle persone. Dentro mi arrivano sputi, sassi, pezzi di legno: qualsiasi cosa avesse potuto colpirmi andava bene. Ora piango, finalmente ci riesco, ma nulla ferma l’astio delle persone nei miei confronti.
Ad un certo punto uno dei militi, forse quello di prima, grida un qualcosa che nemmeno capisco e si ferma sia il lancio di oggetti che le parole gridate contro di me. Un silenzio surreale si impossessa di questa mattina di mercato. Intravedo un’ombra avvicinarsi all’apertura. Un uomo con folti baffi bianchi e cappello nero mi guarda in silenzio. Poi indietreggia e chiaramente ordina:
Fatela uscire e scortatela nella prigione. Viva.
La piccola porticina di legno e ferro si apre, mi strattonano fuori ed infine, sotto lo sguardo silenzioso di un pubblico improvvisato, mi scortano verso una grande abitazione su cui troneggia un’iscrizione, un chiaro monito:
Questo edificio dovrà fungere da esempio. Chi vi passerà vicino ne avrà orrore.
Ed in questo preciso istante mi accorgo che il vero incubo doveva ancora cominciare.
Capitolo 3
Helena, 7 agosto 1629
Vengo fatta entrare scortata da due dei quattro soldati di prima. Non c’è nessuno. Si sentono però chiaramente urla di disperazione e dolore provenienti dalle viscere della terra. È inquietante. Il buio regna sovrano nonostante alcune fiaccole appese ai muri. Finché uno dei due mi tiene ferma l’altro apre un