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Era una famiglia tranquilla - La paziente perfetta - La figlia adottiva
Era una famiglia tranquilla - La paziente perfetta - La figlia adottiva
Era una famiglia tranquilla - La paziente perfetta - La figlia adottiva
E-book1.192 pagine16 ore

Era una famiglia tranquilla - La paziente perfetta - La figlia adottiva

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Info su questo ebook

3 grandi thriller

Autrice bestseller N°1 in Inghilterra

Tre romanzi da cardiopalmo: Jenny Blackhurst è il thriller psicologico al suo massimo. 
Emma Cartwright ha una vita all’apparenza normale. Nessuno però sa che aveva un altro nome e ha ucciso il suo stesso figlio, di dodici settimane. Susan non ricorda nulla, ma come può non credere a medici, poliziotti e avvocati che hanno raccolto prove della sua colpevolezza? 
Karen, Eleanor e Bea sono amiche sin da quando erano bambine. Karen fa la psichiatra e quando una nuova paziente si presenta nel suo studio con disturbi che non le sono ancora del tutto chiari, comincia a temere di aver messo le amiche in pericolo. Perché la sua paziente sa cose sulle tre donne che nessuno all’infuori di loro potrebbe (o dovrebbe) conoscere… 
Imogen Reid è diventata una psicologa dell’infanzia per aiutare i bambini in difficoltà. Ecco perché, quando le viene assegnata in cura Ellie Atkinson, una ragazzina di undici anni, si rifiuta di ascoltare chi le dice che è pericolosa. Ellie è l’unica sopravvissuta a un terribile incendio che ha sterminato la sua famiglia. E starle così vicina per Imogen potrebbe diventare presto molto rischioso…

Tre grandi thriller da leggere con il fiato sospeso

«Profondo, oscuro e disturbante. Un libro difficile da dimenticare, l’ho adorato.» 
Liz Lawler, autrice del bestseller Non svegliarti 

«Un inquietante thriller con un finale stupefacente.» 
Sunday Mirror 

«Un romanzo avvincente, pieno di ingegnosi colpi di scena e astute false piste.» 
Publishers Weekly 

«Una storia spaventosa che vi terrà con il fiato sospeso.» 
Daily Mirror
Jenny Blackhurst
È cresciuta in Inghilterra, nello Shropshire, dove vive con mari­to e figli. Il suo thriller di esor­dio, Era una famiglia tranquilla, ha ottenuto in pochissimo tem­po il consenso della critica e un grande successo di pubblico. La Newton Compton ha pubblicato La paziente perfetta, La figlia adottiva e La strana morte di Evie White.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2021
ISBN9788822754929
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    Anteprima del libro

    Era una famiglia tranquilla - La paziente perfetta - La figlia adottiva - Jenny Blackhurst

    2843

    Titolo originale: How I Lost You

    Copyright © 2014 Jenny Blackhurst

    The right of Jenny Blackhurst to be identified as the Author of the work

    as been an accordance with Copyright, Designs and Patents Act 1998

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Roberta Maresca

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Titolo originale: Before I Let You In

    Copyright © 2016 Jenny Blackhurst

    Traduzione dalla lingua inglese di Mara Gramendola e Sofia Buccaro

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Titolo originale: The Foster Child

    Copyright © 2017 Jenny Blackhurst

    Traduzione dalla lingua inglese di Marta Lanfranco

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Prima edizione ebook: marzo 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5492-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma

    Jenny Blackhurst

    Era una famiglia tranquilla

    La paziente perfetta

    La figlia adottiva

    Newton Compton editori

    Indice

    era una famiglia tranquilla

    Introduzione

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Epilogo

    Ringraziamenti

    la paziente perfetta

    parte prima

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    parte seconda

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    parte terza

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Ringraziamenti

    la figlia adottiva

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Capitolo 90

    Capitolo 91

    Capitolo 92

    Capitolo 93

    Capitolo 94

    Capitolo 95

    Capitolo 96

    Capitolo 97

    Capitolo 98

    Capitolo 99

    Capitolo 100

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Era una famiglia tranquilla

    Ad Ash. E a Connor, che non si arrende mai

    e trova sempre una soluzione.

    Ti voglio bene, crocchetta di pollo.

    A dodici anni

    Alla Commissione per la libertà vigilata da Susan Webster

    Paziente n. 397609

    23 gennaio 2013

    Egregi membri della Commissione,

    mi chiamo Susan Webster. Circa quattro anni fa, il 23 luglio 2009, ho ucciso mio figlio di tre mesi. Mi ci è voluto tutto questo tempo per riuscire a pronunciare tali parole e ad accettarne la verità, eppure scriverle mi procura ancora un dolore inimmaginabile.

    Durante il periodo della custodia cautelare e i successivi due anni e otto mesi trascorsi a Oakdale, ho svolto tutte le ricerche possibili sulla psicosi puerperale, la forma di depressione post-parto di cui ho sofferto dopo la nascita di Dylan. Documentarmi mi ha aiutata a capire che in quel giorno terribile non avevo il controllo delle mie azioni. Adesso so anche di aver idealizzato i ricordi che ho di quelle meravigliose dodici settimane trascorse con Dylan, negando così la rabbia tremenda che provavo per lui. Lo so perché lo dicono i dottori. Pensare che i miei ricordi più sacri – tutto ciò che mi resta del mio bellissimo bambino – siano solo il frutto della mia mente deviata è ancora più doloroso che riconoscere di avere ucciso mio figlio. Nei momenti più bui vorrei tanto rammentare l’odio e l’indifferenza che provavo per la vita che avevo generato. Così magari avrei un momento di pace, una tregua dal senso di colpa e dal dolore che offuscano ogni istante della mia vita. Mi odio per questo; i miei ricordi, veri o inventati, sono l’unica cosa che mi lega ancora alla persona che ero un tempo. Alla persona che pensavo di essere, almeno. Una moglie e una madre, un po’ disorganizzata magari, di sicuro una pessima cuoca, ma neanche nei miei incubi più raccapriccianti un’assassina.

    Anche se sono consapevole di quello che ho fatto, non mi aspetto di essere perdonata. So che non sarò mai capace di perdonarmi. Tutto quello che chiedo è che il mio rimorso venga preso in considerazione durante l’udienza per la concessione della libertà vigilata, in modo che possa almeno tentare di ricostruirmi una vita, fare qualcosa di buono nel mondo e iniziare a rimediare al male che ho fatto in passato.

    Cordiali saluti,

    Susan Webster

    1

    24 aprile 2013

    È ancora lì.

    Non importa quante volte esca dalla stanza e cerchi di comportarmi normalmente, ogni volta che entro in cucina è lì.

    È arrivata stamattina, nascosta sotto volantini colorati e fatture inquietanti. In generale ho il terrore di ricevere posta. La domenica è il mio giorno preferito.

    La domenica non c’è posta. Oggi però non è domenica. Quindi la posta c’è.

    Immagino che il mio istintivo odio per qualsiasi pezzo di carta imbustato sia dovuto alla quantità impressionante di fatture che ricevo ogni giorno. Sono qui solo da quattro settimane e pare che ogni società di fornitura del Paese stia cercando di addebitarmi qualcosa. Ogni lettera ricevuta che esordisce con Gentile utente mi ricorda un pagamento per cui ho dimenticato di impostare l’addebito diretto sul conto, il che mi deprime perché mi rammenta quanto sono disorganizzata e quanto verranno spolpate le mie già magre finanze.

    Quella che è arrivata oggi per posta però non è una fattura. L’ho capito dalle parole scritte a mano sulla busta. Non è una lettera di un conoscente o di un amico di penna. È grande come una cartolina, ed è marrone. Le lettere sono piccole e in corsivo; sembra la scrittura di una donna, ma non ne sono sicura. Nessuno di questi è il motivo per cui la busta è ancora intatta sul piano della mia cucina.

    Potrei buttarla direttamente nel cestino della spazzatura. Potrei aspettare che venga Cassie e chiedere a lei di aprirla, come una studentessa che chiede alla madre di sbirciare i risultati del suo esame di maturità. Passando di nuovo davanti alla busta, vedo le parole scritte sul davanti e il cuore comincia a battermi forte: Susan Webster, 3 Oak Cottages, Ludlow, Shropshire.

    Ma Susan Webster è morta ormai. Dovrei saperlo, l’ho uccisa io quattro settimane fa.

    Nessuno al mondo dovrebbe sapere dove sono e chi sono. È per questo che ho cambiato nome con un atto unilaterale. Persino la mia sorvegliante mi chiama Emma. A volte mi dimentico ancora di rispondere. Il mio nome, il mio nuovo nome, è Emma Cartwright. Ma voi non potete conoscermi così. Quattro anni fa ero ancora Susan Webster. Già vi immagino, in questo momento starete arricciando un po’ il naso, forse avete sentito questo nome da qualche parte, ma non sapete dove? Magari i vostri occhi stanno saettando a sinistra mentre tentate di ricordarvelo. Se vivete al nord, è possibile che borbottiate qualcosa del tipo: Oh, sì, non è quella donna che ha ucciso il figlio? Che tragedia. Se invece vivete nel resto del Paese, è probabile che non vi ricordiate affatto di me. La notizia è apparsa lo stesso giorno in cui una grande celebrità è stata beccata a spacciare droga. Io e mio figlio abbiamo occupato solo le pagine interne dei quotidiani nazionali.

    Lo faccio. Con le mani che mi tremano, apro la busta, attenta a non strappare il contenuto. Quando il piccolo cartoncino mi cade tra le mani, per un secondo mi domando se non dovrei usare un paio di guanti, nel caso fosse una lettera minatoria e la polizia avesse bisogno di prove. Potrebbe sembrare assurdo per una persona normale, temere di ricevere una minaccia di morte per posta. Credetemi, neanch’io avrei mai immaginato di ritrovarmi in una situazione simile.

    Ormai è troppo tardi per preoccuparsi della scientifica. In ogni caso, non si tratta di una lettera, ma di una fotografia. Un bambino sorride felice all’obiettivo, ha un sorriso tenero, sincero e bellissimo. La mia paura si trasforma in confusione. Chi è? Non conosco nessun bambino di quest’età; avrà due o tre anni. Ho una nipotina, ma non un nipotino, e le poche mamme che ho conosciuto ai vari gruppi di puericultura prima... be’, diciamo prima d’ora... si sono tenute alla larga, probabilmente hanno cancellato quello che è successo come se io e Dylan non fossimo mai esistiti.

    Perché ho ricevuto questa foto? Penso a tutti i bambini che conosco e la butto sul piano della cucina. A mezz’aria si capovolge e atterra a faccia in giù sul bancone, ed è in quel momento che il mondo intero assume le dimensioni della fotografia formato 10x15 che ho davanti. Sul retro, con la stessa grafia ordinata, c’è scritto solo: Dylan, gennaio 2013.

    2

    «È uno scherzo», annuncia Cassie, gettando di nuovo la foto sul piano della mia cucina. Tutto qui? Ho aspettato venti minuti mentre fissava la foto in silenzio e l’unica cosa che sa dire è che è uno scherzo? Prendo un respiro profondo.

    «Lo so, Cass, ma di chi? A parte te, chi sa che sono qui? È una minaccia? O qualcuno vuole davvero farmi credere che Dylan sia ancora vivo?».

    Cassie distoglie lo sguardo, e io capisco a chi sta pensando.

    «Mark», dichiaro. «Pensi sia stato Mark».

    Cassie stringe i denti nel sentire pronunciare il suo nome e si sforza di non dire niente. Non è facile per lei. Sporge in avanti il mento appuntito e io penso che si stia letteralmente mordendo la lingua. La mia migliore amica odia il mio ex marito. Disprezza gli uomini in generale, ma credo che Mark sia in cima alla lista nera. So per certo che neanche a lui lei piacerebbe molto, anche se in realtà non si sono mai incontrati.

    Credo che dovrei dirvi due parole su Cassie. È la migliore amica che abbia mai avuto, di quelle che ho sempre desiderato, ma non ci conosciamo da tutta la vita. Non ci siamo incontrate da timide studentesse il primo giorno di scuola e non siamo state compagne di stanza al college. Quando ho conosciuto Cassie, in sottofondo c’erano piagnucolii e porte d’acciaio che sbattevano. Era seduta sulla branda in alto, aveva i capelli ossigenati raccolti sulla testa e le sopracciglia, nere e sottili, aggrottate. Si è lanciata giù dal letto ed è atterrata come un gatto accanto a me – in seguito ho scoperto che si era rotta una caviglia la prima volta che ci aveva provato. I pantaloni dell’uniforme verde edera le lasciavano scoperte le anche sporgenti e la casacca, che sembrava arrivata direttamente dal reparto bambini, era tirata su per mostrare la vita bianca come il latte. Sembrava che potesse essere spazzata via dalla prima folata di vento, eppure non avevo mai visto una presenza fisica tanto grande.

    «Io dormo di sopra, ma non me la faccio a letto come qualcun altro qui presente, perciò non ti preoccupare. Non toccare la mia roba».

    Ho conosciuto Cassie nel giorno più infelice della mia vita. All’epoca non lo sapevo, lo avrei capito solo molto tempo dopo, ma lei mi avrebbe salvata.

    Ci siamo conosciute perché lei è una criminale. Un’assassina, come me. A differenza mia, però, Cassie si ricorda ogni secondo del delitto che ha commesso. Si crogiola nei dettagli, racconta la storia come le Coccinelle che narrano le storie del terrore intorno al fuoco da campeggio. Si stufa di sentirmi ripetere che la sua indifferenza è un meccanismo di difesa contro il ricordo del suo crimine. Mi ha chiamata Freud per una settimana quando le ho esposto la mia teoria per la prima volta e si è rifiutata di chiamarmi col mio nome finché non le ho promesso che avrei smesso di psicanalizzarla. Il che era più o meno un’ammissione che effettivamente potevo avere ragione.

    «Okay...». Per un po’ decido di assecondarla. «Supponiamo che sia stato Mark. Come fa a sapere dove mi trovo? E perché mai vorrebbe farmi credere che nostro figlio è ancora vivo?».

    Cassie alza gli occhi azzurri al cielo con aria spazientita. «Lavora nel settore informatico... giusto?»

    «Giusto». Annuisco per confermare. «Non è un hacker».

    Lei si limita a scrollare le spalle, mentre io mi alzo per prepararmi l’ennesima tazza di tè. Quando non sono occupate, le mie mani tremano.

    «E il motivo? Perché il mio ex marito neohacker dovrebbe mandarmi una foto di un bambino che come sappiamo tutti non può in alcun modo essere mio figlio, perché è morto?»

    «Forse perché è uno stronzo? O perché vuole aggiungere un altro po’ di senso di colpa al carico di merda emotivo che già ti porti dietro? O per farti dare di matto? Forse la data gennaio 2013 non sta a significare che quel bambino è Dylan, ma solo che tuo figlio sarebbe così adesso se tu non lo avessi... be’, se lui non fosse... insomma, hai capito».

    «Ho capito».

    «Hai ancora le tue fotografie di Dylan? Nell’album che ti ha dato tuo padre?»

    «Da qualche parte», rispondo assente. Non mi va di tirarle fuori. «Non credo che Mark farebbe una cosa del genere».

    Mark era devastato dalla perdita di nostro figlio – qualunque uomo lo sarebbe stato – ma ha fatto del suo meglio per starmi accanto. È addirittura venuto a trovarmi a Oakdale due volte. In entrambi i casi tremava come se stesse per farsela sotto e riusciva a stento a guardarmi, ma è stato bello sapere che stava cercando di perdonarmi. Poi le visite sono cessate, di punto in bianco. Qualche settimana dopo ho ricevuto una lettera che mi informava delle pratiche per il divorzio, con solo un biglietto scritto a mano da Mark: Mi dispiace. È stato allora che Cassie ha creato un tiro a segno con le foto di Mark che avevo e ha cominciato a usare pezzi di carta assorbente bagnata come freccette per tirarmi su di morale. Non potevamo usare le freccette a Oakdale. Non potevamo usare nemmeno le matite appuntite a Oakdale.

    «Allora è solo uno scherzo». Sto cercando di autoconvincermi. «Non una minaccia. Peccato però che la parola scherzo faccia pensare a qualcosa di divertente, e questo non lo è affatto».

    «Una bufala, allora, o una truffa, come direbbe la squadra antifrode». Ecco com’è Cassie quando decide di avere ragione su una cosa. Le sue lunghe unghie laccate di blu tamburellano un motivetto sul tavolo, è chiaro che ha bisogno di fumare. Per me quelle unghie sono il simbolo della trasformazione totale che ha subito da quando ha lasciato Oakdale. Quando l’ho conosciuta, tamburellava il suo motivetto dell’astinenza con unghie rosicchiate fino alla carne e coperte da uno strato di smalto vecchio e scheggiato. Quelle unghie sono sparite da un pezzo, insieme alle minigonne di jeans e alle canotte a filo dell’ombelico. Adesso i vestiti le coprono la carne e le sue unghie non sono mai scheggiate.

    «Una bufala, sì, certo», replico assente. «Deve essere una bufala. Sicuramente non è una minaccia».

    Mi sbarazzo di Cassie più in fretta che posso, fingendo di dover sbrigare delle commissioni. Lei sa che sto mentendo, ma capisce l’antifona senza obiettare e mi dà un bacio, stampandomi il rossetto rosa acceso sulla guancia e lasciandomi nel lavandino un minuscolo pezzo di carta assorbente bagnata.

    Mentre mi rigiro la fotografia fra le mani per la centesima volta, noto qualcosa che mi fa scorrere un brivido lungo le braccia. Non c’è il francobollo sulla busta. Doveva essere sul mio zerbino ancora prima che arrivasse la posta. Chiunque sia stato, è venuto a casa mia, si è fermato davanti alla porta e in silenzio mi ha recapitato a mano la fotografia mentre io ero in cucina. Il pensiero mi dà la nausea e mi copro la bocca con la mano. Non è una minaccia. È priva di senso, fa schifo. Non è nemmeno una minaccia vera e propria. A parte la sottile insinuazione che qualcuno sappia come mi chiamo. Che qualcuno sappia chi sono. E cosa ho fatto. Qualcuno che era sulla porta di casa mia.

    Non riesco più a essere forte. Lo spirito combattivo mi abbandona, cado in ginocchio sul pavimento freddo della cucina e comincio a singhiozzare.

    3

    Jack: 23 settembre 1987

    Un piede colpì il viso del ragazzo, un tacco gli si conficcò nelle costole. Lui si raggomitolò ancora di più, emise un grugnito, ma – dovette ammettere Jack con rispetto – non pianse. Quando vide il sangue, Riley fece un passo avanti, ma Jack gli afferrò il braccio – era troppo presto. Un altro paio di minuti, qualche altro livido, magari una costola rotta. Dal punto in cui si trovava, appoggiato al prefabbricato color cacca a sei metri di distanza, quel pestaggio sembrava quasi coreografato, affascinante. Quando sentì uno scricchiolio, come di un ramoscello spezzato, e i grugniti cessarono, drizzò la schiena, si pulì la manica del maglione e fece cenno a Riley di seguirlo verso il divertimento.

    «Andate a fare in culo da un’altra parte».

    Tutti e tre i ragazzi si fermarono, anche se uno mantenne il piede sul polso spezzato del quindicenne, come se avesse potuto andare da qualche parte.

    «E a voi due che cazzo ve ne frega?». Il ragazzo numero uno – Jack non aveva idea di chi fossero quei tizi – fece come per incornare qualcuno davanti a sé. Che coglione.

    «Che ha fatto?»

    «Ha fatto la spia su Harris». Il ragazzo numero due, quello che lo teneva fermo con il piede, schiacciò il polso della vittima contro il terreno. «Non è vero, Shakespeare?»

    «Non sono stato io», mormorò l’ammasso di vestiti e sangue per terra.

    «Allora chi è stato?», domandò il ragazzo numero tre, che doveva essere Harris. Era il più grosso dei tre ma, da quel che Jack aveva potuto vedere, era quello che aveva dato il minor numero di colpi. Forse non gli piaceva sporcarsi i vestiti. Era comprensibile.

    «Non lo so. Ma non io».

    «Lurida serpe». Il ragazzo numero due ricominciò a menare calci. In pochi secondi Jack lo raggiunse, lo afferrò per il blazer bordeaux e lo scansò.

    «Vi ho detto di andare a fare in culo da un’altra parte. Non è stato lui a fare la spia sul vostro amico. Sta dicendo la verità».

    «Oh, certo... e tu che ne sai?»

    «Io so tutto, coglione. Vuoi sapere chi ha fatto la spia, vai a trovare Mike Peterson».

    Harris socchiuse gli occhi, e Riley fece altrettanto al fianco di Jack. «Sei sicuro?»

    «Sono sicuro. E un’altra cosa». Indicò il ragazzo a terra. «Lui sta con me adesso. Se avete qualche problema con lui, dovete venire da me. Se vi becco a toccarlo anche una sola volta, vi faccio spezzare le gambe... a tutti e tre. Vediamo poi come procederà la tua carriera nel mondo del rugby, Harris, stupida testa di cazzo».

    Trattenne il fiato, tenne la mascella serrata. Harris si girò verso i suoi scagnozzi e con un cenno del capo ordinò loro di andarsene. Tutti e tre si allontanarono, come se avessero semplicemente finito una partita di calcio.

    «Stai bene?». Riley aiutò il ragazzo a mettersi accovacciato, tenendogli la testa chinata in avanti. I suoi capelli castani, lunghi fino alle spalle, erano lucidi per una combinazione di unto, sudore e sangue. Il ragazzo cercò di girare la testa verso Jack, poi fece una smorfia e tornò guardare per terra.

    «Perché hai detto quella cosa?». Le parole erano a malapena comprensibili perché gli si stavano cominciando a gonfiare le labbra. «Peterson... non è stato lui. Sono stato io».

    «Sono riuscito a non farti massacrare di botte, no? Vuoi che li faccia tornare? Che dica loro che mi sono sbagliato?». Si voltò nella direzione in cui se ne erano andati i tre ragazzi, sapendo che erano spariti da un pezzo. «Harris! Ohi, Harris!».

    «No, scusa, non volevo dire quello». Il ragazzo fece una smorfia di dolore.

    «Gesù, sei conciato male. Forza, ti porto a casa mia... i miei non ci sono mai e Lucy saprà darti una sistemata».

    «Chi è Lucy?»

    «La governante. Sono morto quando mi hanno detto che sarebbe venuta a stare da noi, perché sapevo che il loro scopo era quello di farmi tenere d’occhio, ma in realtà è una ragazza in gamba, ha circa diciotto anni e due tette gigantesche, e fa dei toast favolosi. Io sono Jack, lui è Matt. Perché ti chiamavano Shakespeare? È il tuo soprannome?».

    Il ragazzo cercò di aggrottare la fronte coperta di sangue. «No. Lo odio. Ho preso dieci in una verifica di inglese e la professoressa Bramall mi ha chiamato piccolo Shakespeare. Ora tutti mi chiamano così. Sono...».

    «Mi piace», lo interruppe Jack. «Ti fa sembrare intelligente, e a me piacciono le persone intelligenti. Posso chiamarti Billy per fare prima, se vuoi, sarà una cosa fra noi. Siamo amici adesso, no?»

    «Perché vuoi essere mio amico? Io non sono come te e la tua banda».

    «Ah sì? E come siamo io e la mia banda?»

    «Ricchi. E be’... belli e cose così».

    Jack lanciò uno sguardo a Matt ed entrambi scoppiarono a ridere. «Sei frocio, Shakespeare? Ti piacciono i miei amici, forse?»

    «No! Non intendevo quello. Solo...».

    Jack sbuffò. Gesù, quel tizio era davvero così conformista? In ogni caso, avrebbe dovuto adeguarsi alle sue abitudini.

    «Forza, vieni a darti una ripulita».

    4

    Come la maggior parte dei sabati, la città è gremita di adolescenti, coppie e mamme che trascinano bambini imbronciati e piagnucolanti per i pochi negozi che sono rimasti. «La recessione ha inferto un duro colpo alla città», mi dice Rose Fairclough mentre mi serve un’enorme fetta di torta al cioccolato calda e appiccicosa. «Ci serve sangue fresco come il tuo per far ricominciare a girare i soldi qui».

    Scoppio quasi a ridere. Rosie la ficcanaso non la penserebbe così se avesse una vaga idea di chi si è appena trasferita a vivere nella sua amena cittadina. Quello sì che sarebbe qualcosa di cui sparlare all’associazione femminile.

    Mentre affondo la forchetta con un po’ troppa voracità nella torta al cioccolato, mi arrischio a lanciare un’occhiata furtiva fuori dalla vetrata. Solo strade acciottolate piene di gente che fa compere. Scuoto il capo, sentendomi ridicola, e tento di ricordare a me stessa che non sono in un film di spionaggio a bud

    get ridotto. Nessuno mi sta osservando. Devo sforzarmi di dimenticare tutto quello che è successo stamattina, quello stupido scherzo, perciò sposto l’attenzione sulle persone che mi stanno intorno.

    Seduta al bancone c’è un’altra donna, persa nei suoi pensieri, che sta centellinando la sua fetta di torta alla carota invece di massacrarla come faccio io con la mia. Avrà all’incirca l’età che avrebbe mia madre, ma non sembra che lei abbia bisogno di preoccuparsi della linea, e dalla sua espressione capisco che c’è qualcosa che non va. I lunghi capelli biondi le cadono sul viso mentre fissa il quotidiano che ha davanti e lei non si preoccupa di scostarli. Mi chiedo quale sia la sua storia. Una lite con l’amante? Un marito che ha perso la retta via? O qualcosa di molto peggio?

    Quasi come se l’avessi chiamata, la donna si gira di colpo e si accorge che la sto fissando. Imbarazzata, sposto lo sguardo verso la porta, odiando il fatto di essere stata beccata a contemplarla. Non fissare la gente, tesoro, mi diceva sempre mia madre. È maleducazione.

    «Be’, quella non è durata molto». Rosie vede che ho spazzolato la mia fetta di torta e sorride. «Te ne do un’altra?».

    Oh, Dio, sì.

    «Oh, Dio, no». Rido un po’ troppo forte. Sono sempre stata in lotta con la ragazza grassa che è in me; il cibo è la mia consolazione. Se per caso rifiutavo qualcosa da mangiare, mia madre guardava mio padre e diceva seccata: Oh oh, mi sa che abbiamo un problema, Len. Mi prendeva in giro, ma era colpa sua se in famiglia tutti amavamo tanto mangiare. Grazie ai suoi manicaretti, soprattutto ai dolci, le mie amiche facevano la fila per essere invitate a cena, e il mio portapranzo suscitava l’invidia di tutta la classe. Involtini, torta al limone, meringa ai lamponi – ero l’equivalente di uno spacciatore di crack alla scuola elementare. Con sommo dispiacere di mio marito, non ho ereditato le doti culinarie di mia madre e così una volta alla settimana gli toccava sorbirsi un bel pranzetto domenicale a casa dei suoceri. «I miei fianchi non mi perdonerebbero mai», dico. «Rosie, posso chiederti una cosa?».

    La donna s’illumina come se le avessi appena offerto un biglietto vincente della lotteria. Rosie è un vero pozzo di informazioni.

    «Mi chiedevo, com’è la gente da queste parti? C’è molta delinquenza?».

    Rosie scuote la testa. «Oh, no, cara. Be’, c’è qualche zuffa fra i ragazzini di tanto in tanto il sabato sera, ma per il resto poco o niente. Perché, qualcuno ti sta creando problemi?».

    Mi pento all’istante di averglielo chiesto. So che Rosie è una chiacchierona, ma ora mi chiedo se non sia a caccia del prossimo pettegolezzo. Andrà su internet non appena me ne sarò andata per scoprire qualcosa sul passato segreto di Emma Cartwright? Ah, paranoia, vecchia mia. Mi sei mancata nell’ultima ora.

    «No, niente di che in realtà», mento con disinvoltura. «Ho trovato un uovo sulla porta stamattina; ho solo pensato che forse la gente del posto non ama che le persone nuove si trasferiscano in città».

    Rosie sembra delusa. «Saranno stati dei ragazzini, tesoro», mi dice. «Qui non è come quelle cittadine in cui tutti sanno gli affari di tutti, sai? Siamo abbastanza riservati. Io non mi preoccuperei».

    «No, certo», replico, lieta che la mia piccola bugia non abbia generato un’altra domanda. «È quello che ho pensato anch’io, solo uno scherzo».

    La fetta di torta al cioccolato mi si piazza pesantemente sullo stomaco mentre esco, le parole di Rosie mi ronzano ancora nella testa. Qui non è come quelle cittadine in cui tutti sanno gli affari di tutti, sai? Prima che lasciassi Oakdale, mi hanno detto di preparami, perché la gente sarebbe stata ostile se avesse scoperto chi ero. Ero pronta a torce e forche; non mi aspettavo molestie e giochetti psicologici. Rimane il fatto però che – stupido scherzo oppure no – qualcuno conosce il mio vecchio nome. E ciò significa che sa cosa ho fatto.

    Il campanello sopra la porta suona quando entro nella gastronomia in piazza. Patria del buon cibo, Ludlow vanta alcuni fra i migliori piatti della tradizione, fatti con risorse locali dello Shropshire, e ospita un festival gastronomico ogni settembre. La ragazza grassa dentro di me adora Ludlow.

    «Emma, che piacere vederti». Carole mi sorride raggiante appena mi vede sulla porta. «Come stai?»

    «Starò meglio con una confezione del tuo Camembert e del pane croccante».

    Carole sparisce per un secondo e torna con un sacchetto di carta marrone. Quando me lo passa il sacchetto è ancora caldo e da dentro esce un profumino di pane appena sfornato.

    «Prendo anche una bottiglia di vino».

    Carole inarca le sopracciglia. «Qualcosa da festeggiare?».

    Mi sforzo di sorridere. «Più che altro mangio per consolarmi. Un giorno magari te ne parlerò».

    Lei è abbastanza educata da non insistere sull’argomento. Io e Carole ci diamo del tu dal primo giorno in cui ho messo piede nella sua gastronomia, ma siamo ben lontane dal considerarci amiche. Non credo che potrò mai diventare intima di qualcuno che non conosca il mio passato. È troppo rischioso.

    «Buon appetito». Lei prende i soldi e io torno in strada. La logica mi dice di andare a casa e distruggere la foto, dimenticarmi che sia mai arrivata, ma non appena svolto l’angolo per imboccare la strada di casa, vedo una cosa impossibile. C’è una donna davanti a me, magra, con i capelli neri e lunghi. È leggermente piegata per tenere la mano del bambino al suo fianco. Lo stesso bambino che stamattina mi sorrideva da una fotografia. Mio figlio.

    Mi sforzo di gridare, ma il fiato mi si blocca in gola. Allora avanzo con passo malfermo, poi mi metto a correre.

    «Dylan!», riesco a gridare. Non può essere lui, è assolutamente impossibile, eppure eccolo là. Dopo tutto questo tempo, la sua vista mi fa venire voglia di buttarmi per terra in ginocchio. Come può mio figlio essere così vicino a me dopo essere stato lontano per tanto tempo?

    Alcuni passanti mi guardano; mio figlio e la sua rapitrice non si voltano indietro. Sarà la mia immaginazione, ma sembra che la donna abbia allungato il passo. Non abbastanza, però; in pochi secondi li raggiungo.

    «Dylan». Allungo una mano per afferrare il braccio del bambino e stringo il suo cappottino blu scuro. Sono attraversata da una scossa di adrenalina quando la donna si gira di scatto verso di me.

    «Che diavolo pensa di fare? Tolga le mani da mio figlio!».

    Prende in braccio Dylan e il cappotto mi sfugge di mano, mentre lei indietreggia. Il suo viso è un misto di paura e indignazione.

    «Quello è mio figlio, è Dylan, è mio...». Lascio cadere la frase quando a un tratto capisco. Questo non è mio figlio. Mio figlio è morto e il bambino qui presente è avvinghiato al collo della madre, spaventato a morte dalla signora pazza che grida contro di loro. All’improvviso non somiglia per niente al bambino della foto; non somiglia né a me né a Mark, né a nessun altro della famiglia. Questo bambino si trova proprio dove dovrebbe essere, fra le braccia di sua madre. Barcollo, faccio un passo indietro. Voglio scappare, ma le gambe mi tradiscono. La donna, resasi conto che non rappresento più una minaccia per lei o per suo figlio, si scaglia contro di me.

    «È pazza? Come si permette di palpeggiare mio figlio? Dovrei chiamare la polizia, squinternata che non è altro!».

    «Mi dispiace, io...». Mi mancano le parole. Vorrei spiegarmi, ma come? Come si fa a descrivere delle braccia sempre vuote? Un cuore che soffre per la perdita? Degli occhi che vedono bambini morti a ogni angolo di strada? Come si fa a spiegare a qualcuno, a una sconosciuta per strada tra l’altro, cosa significa perdere la creatura che hai portato in grembo?

    «Lo credo bene, per la miseria! Lei è pazza». Finché non mi scansa il braccio, non mi rendo nemmeno conto di aver ancora la mano tesa.

    «Ha detto che le dispiace». Qualcuno dietro di me interviene, la voce è forte e familiare. «Si è sbagliata. Magari dovrebbe accettare le scuse e andare per la sua strada».

    Il sollievo mi pervade quando finalmente riesco a girarmi e a vedere la mia soccorritrice. Carole. Sento la donna bofonchiare ancora che sono pazza, ma poi vedo che ricomincia a camminare e sparisce.

    «Grazie». Guardo le persone che si sono fermate ad assistere allo spettacolo. «Oh, Dio».

    «Lasciali perdere». Carole mi prende con delicatezza il braccio. Alza la voce, rivolgendosi ai presenti. «Non hanno niente di meglio da fare».

    Un paio di persone sembrano vergognarsi; una donna alza le spalle e un gruppo di teenager ridacchia, ma tutti vanno via.

    «Stai bene?», chiede Carole premurosa. Non sto bene, e la sua gentilezza mi fa venire le lacrime agli occhi. Tiro su col naso e annuisco.

    «Ora mi passa, è stato solo uno stupido equivoco. Perché mi hai seguita qui fuori?».

    Carole mi porge un pezzo di carta. «Ti è caduto questo quando hai tirato fuori il portafoglio».

    Non so di cosa si tratti, ma la mia mano lo afferra in automatico. È un ritaglio di giornale e, quando lo guardo meglio, capisco. Il mio bambino mi fissa dalla foto in bianco e nero, quella scattata qualche giorno dopo la sua nascita. Non c’è il titolo, ma dopo tutti questi anni mi ricordo ancora qual era. Madre condannata a sei anni per l’omicidio del figlio.

    «Non può essere...». Comincio a negare che quella foto sia uscita dalla mia borsa, ma l’espressione preoccupata di Carole mi blocca. Da dove può essere uscita altrimenti? «Cioè, sì, è mia. Grazie ancora».

    «Sei sicura di stare bene?».

    Annuisco di nuovo, con più decisione stavolta. «Sì. Grazie, Carole, ma devo andare. Scusa».

    L’altra donna mi guarda come se volesse dirmi qualcosa, ma poi ci ripensa. Grazie al cielo.

    «Sai che sono solo qualche casa più in là, se mai avessi bisogno, Emma».

    Faccio di sì con la testa, poi registro quello che ha appena detto. «Come, scusa?».

    Sembra imbarazzata. «Scusa, pensavo che lo sapessi, abitiamo nella stessa via».

    No, non lo sapevo. Come facevo a non saperlo? Sono andata in giro per quattro settimane senza vedere niente e nessuno intorno a me? Be’, Carole di certo mi ha vista... Chi altro può avermi osservata?

    «Emma, sei sicura che sia tutto a posto? Mi sembri un po’ strana».

    Non ho mai avuto bisogno di qualcuno come in questo momento, ma adesso non è proprio il caso di far entrare un’estranea nella mia vita. Nemmeno una che gestisce un negozio di vini e formaggi. Cosa potrei dire alla mia nuova amica? In realtà, stamattina qualcuno ha scoperto che sono un’assassina e ora ho le allucinazioni su mio figlio morto, e porto con me fotografie sue che non sapevo di avere, perciò mi ci vorrebbe proprio una tazza di tè, facciamo da te o da me?.

    «No, sto bene», le assicuro invece. «Grazie ancora».

    5

    La biblioteca è stranamente deserta, anche per essere sabato. Ho vagato senza meta per la città e le varie strade secondarie, stringendo così forte il ritaglio di giornale che l’inchiostro mi si è stampato sulle dita, e sono finita davanti al grande edificio di pietra.

    Quando mi avvicino al banco, la donna burbera che è seduta dall’altra parte non si degna neanche di alzare lo sguardo. Il suo tesserino mi informa che si chiama Evelyn.

    «Sì?», chiede, con la testa ancora sepolta nell’enorme catalogo che ha davanti, lasciandomi a fissare una zazzera di capelli grigi.

    «Ehm, mi servirebbe una tessera, per favore». La donna alza la testa sorpresa di sentire la mia voce.

    «Oh, scusa, tesoro», sorride, l’espressione arcigna diventa decisamente più cordiale. Abbassa la voce. «Credevo che fosse quel tizio laggiù». Accenna a un uomo dall’aria stramba con una cerata verde e un cappello di feltro che è seduto nell’angolo e fissa intensamente lo schermo di uno dei computer. «Non fa altro che lagnarsi delle nostre restrizioni sull’accesso a internet. Ho paura di andare a vedere cosa sta cercando. Questa è una biblioteca, santo cielo, non un raduno porno».

    Non riesco a trattenermi e scoppio a ridere. Questa donna anziana e riservata che pronuncia ad alta voce la parola porno in una biblioteca sembra così buffa. Sorride di nuovo.

    «Scusa, cara, come posso aiutarti, allora? Volevi una tessera?».

    Dieci minuti dopo sono seduta davanti a un computer – il più lontano possibile dall’uomo con il cappello di feltro – e mi ritrovo a digitare le parole Dylan Webster sulla tastiera.

    Mi sono sempre affidata alle ricerche. In confronto a questo posto, però, la stanzetta che chiamavano biblioteca a Oakdale non era niente. Per i primi due mesi non mi sono nemmeno accorta che esistesse. Ho passato settimane a fissare le pareti della mia stanza, mentre Cassie faceva di tutto per attaccare bottone con l’essere pallido che le avevano assegnato come compagna. Un giorno, dopo il suo turno a mensa, è venuta da me e mi ha preso il polso. Ecco, ho pensato. Ha perso la pazienza; finalmente sta per aggredirmi. Magari non sopravvivrò. Magari raggiungerò Dylan.

    «Tieni», ha detto, e mi ha aperto di forza le dita. «Prendi questi e vieni con me».

    Ho aperto la mano e ho visto cosa mi aveva messo sul palmo. Tre lucide monete argentate, utili quanto i soldi finti dei bambini nel mondo reale, ma più preziose di un lingotto d’oro a Oakdale. I crediti, il corrispettivo del denaro per noi, si guadagnavano con il lavoro duro e la buona condotta. Ti permettevano di comprare le cose più ambite lì dentro – sigarette, biancheria intima nuova, riviste – e ti davano accesso a tutte le aree di lusso, come la palestra. O la biblioteca. Cassie mi ha fatta alzare e io mi sono lasciata guidare fuori dalla stanza, lungo i corridoi dai pavimenti d’acciaio e infine nell’ala comune. Su una porta a sinistra della sala comune, di cui non mi ero mai neanche accorta, c’era un cartello con su scritto Biblioteca. Un’etichetta rettangolare accanto alla porta diceva Tre crediti, ingresso mezza giornata e c’era una fessura in cui introdurre la tessera per entrare. Cassie ha preso la mia tessera dalla sua tasca – Dio solo sa quando me l’aveva rubata; questo vi fa capire quanto ci tenessi alla mia roba in quei giorni –, l’ha introdotta nella fessura e ha inserito i crediti.

    «Ecco qua, mezza giornata». Mi ha aperto la porta e mi ha dato una leggera spinta. «Vai a fare qualche ricerca su quella roba premestruale di cui si ostina a parlare il dottor Psicolabile durante la terapia».

    «Puerperale», ho borbottato, non riuscendo a dire quello che avevo in mente in realtà. «Psicosi puerperale».

    «Appunto, quello che ho detto io. Quando esci magari me la spieghi per bene».

    È stato in quell’antro buio e silenzioso, con un totale di trentatré mensole e due computer dotati di regole di sicurezza talmente ferree che se trovavi qualcosa di più della foto di un morbido coniglietto eri fortunata, che ho scoperto tutto quello che so sul disturbo da cui ero affetta. Più parlavo con Cassie di quello che avevo imparato, più tutto quadrava: l’effetto della fecondazione assistita sul mio stato mentale, il fatto che il parto cesareo potesse essere tanto traumatico da far sprofondare una donna nella depressione post-parto, la spossatezza e la sbadataggine, l’irritabilità che avevo attribuito alla mancanza di sonno.

    Le immagini che avevo scacciato con tanta fatica si sono infiltrate nella mia mente come acqua fra le rocce. L’immagine di me che mi sveglio in ospedale, non gradualmente ma di colpo, sbarrando gli occhi.

    «Il bambino, aiuto! Il mio bambino!». La stanza è vuota, sono da sola e quando provo a mettermi seduta il mio stomaco protesta con veemenza. Cosa mi è successo? Cos’è successo al mio bambino?

    «Ehi, ehi, non muoverti». Mark arriva al mio fianco in pochi secondi; preme con il pollice il bottone accanto al letto. «Va tutto bene, amore, non ti alzare».

    «Il bambino, Mark, sta bene il bambino?». Mi premo con le mani la protuberanza dura che ho sull’addome e un leggero frullo all’interno mi dice che è tutto a posto. La pancia è calda e confortante, e rilascio il respiro che sto trattenendo.

    La stanza puzza di sapone antibatterico, un odore che mi ricorda ancora la malattia e il cancro, e mia madre, che ho visto spegnersi a poco a poco. Mark sta sorridendo, ma prima che possa parlare entra un’altra persona nella stanza, una donna. Ha i capelli biondo cenere legati in una crocchia disordinata, ma il suo viso mi sfugge.

    «Sta bene, il bambino sta bene», sussurra Mark. Il suo sorriso si allarga, come se ci fosse qualcosa che dovrei sapere, qualcosa che dovrei capire, ma non capisco.

    «Se la sta cavando bene, tutto considerato. Potrà vederlo dopo che il dottore l’avrà visitata».

    «Di che sta parlando?». Premo di nuovo la mano sul mio addome. «Mi avete fatto un’altra ecografia? È un maschietto?». Che sta succedendo?

    Le parole di Mark sono dolci e confortanti. «Sei entrata in travaglio, tesoro, ti ricordi? C’è stato un problema con il bambino; hanno dovuto farti l’anestesia. Non ti ricordi? Hai detto che andava bene, hai dato il consenso».

    Hai dato il consenso. Perché mio marito parla come un avvocato della televisione? Che sta dicendo? Perché questa donna mi guarda con tanta compassione?

    «È stata una decisione improvvisa, cara. Il bambino non stava rispondendo bene. Abbiamo dovuto tirarlo fuori il più in fretta possibile. Ma sta bene, è in ripresa. Vado a chiamare il dottore, d’accordo?»

    «È bellissimo, Susan, sono così fiero di te. Vuoi vedere una foto?». Mark tira fuori il telefono e mi mostra la foto del bambino più minuscolo che abbia mai visto. Perché lo sta facendo? Non vorrà mica dirmi che...?

    «Mark». La mia voce è più severa adesso. Deve smetterla di dire cavolate, di mostrarmi stupide foto e di sorridere come un idiota. «Che succede? Di chi è questo bambino?».

    Lo vedo rabbuiarsi, le grinze agli angoli degli occhi – le rughe della felicità, come le chiamo io – spariscono. «Susan, questo è il nostro bambino. Hai fatto un cesareo e il bambino è nato. Eccolo».

    Mi mostra di nuovo il telefono e io sento affiorare con prepotenza un’ondata di rabbia e confusione. Allungo il braccio e gli colpisco la mano. Lo colgo di sorpresa, il telefono gli cade e slitta sul pavimento, sbattendo contro il muro.

    «Smettila di mostrarmi quella foto! Quello non è il mio bambino! Lui è qui dentro, lo sento!».

    «Gesù, Susan». Mark balza in piedi per andare a recuperare il suo prezioso iPhone, si gira verso di me, il volto paonazzo e gli occhi socchiusi. «Perché lo hai fatto? Ma ti senti? Questo è il nostro bambino, il tuo bambino».

    Sta mentendo. Lo saprei, lo saprei se avessi partorito! Lui mi avrebbe tenuto la mano mentre io spingevo e gridavo, avrei sentito il mio bambino piangere, l’avrei sentito contro il mio petto. Lo saprei.

    «Ti sbagli. Quello non è il mio bambino. Quello non è il mio bambino».

    Ci sono volute tre infermiere, un dottore e un’abbondante dose di sedativi per farmi calmare. Poi, dopo essermi svegliata e aver aspettato ben quattro ore, ho visto il bambino che sostenevano fosse mio figlio. Mentre fissavo la piccola culla di plastica che avevano portato nella mia stanza, non sentivo alcun legame con il neonato che avevo davanti, la creatura che avevo nutrito dentro di me con tanta cura negli ultimi otto mesi. Mi sentivo derubata, come se quelle persone mi avessero sottratto i primi preziosi momenti con mio figlio. Mi hanno permesso di prenderlo in braccio, le infermiere hanno scattato qualche fotografia e hanno detto parole incoraggianti, allora ho cominciato a sentirlo, a risentire l’amore che avevo provato non appena avevo scoperto di essere incinta, eppure la sensazione che ci fosse qualcosa di anomalo non svaniva. Ero stata defraudata prima del concepimento naturale e poi del parto naturale. Ricordo di aver pensato che forse non era destino che diventassi madre.

    Avevo immaginato che tutte le neomamme si sentissero come me; le ricerche e la potenza di Google mi hanno aiutata a capire. Dopo quella volta, ho raccolto rifiuti e pulito gabinetti come una disperata per guadagnare crediti e passare più tempo possibile in biblioteca – e restituire a Cassie quelli che mi aveva prestato il primo giorno –, finché un pomeriggio uno dei secondini non è venuto nella mia stanza e mi ha offerto un’ancora di salvezza: un lavoro in biblioteca, solo qualche ora alla settimana, in cambio dell’accesso illimitato.

    Quello che non ho mai fatto, però, è digitare il nome di mio figlio nella mascherina di ricerca. Non avevo idea di quanto fosse angosciante premere invio e aspettare i pochi secondi che occorrono perché i risultati compaiano.

    Tengo il cursore sulla piccola x all’angolo dello schermo, pronta a chiudere la pagina nel caso in cui qualcuno si avvicini troppo. Ed eccola lì. Una pagina intera di riferimenti alla morte di Dylan, ogni volta il suo nome in maiuscolo indica l’argomento della ricerca. Le prime occorrenze riguardano il processo, sono articoli di giornale che ho già visto all’epoca, ma anche adesso è difficile affrontare il fatto che riguardano me. Frammenti di titoli, come Madre con depressione post-parto condannata a sei anni di carcere e Madre uccide il proprio bambino: Non mi ricordo, spiccano in mezzo alle pagine Facebook e ai profili LinkedIn di altri Dylan Webster. Ogni articolo riporta la stessa fotografia, quella che ho in mano. Mentre scorro i risultati della ricerca il cuore mi batte tanto forte contro il petto da farmi male, ogni titolo mi ricorda un momento che ho cercato con tutta me stessa di stipare in un angolo buio della mia mente.

    Ci sono alcuni articoli che sembrano non avere nulla a che fare con Dylan, ma evidentemente il suo nome deve comparire da qualche parte. Li mando tutti in stampa e mi riprometto di leggerli a casa, dove potrò tormentarmi in santa pace. Per tutto il tempo penso al ritaglio di giornale che secondo Carole mi è caduto dalla borsa. Chi ce l’ha messo? Perché? Sono stata io? Sono pazza? Scaccio quel pensiero spiacevole.

    Per ghiribizzo digito il nome del mio ex marito, Mark Webster. Le uniche cose che trovo sono un’agenzia di design – non il mio Mark – e un giocatore di freccette professionista – decisamente non il mio Mark. Poi m’imbatto in qualcosa che ho già visto. La foto di Mark mi fissa orgogliosa dallo schermo, mentre l’Università di Durham dichiara al mondo quanto successo abbiano avuto i suoi ex alunni. Ricordo quanto era contento il giorno in cui il pezzo è stato pubblicato sul «Guardian». Un articolo intitolato Dove si trovano adesso? annunciava a tutto il Paese che Mark Webster era socio di un’importante azienda informatica, un pezzo grosso insomma. Avevo sorriso nel vedere come si pavoneggiava; avevo sempre amato il fatto che fosse ambizioso e andasse sfacciatamente fiero di tutto quello che aveva conquistato. Il pezzo sul «Guardian» era come un sigillo di approvazione, la conferma che ce l’aveva fatta.

    Senza nemmeno accorgermene, sono rimasta in biblioteca due ore e il calore del giorno è scemato lasciando un gelo nell’aria. Quando esco, rabbrividisco, mi stringo nel cardigan di maglia pesante e accelero, smaniosa di tornare all’auto parcheggiata. Non mi rendo conto di quanto sia distratta finché non mi scontro con una donna appena uscita da dietro l’angolo della biblioteca.

    «Oh, Dio, scusi». Alzo lo sguardo e mi trovo davanti la donna bionda che mi ha sorpresa a fissarla poco fa nel caffè.

    «Colpa mia». Non sembra intimidita da quell’incontro inatteso e sorride titubante. Vorrei dire qualcosa di simpatico per alleggerire l’atmosfera – lei sembra piuttosto tesa – ma so che sembrerei una pazza e una stalker, perciò tengo a freno la lingua.

    «Non si preoccupi», replico invece. Per un secondo sembra che lei voglia dire qualcosa, ma dopo un attimo di silenzio imbarazzante s’infila una ciocca ribelle dietro l’orecchio e se ne va passandomi accanto.

    Sono felicissima di arrivare a casa e mi accomodo di fronte al fuoco con una tazza di cioccolata calda e gli articoli di giornale disposti a ventaglio sul pavimento davanti a me. Quelli sul processo sono ancora difficili da affrontare, perciò passo agli ultimi, quelli in cui compare solo il nome Dylan Webster in qualche punto del testo, sperando che non riguardino un nuotatore olimpico con lo stesso nome di mio figlio.

    Non è così. Il primo pezzo è inutile, un servizio a caso su un raduno universitario. Il secondo mi fa drizzare la schiena, e anche le antenne.

    la famiglia del medico legale scomparso si dice preoccupata per questo padre meraviglioso

    Di Nick Whitely. Pubblicato il 20/11/10

    Tre giorni dopo la scomparsa del dottor Matthew Riley, la famiglia ha espresso grande preoccupazione per questo padre e marito meraviglioso.

    Dalla casa del dottor Riley a Bradford, suo cugino Jeff Arwater, 34 anni, ha affermato: «Questo è un momento estremamente duro per la famiglia di Matthew. Matty è un uomo molto affidabile, un marito fantastico e un padre amorevole. Non abbandonerebbe mai volontariamente la moglie e le sue adorabili bambine, perciò è ovvio che siamo molto preoccupati. Tutti qui sono angosciati».

    Kristy Riley, la moglie di Matthew, parlerà in una conferenza stampa più tardi.

    Il dottor Riley, di 36 anni, di recente è stato sotto i riflettori per aver contribuito alla condanna di Susan Webster, la madre che tre settimane fa è stata giudicata colpevole di aver soffocato a morte il figlio Dylan. È stato visto l’ultima volta il 17 novembre fuori da Waitrose, a Bradford, con una busta della spesa che conteneva vino e cioccolatini per festeggiare il suo ottavo anniversario di matrimonio. Chiunque abbia informazioni su dove si trovi al momento è pregato di contattare il distretto di polizia del West Yorkshire tramite il numero diretto che trovate sul sito web.

    Matthew Riley, me lo ricordo? La mia mente passa in rassegna immagini sfocate di un processo a cui ho presenziato unicamente con il corpo, e lo vedo. Un dottore che sembrava troppo giovane per essere esperto di qualsiasi cosa ma che stando ai giornali era più vecchio di me. Mi ricordo di essermi sforzata di prestare attenzione quando c’era lui sul banco dei testimoni, perché sapevo che doveva essere importante. Non so se fosse colpa dello stress, della mancanza di cibo e di sonno, o degli antidepressivi che i dottori dell’ospedale mi avevano prescritto, ma da quando Dylan non c’era più concentrarsi su qualcosa per me era una fatica immane. Il dolore, diceva mio padre; anche per lui era stato così quando era morta mamma. Anch’io avevo sofferto per la morte di mia madre, ovviamente, ma questo era diverso, questo era un buco nero che consumava tutto, che aleggiava ai margini del mio campo visivo, ma che sapevo esser lì, in attesa che mi avvicinassi e ci cadessi dentro. Dovevo usare tutte le energie che avevo per non entrarci di mia spontanea volontà.

    Il dottore ha prestato giuramento e il pubblico ministero si è avvicinato al banco: era un omuncolo orribile che mi ricordava tantissimo il grande e potente Mago di Oz, tanto che dovevo sforzarmi di non ridere per non confermare quello che tutti già pensavano, cioè che fossi pazza. Ho cercato di concentrarmi su quello che stava dicendo il dottore – Matthew Riley, ora lo so.

    «... non reagiva. Ho controllato il polso, il battito cardiaco, la respirazione. L’ho dichiarato morto alle 16.06 ma l’autopsia ha rivelato che il decesso era avvenuto all’incirca due ore prima».

    «E Susan Webster...?».

    Per tutta la prima parte della testimonianza lui aveva guardato la giuria, ma in quel momento si è girato verso di me e si è schiarito la voce, un po’ a disagio.

    «I paramedici del pronto intervento hanno portato la signora Webster in sala operatoria. Quando l’ho vista nel parcheggio avevo pensato che fosse morta, invece si è scoperto quasi subito che era solo priva di conoscenza».

    Il pubblico ministero ha fatto un secondo di pausa, lasciando che quell’informazione venisse elaborata, anche se per la giuria non era proprio una novità, ho pensato io.

    «A prima vista secondo lei com’era morto Dylan Webster?».

    Il dottor Riley è tornato a guardare i giurati e ha recuperato il suo atteggiamento professionale.

    «Sembrava che Dylan fosse morto di sids». Ha lanciato un’occhiata al pubblico ministero, che gli ha fatto un cenno col capo per esortarlo a continuare. «Vale a dire la sindrome della morte improvvisa del lattante, o morte in culla».

    Mi si è annebbiata la vista. Non mi ricordavo in modo lucido quel giorno. Un attimo prima, Dylan era vivo e un attimo dopo mi dicevano che era morto. L’unica cosa che sapevo era che lui non c’era più e io odiavo quell’uomo. Odiavo il modo in cui stava parlando di me e di mio figlio e il modo in cui pronunciava la parola morte.

    «Può dirci come mai pensava che fosse quello il caso?»

    «Be’, purtroppo la sids rimane una delle principali cause di morte per i bambini sotto l’anno di età e così è naturale considerarla una possibilità quando un bambino viene trovato morto nella culla senza evidenti segni di abuso o altre cause del decesso».

    «Cos’ha suggerito l’esito dell’autopsia?»

    «Durante l’autopsia ho trovato delle fibre del cuscino del divano dei signori Webster dentro la bocca di Dylan. C’era traccia di enfisema ed edema polmonare acuto».

    Non c’era bisogno di essere un esperto di medicina per capire a cosa avrebbe portato la testimonianza del dottor Riley.

    «E quando ha fatto tutte le deduzioni del caso, quale ha stabilito essere la causa del decesso?», ha chiesto il pubblico ministero con crudele esultanza. Il dottor Riley non mi ha nemmeno guardata quando ha esposto le sue maledette deduzioni.

    «La mia opinione professionale è che Dylan Webster sia morto per soffocamento intenzionale».

    «In parole povere?»

    «Dylan Webster è stato soffocato a morte con un cuscino».

    Hanno più trovato il dottor Riley? La sua scomparsa ha qualcosa a che fare con la vicenda? Sospiro, mi strofino il viso con le mani e mi siedo sui talloni. È allora che sento il rumore.

    È innegabile. È uno schianto che viene dal giardino sul retro, come se qualcuno avesse travolto i bidoni dell’immondizia esterni. Balzo in piedi, mi guardo rapidamente intorno in cerca di qualcosa con cui difendermi. L’attizzatoio. È un cliché, lo so, ma forse c’è una buona ragione se lo è, e senz’altro sarà più efficace di un articolo di giornale arrotolato.

    Dopo aver aspettato qualche minuto dietro la porta del soggiorno, comincio a sentirmi un po’ stupida, finché non sento un altro rumore. Qualcosa che viene sbatacchiato, quasi sicuramente la maniglia della porta sul retro, e un rumore stridulo, come se qualcuno stesse tentando di scassinare la serratura. Oh, cazzo. Ho passato gli ultimi tre anni cercando di evitare guai in un istituto psichiatrico e adesso sto per tirare le cuoia in una pittoresca cittadina dello Shropshire. Se non fossi così impaurita, probabilmente vedrei il lato comico della situazione.

    La cucina è buia e le veneziane sono tirate, perciò non ho modo di vedere chi ci sia fuori dalla porta. Cazzo. La mia unica speranza è l’elemento sorpresa. Chiunque stia tentando di entrare, chiaramente non è un esperto – sta facendo casino lì fuori da dieci minuti e la porta è ancora sbarrata. Vorrei spalancarla e colpire con l’attizzatoio chiunque ci sia dall’altra parte, in stile Pirati dei Caraibi, ma riflettendoci l’ultima cosa che voglio è ritrovarmi un’altra accusa di omicidio per aver stecchito un ubriaco confuso che ha sbagliato casa e non riesce a infilare la chiave nella toppa.

    Il rumore cessa. Magari si è arreso ed è andato via. Con l’attizzatoio ancora in mano, sguscio verso la finestra della cucina e sbircio attraverso le stecche delle veneziane. Il buio fuori è fitto, e riesco a vedere solo il mio riflesso. Un tonfo improvviso contro il vetro mi fa gridare per lo spavento e mi ci vuole un minuto buono per capire cosa lo ha provocato. Il mio urlo si tramuta in una risata nervosa, dettata dal sollievo. C’è un enorme gatto nero seduto sul davanzale, che gratta la finestra con le zampe – non è altro che il mio stalker abituale, il randagio della zona, Joss. Prendo un respiro profondo, apro la finestra e lo faccio entrare.

    «Stupido gattaccio», lo rimprovero in tono affettuoso, l’adrenalina lascia il posto al sollievo. Joss fa le fusa e strofina il muso contro di me, ignaro dello scompiglio che ha provocato. Preparo una ciotola dei suoi croccantini preferiti e, dopo aver controllato che la porta di servizio sia ancora chiusa, torno alla comodità del mio soggiorno. Joss mi segue come un’ombra, si raggomitola davanti al fuoco e si addormenta all’istante.

    Ce l’ho con me stessa per aver reagito in modo così stupido. A intrufolarsi nel mio giardino a notte fonda è stato solo un gatto randagio alla disperata ricerca della sua dose di croccantini e di un posto caldo in cui dormire. Che razza di idiota. Tuttavia, controllo porte e finestre: meglio accertarsi che pentirsi.

    6

    Jack: 24 settembre 1987

    «Ehi, Shakespeare, prendi». Jack lanciò la barretta di cioccolato e rise quando colpì l’altro ragazzo in pieno sul petto. «Troppo lento».

    «Grazie». Quello si accigliò. «A che ora vengono gli altri?». Aveva guardato l’orologio tre volte da quando era arrivato a casa sua, quindici minuti prima. La terza volta Jack si era dovuto trattenere per non scoppiare a ridere.

    «Presto. Perché, sei nervoso?»

    «No». Rispose subito, ma Jack capì che stava mentendo. Per l’occasione aveva indossato quelli che dovevano essere i suoi vestiti migliori, ma le scarpe da ginnastica asics e i pantaloni della tuta blu senza marca non si sarebbero stati all’altezza degli abiti resto del gruppo. Lì c’erano ragazzi che, persino a dodici anni, vestivano Nike o Fred Perry – probabilmente Billy pensava che Fred Perry fosse il tizio che gestiva l’edicola.

    «Rilassati. Non mordono mica. Be’, a meno che io non dica loro di farlo». Jack aggrottò la fronte mentre il suo Street Fighter perdeva l’ennesima vita. Lanciò via il telecomando della console, imbronciato. «Che palle questo gioco del cazzo. Ci serve qualcosa di nuovo».

    «In questa stanza ci sono più giochi di quelli che ci sono in tutta casa mia». Billy stava osservando la camera di Jack, studiando ogni minimo dettaglio. I resti degli hobby precedenti erano sparsi dappertutto: la chitarra che Jack aveva abbandonato dopo sei lezioni pur avendo tanto insistito per imparare a suonarla; le scarpe da ginnastica che erano un must assoluto l’anno prima e adesso erano coperte di fango, buttate sopra una giacca che forse costava più dell’intero guardaroba dell’altro. Era una scena abbastanza divertente.

    «Un mucchio di spazzatura. Quando arriverà, Adam vorrà uscire a giocare a ce l’hai. Potresti sporcarti le tue belle scarpe nuove».

    Jack sogghignò mentre il ragazzo faceva del suo meglio per non sembrare preoccupato. Con tutta probabilità avrebbe passato ore a strofinarle prima di tornare a casa. Doveva essere un vero incubo avere dei genitori così presenti, che ti chiedevano sempre dove andavi e con chi uscivi. E poi aveva visto la casa di Billy – dall’esterno, naturalmente; era certo, che non lo avrebbe mai invitato a entrare – e in un posto grande quanto un francobollo immaginava quanto potesse essere difficile evitarsi a vicenda.

    Quando suonò il campanello, Billy trasalì. Jack rise e balzò in piedi.

    «Vado io», urlò a chiunque fosse in casa. Non vedeva Lucy da quando si era svegliato, alle undici. Probabilmente era andata a fare la spesa per la settimana e non le sarebbe dispiaciuto se non lo avesse trovato al suo ritorno. I suoi genitori erano persone convinte che agli adolescenti si dovesse lasciare la libertà di crescere – e che speravano che lui non se ne accorgesse quando Lucy frugava nel suo zaino per controllare il diario con i compiti.

    Billy aspettò in camera mentre

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