Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Silenzi
Silenzi
Silenzi
E-book216 pagine2 ore

Silenzi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Inizi Anni Cinquanta.
Ida ha tredici anni quando deve trasferirsi dalla città in un piccolo villaggio di montagna. Porta con sé un segreto lacerante e l’impatto con la vita da contadina – complice la severità dei genitori affidatari – non aiuta a lenire la ferita. Intanto, nel villaggio l’atmosfera si è fatta cupa: misteri e bugie gravano sempre più sugli abitanti come le nuvole avvinghiate alle cime delle montagne.
Ida intravede uno spiraglio di felicità grazie all’amicizia clandestina con Noah, un adolescente irrequieto che sogna una vita lontana da lì. Una mattina, però, la ragazza si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato e quello che accade cambierà tutto.
Lei e Noah decidono di fuggire insieme, ma una serie di eventi improvvisi e insospettabili complica i loro piani, costringendo Ida a fare i conti non soltanto con il suo segreto ma anche con quelli dell’intero villaggio.

LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2019
ISBN9788831285025
Silenzi
Autore

Luca Brunoni

Luca Brunoni è nato a Lugano nel 1982. Ha studiato giurisprudenza e letteratura e vive tra la sua città natale e Neuchâtel. Silenzi è il suo secondo romanzo.

Correlato a Silenzi

Ebook correlati

Narrativa letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Silenzi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Silenzi - Luca Brunoni

    È stata una tragedia silenziosa, quella che si è consumata tra le nostre montagne. Una vicenda triste scaturita da menzogne e segreti tenuti nascosti troppo a lungo. Purtroppo non ci resta che riportare i fatti. Per quanto riguarda il futuro, dovremo essere capaci di guardarci allo specchio e riconoscere i nostri errori.

    Altrimenti, Dio ci salvi.

    Da una lettera del sindaco Bastian Feld alle autorità.

    Grünberg, 15 giugno 1953.

    Indice

    Parte prima

    La fattoria

    1

    La bicicletta rotta è appoggiata al muro della casa.

    Il patrigno l’ha recuperata e l’ha legata alla grondaia con una catena arrugginita. È una vecchia bicicletta dell’esercito e la ruota davanti – che è finita sotto l’automobile – è piegata a novanta gradi. Un pezzo di cartone penzola dal manubrio: sopra c’è scritto vendesi con una grafia sghemba.

    La osservo dai gradini dell’entrata. Ho levato le scarpe e dondolo i piedi sotto il sole di mezzogiorno. Nel basso della pancia sento il bisogno di fare pipì che preme, ma il patrigno è stato chiaro: non devo muovermi di qui. Lui è partito all’alba per il turno alla centrale elettrica. Ci va a piedi, perché il nostro quartiere non è lontano dalla centrale, che sta sulla riva nel punto in cui il fiume Aare si piega a serpente.

    Ieri ha detto che non mi voleva più. Piangeva, ma le lacrime non erano per me. Ha detto anche che qualcuno sarebbe venuto a prendermi, di aspettare fuori casa tra mezzodì e l’una. Poi è andato a dormire. Ha sbattuto la porta così forte che ho sentito lo schiaffo dell’aria.

    Il vicolo davanti casa è stretto e puzza di pattume rimasto a marcire. Le finestre del palazzo danno su un muro alto e grondante umidità, e il rombo del traffico rotola giù dalla strada che si trova al livello del tetto.

    Un micio miagola dall’oscurità del pianerottolo. Si chiama Dumas ed è un povero gattino spelacchiato, senza padrone. Un tempo era agile e paffuto, ma poi la signora Leer è morta di polmonite e lo ha lasciato in eredità allo stabile. Ora becca colpi di scopa quando cerca rifugio dal maltempo e spesso, nel cuore della notte, lo sento frugare nei bidoni della spazzatura. Ogni tanto, a cena – anche se lo stomaco brontola e domanda di spazzare il piatto fino all’ultima briciola – gli metto da parte un boccone.

    Dumas mi fissa con occhi stanchi. Io penso a quelli del patrigno, pieni di lacrime, pieni di odio.

    Prendo il fazzoletto dalla tasca del vestito e lo distendo sul palmo. Il tessuto è soffice e profuma di sapone di Marsiglia. Faccio scorrere il dito sopra le iniziali NB ricamate nell’angolo con un filo rosa, poi premo il fazzoletto tra la mano e la guancia e stringo le palpebre, più forte che posso, e vorrei poter chiudere fuori il mondo intero.

    Tiro su la gonna così che il sole mi scaldi fino alle ginocchia. La testa si fa pesante contro al palmo. Ho dormito poco, tenuta sveglia dai pensieri e da quella palla nello stomaco che non se ne vuole andare e che in fondo non ha motivi per farlo. Ha tutto il diritto di starsene lì.

    Una vettura si avvicina a passo d’uomo, forse per paura di graffiare gli specchietti contro il muro. Il rumore del motore è assorbito dal baccano della strada sovrastante. La portiera si apre; un uomo ben vestito aggiusta il cappello sulla fronte sudata.

    Dev’essere il tutore. È un poco sovrappeso e ha il fiato corto, come se la vettura andasse a pedali e lui avesse fatto un lungo viaggio. In mano tiene una cartelletta. Osserva il numero in rilievo sul muro della casa, poi sposta gli occhi su di me. Gira la cartelletta per farmela vedere: dei dati scritti a macchina, delle firme, e una fotografia attaccata con la graffetta. Ricordo che me l’avevano scattata durante l’ultimo anno di scuola. Gli occhi sembrano due pozzi senza fondo, e anche se sorrido si capisce che sono intimidita.

    Provo a sollevare gli zigomi e mostrare i denti per somigliare alla ragazzina nella foto, ma proprio non mi viene.

    «Ida Bühler?» domanda il tutore. Prima che possa rispondere, legge dalla cartelletta: «Figlia di Nina Bühler, nata il dodici maggio millenovecentotrentanove, padre ignoto?»

    «Sono io.» Scatto in piedi e sistemo la gonna per nascondere le gambe.

    Il tutore mi studia dalla testa ai piedi nudi, soffermandosi per qualche secondo sul petto. «Hai bagagli?»

    Faccio di no con la testa.

    «Qualcos’altro che devi prendere da casa? È l’ultima occasione.»

    Chiudo il pugno attorno al fazzoletto e lo infilo con cura nella tasca del vestito. Dovrei fare pipì, ma il signore sembra essere di fretta e io, a dire il vero, non ho voglia di ritornare in quella casa che non sarà mai più la mia. «No» dico.

    Lui si incammina verso la vettura. «Mettiti le scarpe. Andiamo, che la strada è lunga.»

    * * *

    Affondo le dita nella pelle del sedile, ma è troppo tardi. La curva secca mi manda a sbattere contro la portiera.

    «Scusa» dice il tutore, e pare sincero, ma affronta allo stesso modo la curva successiva.

    La strada si fa ripida e la vettura arranca. Avverto ogni sobbalzo nel basso ventre e quello che prima era un solletico alla vescica si trasforma in dolore.

    Fuori dal finestrino, il panorama cambia: rocce alte e aguzze spuntano dal terreno, foreste scure inghiottono la luce. Piccoli villaggi appollaiati sulle creste e lassù, contro il cielo viola, la neve dei picchi più alti.

    «Ci siamo quasi» fa il tutore. Incrocia il mio sguardo nello specchietto retrovisore. Ha gli occhi piccoli e quello destro è segnato da una ragnatela di capillari. «Sei una fortunella, lo sai? Hai tredici anni e lo Stato è ancora disposto a farti da chioccia. In un altro paese ti lascerebbero per strada a morire di fame, poco ma sicuro.»

    Non rispondo. Penso al piccolo appartamento, alla bicicletta rotta. Allo sguardo intriso di rancore del patrigno.

    «Se ti dicessi quanto costa tutto questo ambaradan, non ci crederesti. Anche solo la benzina, le scartoffie, la mia giornata di lavoro. I contribuenti pagano tasse salate. E ancora i soldi non bastano per prendersi cura di tutti voi. Orfani, trovatelli, figli che i genitori non possono mantenere, madri ubriacone, padri in gattabuia... insomma, siete una marea.»

    La strada taglia attraverso un bosco e si infila sotto un arco di roccia, poi si impenna di nuovo.

    Il tutore mi lancia un’occhiata severa. «I signori Hauser mi chiameranno se non ti comporti bene. O se batti la fiacca. Se succede, diventerò nero di rabbia. Verrò a prenderti e ti trascinerò per i capelli in un istituto. Non passerà un solo giorno senza che rimpiangerai la fattoria. Sono stato chiaro?»

    Annuisco. Ho sentito parlare degli istituti. I ragazzi come me o vanno là, o vanno dai contadini. Le femmine ogni tanto le mettono dalle suore.

    «Io per il mestiere che faccio dovrei tenere la bocca cucita, ma farò un’eccezione, perché è bene che tu lo sappia: spesso e volentieri succedono cose non belle tra le mura degli istituti. Sarebbe un peccato se dovessi fare l’esperienza sulla tua pelle.»

    Oltrepassiamo l’ultimo colle, poi la strada prosegue in pianura.

    Il tutore rallenta. «Il villaggio dove vivrai è un posto per bene. Gli Hauser sono brava gente. Che lavora sodo. Non hanno figli, sarai da sola con loro. Ti daranno addirittura un letto tutto tuo: un lusso mica da ridere.»

    Parcheggia sul lato della strada e spalanca la portiera. L’aria fredda riempie la vettura, la sento allargarmi la gola e pungere fin dentro ai polmoni.

    «Continuiamo a piedi» dice. «Ha piovuto, e Dio mi fulmini se rimarrò impantanato qui tra le mucche.» Mette un piede a terra e centra in pieno una pozzanghera. «Diamine» sbraita, saltellando su un piede mentre scuote l’altro per liberarsi dalla fanghiglia.

    Scendo e chiudo la portiera, facendo attenzione a non sbattere. L’aria odora di letame e di erba bagnata. Alzo la gonna e seguo il tutore.

    La strada si biforca: un ramo porta a una fattoria costruita alla base di una collina che si dissolve nel cielo bianco di nebbia. L’altro ramo conduce al villaggio, più in basso rispetto alla collina e allungato sul falsopiano. Oltre le case, dove la montagna continua il suo slancio verso il cielo, altre fattorie e una chiesa solitaria che pare l’ultima testimone di un villaggio precedente.

    Arriviamo alla fattoria. Il tutore bussa ma non ottiene risposta. Bussa ancora, così forte che si sente l’eco.

    Una donna spunta dall’angolo. Smilza, i capelli neri scompigliati e raccolti in grappoli. I vestiti appesantiti dallo sporco e dal maltempo. Però ha un bel viso, i lineamenti graziosi, gli occhi color azzurro. Saluta il tutore e sposta lo sguardo su di me. «È lei la ragazza?»

    Il tutore annuisce.

    «Sembra più grande.»

    «Meglio crescere in fretta che mai, o sbaglio?»

    La donna mi osserva e aggrotta le sopracciglia. Poi tira su dal naso.

    «Ho dei documenti da far firmare a suo marito» dice il tutore. «È nei paraggi?»

    «Lo vado a chiamare.» Indica un carretto zeppo di legna da ardere. «Tu» mi dice. «Scarica il carretto e porta la legna nel fienile. Poi pulisci la stalla.»

    Il tutore mima un «vai» con le labbra. Afferro le stanghe del carretto. È pesante e i miei piedi pattinano sul terreno fangoso. Cado in ginocchio, la gonna si imbratta di poltiglia. Mi rialzo, faccio per spostare i capelli dagli occhi e impiastriccio pure il volto.

    La donna scuote il capo. «Speriamo di non aver fatto uno sbaglio» dice abbastanza forte perché possa sentirla.

    «È appena arrivata. Imparerà.»

    Riempio le braccia di legna e cammino verso la porta del fienile. La voce del tutore mi segue fino all’interno: «Ricordati quello che ti ho detto, signorina. Perché se devo tornare quassù a ripeterlo, ti faccio passare un brutto quarto d’ora.»

    Finalmente sono sola. Mi rannicchio in un angolo, sopra la paglia, e abbasso le mutande. Lascio che il peso nel bassoventre si dissolva.

    «Hai sentito? Comportati bene e obbedisci al contadino. Che altrimenti all’istituto c’è già una branda col tuo nome sopra.»

    * * *

    Si è fatta sera. La lampadina che pende dal soffitto della stalla ronza come un moscerino intrappolato in un barattolo. Passo lo spazzolone nel corridoio, attenta a pulire ogni centimetro.

    Non ho ancora mangiato. La fame stritola lo stomaco. Le braccia sono deboli e mi sembra che lo spazzolone pesi come una vanga. I vestiti che ho addosso non sono adatti per lavorare in fattoria: il tessuto è sottile, si inzuppa di sudore e gela contro la pelle; la gonna si appiccica tra le cosce e graffia come carta vetrata.

    Sono arrivata in fondo alla stalla quando sento lo scricchiolio della porta. L’ombra di un uomo si allunga nel corridoio.

    Appena entrato inciampa nel secchio e un fiume d’acqua sporca si riversa fino ai miei piedi. «Dannazione» dice. Molla un calcio al secchio e lo manda a sbattere contro uno stallo. «Perché l’hai lasciato lì?»

    «Stavo ancora pulendo» mormoro.

    «Ti hanno insegnato a rispondere, i tuoi genitori?»

    «No, signore.»

    L’uomo si guarda attorno. Ogni cosa è al suo posto, il fieno accatastato in ordine negli stalli, i ganci per gli attrezzi luccicanti. «Pulito è pulito» dice. Passeggia lento per controllare meglio, annuisce. «Sono Arthur, il marito di Greta. Qui da noi riceverai vitto e alloggio. In cambio ci aspettiamo obbedienza e un aiuto con le faccende della fattoria.»

    Ha un volto tondo ma il suo corpo è snello e muscoloso. Non è molto alto. I capelli hanno battuto in ritirata fino a metà cranio e li porta tagliati corti.

    «Non ti abbiamo preso solo perché ci andava di togliere una ragazzina dalla strada» dice. Un odore di tabacco e terriccio emana dalla sua bocca. «Le tue braccia ci servono. Quassù in montagna nulla è regalato. Per ogni colpo di fortuna, arrivano sette sventure.»

    «Sono pronta a fare del mio meglio.»

    «Il certificato di nascita dice che tua mamma era di fede cattolica. Immagino lo sia anche tu. La nostra invece è una casa protestante, come questo villaggio. È un problema?»

    «No, signore. Io non so molto della religione. Mia mamma non era praticante.»

    «Bene. Perché qui abbiamo un pastore e una chiesa, ma non ci confessiamo. I tuoi peccati sono tra te e il nostro Signore.»

    La parola peccati mi fa correre un brivido sotto la pelle. Cerco di tenere la faccia impassibile, ma so che mi riesce male. Non sono mai stata brava a nascondere le emozioni.

    «Quando avrai finito di pulire, ti porterò da mangiare. Stanotte dormirai qui.»

    «Nella stalla?»

    «Cosa c’è che non va con la stalla? Hai un tetto sopra la testa e della paglia per coricarti.»

    «È solo che il tutore ha detto che avrei avuto un letto. E una stanza.»

    «Nella vita le cose bisogna guadagnarsele. Hai pulito la stalla e ti sei guadagnata la cena. Se lavori bene e ti comporti bene, avrai la tua stanza e da mangiare ogni giorno. Ma sei arrivata oggi. Devi ancora dimostrare che te lo meriti. Intesi?»

    Faccio cenno di sì. «Mi scuso, signore.»

    «Scuse accettate. Al lavoro, adesso.»

    Quando ho finito col corridoio sistemo un giaciglio di paglia in un angolo della stalla dove la puzza di urina e sudore animale è meno intenso.

    Arthur torna con una scodella e una coperta di lana. Li appoggia per terra e se ne va senza dire nulla.

    La scodella contiene una carota e una fetta di pane duro. Divoro la carota in tre morsi. Spezzo il pane e sistemo un pezzettino sulla lingua. Lascio che la saliva lo renda molle e succhio ogni boccone come fosse una caramella. A casa del patrigno c’era sempre da mangiare, magari non a sazietà, però almeno da calmare la fame. Qui sarà diverso. Tante cose saranno diverse.

    Appoggio la mano sulla pancia per tenerla al caldo, perché col caldo la fame si sente meno. Una pioggia leggera comincia a ticchettare sul tetto.

    Mi rannicchio sulla paglia, tiro la coperta fin sotto al mento e chiudo gli occhi, aspettando che il sonno mi catturi.

    2

    Dentro al pollaio l’aria è così acida che gli occhi si bagnano per fare scudo.

    «Questione d’abitudine» dice Greta. «Una settimana qui e il tuo nasino prezioso non ricorderà che odore ha la vita, senza il letame tutt’intorno.»

    L’ultima gallina saltella di malavoglia fuori dalla porta. Greta mi ordina di rimuovere tutti gli escrementi, le ragnatele e le penne.

    «Poi prendi l’acqua alla fontana e pulisci le pareti. Gratta via bene lo sporco che rimane. Chiaro?»

    «Chiaro.»

    «Se non è pulito come si deve ti ci faccio dormire. Quando hai finito qui, puoi pulire casa. Domattina ti insegnerò come si munge una vacca.»

    Gli Hauser gestiscono una piccola fattoria con quattro mucche, qualche gallina, un maiale e tre conigli. Possiedono due carretti, uno per la legna e uno per il letame, qualche attrezzo, un telaio rudimentale per i lavori a maglia.

    Il primo compito della giornata è stato

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1