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Il filo rosso
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E-book157 pagine2 ore

Il filo rosso

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Info su questo ebook

Il profondo legame tra Isacco e Maddalena è quasi fisicamente palpabile, così come il loro disperato bisogno di amore e accoglienza. Figli di una madre giovane e sbandata, incapace di un qualsiasi gesto d’amore nei loro confronti, e di due padri diversi mai conosciuti. Vittime predestinate del compagno della donna, violento e collerico. Spetterà a Isacco, fin da quando è poco più che un bambino, occuparsi della sorella minore, introversa e timida. Maddy, come affettuosamente la chiama il fratello, nasconde un terribile segreto che non riesce a condividere neppure con lui.
L’evolversi degli eventi, li condurrà a una separazione cui Isacco però non sa rassegnarsi. Il suo è un passato che non si lascia dimenticare, ma che non gli impedisce di guardare avanti, nel tentativo di costruire per sé e per Maddy quella vita che ragazzini spaventati, serrati in camera, sognavano ascoltando i deliri alcolici della madre e le urla del suo compagno.
Una narrazione commovente, coraggiosa e nonostante tutto piena di speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2021
ISBN9788832928792
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    Anteprima del libro

    Il filo rosso - Anita Orso

    2003

    1

    Ottobre 1990

    Dovevo correre, correre veloce, ero in ritardo.

    Mi ero trattenuto a giocare a pallone dopo scuola e non mi ero accorto dell’ora. Mentre correvo, la paura cresceva e con essa la consapevolezza di ciò che mi aspettava oltre la soglia di casa: la cucina era avvolta in una nuvola di fumo, come nei bar lugubri e sinistri dei bassifondi americani che si vedevano nei film in tv. C’era un’aria malsana che si diffondeva in tutta la casa e che si insinuava nei corpi come uno spirito maligno. Il fuoco era acceso nella stufa economica. Seduto su di una sedia di paglia, con il gomito appoggiato sopra il tavolo e con le gambe divaricate, c’era lui con i suoi occhi grigi che mi scrutavano: uno sguardo truce che mi penetrava nel corpo come un pugnale affilato. Vedevo le dita, della mano tozza e sporca, grattarsi il capo passando tra i capelli radi che scendevano sopra le orecchie pelose. Tra le labbra sottili serrava una sigaretta che pareva volersi lanciare nel vuoto pur di fuggire da quell’umida presa.

    Pensai di prendere una scorciatoia. Mi addentrai nel bosco, le gambe stavano cedendo per la fatica e mi veniva da vomitare. Pestavo le foglie secche. Lo scricchiolio mi rimbombava nella testa e immaginavo un popolo di piccole creature del bosco che, spaventate dalla mia presenza, si nascondevano sotto le foglie per sfuggirmi, tentativo vano, poiché le stavo pestando sotto le scarpe e il crepitio che si diffondeva nell’aria non era altro che il loro urlo di dolore. Correvo così veloce che i rami degli alberi mi frustavano il corpo e le radici nodose mi tendevano l’agguato. Mi impigliai la manica della felpa in un ramo, ma non mi fermai, strappai la stoffa e sentii un lieve bruciore sulla pelle. Sudavo freddo, ero spaventato, ma dovevo tornare a casa.

    Uscii dal bosco e ripresi la mulattiera. Passai di corsa davanti alla casa di Tina, una mia amica. Una donna molto vecchia, con la pelle rugosa come la corteccia di un albero e i capelli, raccolti in uno chignon, sembravano fili d’argento. Gli occhi, di un azzurro annacquato, si nascondevano sotto le palpebre molli. Le erano rimasti pochi denti in bocca e quando sorrideva si intravedevano una serie di fori neri. Per la fretta, non mi voltai a guardare se Tina era alla finestra, non potevo assolutamente perdere tempo.

    Ero quasi arrivato, superai la curva e finalmente comparve alla vista, se pure ancora lontano, il casolare fatiscente in cui vivevo. Aveva i balconi rotti e i vetri delle finestre erano ricoperti da una pellicola grigiastra tanto erano sporchi. Al primo piano alcune finestre avevano i vetri rotti. Fortunatamente non occupavamo quel piano perché il pavimento di legno aveva delle fessure così larghe che si vedeva di sotto. Infatti, temevo che da un momento all’altro il solaio potesse crollare rovinosamente su di noi seppellendoci sotto un mucchio di macerie.

    Mi avvicinavo alla casa e cercavo con lo sguardo Maddalena. Da qualche settimana, stava sempre alla finestra della cucina in attesa del mio ritorno. Ero così abituato a scorgere la sua sagoma che mi sforzai di mettere a fuoco la vista. Maddalena rientrava a casa da scuola un’ora prima di me. Frequentava la terza primaria, mentre io la seconda media. Avevo ritardato parecchio rispetto al mio solito orario, pertanto poteva essersi stancata di rimanere ad aspettarmi.

    Aprii la porta di scatto ed entrai. Guardai subito verso il tavolo. C’erano un paio di piatti vuoti e puliti. Sulla stufa c’era una pentola d’acqua quasi tutta evaporata. La sedia era vuota. Tirai un sospiro di sollievo. Nessuna traccia della presenza di Giorgio. Dal tavolo apparecchiato capii che nessuno aveva mangiato. Mi sorpresi dell’assenza di Maddalena, forse era nella nostra stanza. Mi diressi verso il corridoio che conduceva alle due camere da letto. In una ci dormivano Giorgio e mamma e nell’altra mia sorella e io. Accostai lentamente l’orecchio alla porta della prima per sentire un qualsiasi rumore che mi avvertisse della presenza di Giorgio. Silenzio assoluto. Mi avvicinai alla mia stanza e aprii con maggior coraggio la porta. Scorsi immediatamente una piccola presenza informe, sul pavimento, raggomitolata sotto a una coperta. Ne spuntavano solo i piedi scalzi.

    Maddalena! la chiamai. Che cosa stai facendo?

    Sollevò timidamente il capo facendo scivolare sulle spalle la coperta. Incontrai i suoi occhi. Due biglie tonde e nere mi guardarono fisso. Avevano un’aria così triste che mi preoccupai seriamente. Mi inginocchiai vicino a lei e le chiesi perché si fosse nascosta. Maddalena non rispose, ma continuò a fissarmi. Nel suo sguardo c’era qualcosa di indecifrabile. Come se fosse stata in uno stato di trance. La scossi per le spalle. Vacillò e poi ritornò nella posizione iniziale. Sembrava una statua di cera. Non disse una sola parola.

    2

    Marzo 2002

    Devo pedalare più veloce. Non posso arrivare in ritardo. Non il primo giorno di lavoro. Se penso a quanto ho faticato per trovare un lavoro decente e anche ben retribuito. Se tutto andrà per il verso giusto potrò permettermi l’affitto di un bilocale. Nel monolocale mansardato in cui vivo ora, mi sento soffocare. Ho bisogno di un terrazzino in cui poter uscire per prendere una boccata d’aria e soprattutto per guardare il mondo. Vedere le auto sfrecciare sull’asfalto della strada e osservare le persone che camminano sul marciapiede. Sono stanco di dovere salire sulla sedia per mettere la testa fuori dall’abbaino e scorgere solo un pezzo di cielo o le tegole rosse e nere dei tetti.

    Ma ciò che più voglio è di poter camminare nel mio appartamento, cioè passare da una stanza a un’altra e non muovermi sempre in un moto rotatorio come fa il criceto nella ruota dentro alla gabbia, che prima o poi si rischia di andare fuori di testa.

    Sono arrivato. Dove posso parcheggiare la bici? Meglio che la nasconda, ci mancherebbe solo che me la rubassero, allora sì che sarei nei guai. È il mio unico mezzo di trasporto.

    Devo entrare e chiedere del signor Torelli, il titolare del ristorante.

    Varco l’ingresso, tenendo la bici per mano. Do un’occhiata furtiva al mio orologio e vedo che sono anche in anticipo di un paio di minuti. Un ragazzo mi viene incontro e guarda la mia bici con un’espressione incuriosita.

    Scusi signore, ma non si può entrare nel ristorante con la bicicletta!

    Sono Isacco Bettini. Potrei parlare con il signor Torelli per favore?

    Ah! Tu sei il nuovo cameriere, vieni, il signore ti sta aspettando in cucina.

    Lo seguo tenendo il manubrio della bici.

    Ma che fai? Non puoi venire con la bici. La puoi lasciare fuori? Mi guarda stranito.

    No, non voglio che me la rubino.

    Okay, ho capito, ritorna indietro e prende la bicicletta, lascia stare. Tu vai avanti. Vedi quella porta laggiù? È la cucina, mi invita ad allontanarmi, a questa, indicando la mia bici, ci penso io.

    Va bene… grazie!

    A proposito, io sono Leonardo, Leo per gli amici.

    Faccio un cenno con la testa e poi vado verso la cucina. Spingo la porta e mi asciugo la mano destra sulla maglia. È un gesto istintivo che faccio sempre, perché voglio avere le mani pulite e asciutte. Ora sono molto teso e ho le mani sudate. Non voglio stringere la mano del mio futuro datore di lavoro con il palmo sudaticcio. Ricordo Giuseppe che mi diceva sempre: Isacco ascoltami e non dimenticarlo. Quando stringi la mano a qualcuno, fallo con una presa stretta e decisa, non molliccia come quella delle femminucce! Giuseppe è stato l’unico vero amico che abbia mai avuto. Non gli scrivo da alcuni mesi e non ci vediamo da quasi due anni, cioè da quando ho lasciato il paese e mi sono trasferito in città. Se mi assumeranno gli scriverò subito per dargli la buona notizia!

    Entro nella cucina e scorgo subito un uomo alto, magro e coi capelli ricci e bianchi. Sta davanti al piano di cottura e mescola con vigore il contenuto di una grande pentola.

    Scusi… buongiorno, sono Isacco Bettini.

    Alla buon’ora! esclama guardando l’orologio appeso al muro. Sei in ritardo di quattro minuti. Si avvicina e mi esamina dall’alto al basso, con particolare attenzione.

    Ma che cosa dice, se sono addirittura in anticipo? Non avrò l’orologio regolato qualche minuto indietro?

    Scusi signore. Non succederà mai più. Lo giuro.

    Nessun giuramento, scuote la testa e continua, non si giura su qualcosa che difficilmente si può garantire. Su forza, mi porge un grembiule nero, indossalo e seguimi fuori in sala, che ti faccio vedere come servire ai tavoli.

    Certo, signore. Grazie.

    Si ferma, mi guarda per un istante e aggiunge: Comunque stavo scherzando, ride compiaciuto, non sei in ritardo!

    Sono proprio stupido, ma ci tengo a fare bella figura e ho temuto davvero di essere arrivato in ritardo. Leonardo ci raggiunge e sussurra qualcosa all’orecchio del titolare che mentre lo ascolta assume un’aria contrariata.

    Mandala via, non voglio che dia noia ai clienti. Dovevo immaginare che dandole da mangiare una volta poi sarebbe ritornata.

    Leonardo obbedisce e corre fuori. Forse si tratta di una barbona, ne vedo tanti in giro per la città.

    Ritorna quasi subito, è a disagio, si nota benissimo, e si rivolge a Torelli. Mi ha supplicato di darle qualcosa da mangiare. È tanto pallida.

    Buon Dio! Gli indica la cucina. Vai e chiedi di prepararle un panino.

    No, ormai non serve, è andata via, risponde amareggiato il giovane.

    Allora... meglio così, sospira, ma scuote la testa dispiaciuto, povera gente!

    Ho l’impressione che Torelli sia una brava persona. Se Giuseppe fosse qui ora, direbbe che quest’uomo ha un buon cuore. Ricordo quando lo disse a me, pensai che intendesse che avevo un cuore sano per praticare dello sport, invece voleva dire che ero buono.

    Giuseppe era il mio professore di educazione fisica, l’unica persona che abbia creduto in me. Nonostante il mio fisico magro, le spalle strette e le gambe storte e ossute, mi incoraggiò e il primo anno in cui venne a insegnare nella mia scuola, riuscii a classificarmi al primo posto nella gara dei mille metri. Fu la prima volta in cui mi sentii orgoglioso. Il giorno in cui Giuseppe mi diede la notizia che avrei partecipato

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