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Performance: Dal testo al gesto
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E-book399 pagine4 ore

Performance: Dal testo al gesto

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Info su questo ebook

Cosa accade a un testo quando da notazione si fa esecuzione? Quale il suo statuto se la scrittura richiede di essere agita? Come un sistema di segni -- pagina o spartito, immagine o segnatura chironimica -- si modifica nel passaggio dal supporto alla scena? Fra teatro musicale e canzone, poesia concreta e poetry reading, ‘saggio performato’ e ‘cinema da camera’, con un occhio rivolto alla sperimentazione italiana (Mario Bertoncini, Lamberto Pignotti) e l'altro a quella internazionale (Woody Guthrie, Bruce Springsteen, Bob Dylan, Richard Thompson, Susan Howe, David Grubbs, bp Nichol, Steve McCaffery, Brigitta Falkner), il presente volume si misura con la performance artistica e i performance studies con lo spirito della ricerca in corso d'opera. Dove, come nell'oggetto mutevole e sfuggente che si propone di investigare, la dimensione processuale non è meno rilevante della sua ipostasi in saggio, articolo, monografia.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2019
ISBN9788899573317
Performance: Dal testo al gesto

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    Anteprima del libro

    Performance - Salvatore Marano

    I quaderni di Arabeschi

    Atti, studi e testi

    Collana diretta da Stefania Rimini e Maria Rizzarelli

    Comitato scientifico

    Marco Antonio Bazzocchi, Marco Belpoliti, Lina Bolzoni, Monica Centanni, Michele Cometa, Elena Dagrada, Massimo Fusillo, Fernando Gioviale, Davide Luglio, Martin McLaughlin, Bonnie Marranca, Marina Paino, Luca Somigli, Valentina Valentini.

    Comitato di redazione

    Salvo Arcidiacono, Giulio Barbagallo, Fabrizio Bondi, Cristina Casero, Nicola Catelli, Roberta Gandolfi, Michele Guerra, Giulio Iacoli, Mariagiovanna Italia, Giuseppe Lupo, Federica Pich, Corinne Pontillo, Elena Porciani, Giovanna Rizzarelli, Cristina Savettieri, Simona Scattina, Simona Sortino, Andrea Torre, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano.

    www.arabeschi.it

    Tutti i saggi sono sottoposti a peer review.

    ISBN

    978-88-99573-31-7

    © 2017 Duetredue Edizioni Srl

    Lentini, Via Garibaldi 46

    www.duetredue.com

    info@duetredue.com

    In copertina: Pia, Pi(oggi)a

    Il presente volume, realizzato con i fondi per la ricerca FIR 2014-16 dell'Università degli Studi di Catania, raccoglie gli atti del convegno Performance. Dal testo al gesto tenutosi a Catania il 2 dicembre 2016 a conclusione del progetto di ricerca omonimo da me coordinato.

    Ringrazio sentitamente:

    Mario Bertoncini, Brigitta Falkner, David Grubbs, Susan Howe, Steve McCaffery, Lamberto Pignotti per la disponibilità al dialogo e per avere permesso di citare liberamente dalle loro opere; Ellie Nichol per avere fatto altrettanto con le opere di bp.

    Paul Dutton per il costante dialogo e per avere concesso illimitata libertà di consultazione dei suoi preziosi archivi privati.

    Rafael Barreto-Rivéra e Jack David per gli illuminanti colloqui di Toronto.

    Stan Bevington e Alana Wilcox per avere spalancato le porte di Coach House Press.

    Maria Pia Pulvirenti, in arte Pia, per la splendida immagine di copertina.

    Sebastiano Nucifora per l’elegante grafica dei manifesti del convegno.

    Iain Andrew Halliday, Alessandro Mastropietro, Floriana Puglisi, Vincenza Scuderi, Daniela Vasta per la passione e il rigore con cui hanno contribuito a dare forma a un work in progress collettivo del quale i saggi che sono di seguito raccolti danno solo parzialmente conto.

    Salvatore Marano, Catania 1 settembre 2017

    Duetredue garantisce la corretta formattazione del testo su google play books e iBooks

    Performance

    dal testo al gesto

    a cura di Salvatore Marano

    DuetreduE-book

    Salvatore Marano

    ¹

    Il ventaglio e la rete. Teoria e pratica della performance

    Now your poems’ light is all

    the unending light of your presence

    in the living light of your voice.

    Jackson

    McLow

    O body swayed to music, O brightening glance,

    How can we know the dancer from the dance?

    William

    Butler

    Yeats

    1. Il testo, il gesto

    «C’è un testo in questa classe?», si chiede Stanley Fish in un saggio che ha segnato un’epoca allorché sottraeva il termine chiave della critica testuale alla intenzionalità autoriale per consegnarlo alla fenomenologia della lettura.² Ma lo spostamento dalla produzione alla ricezione implicito in codesto mutamento di prospettiva degli studi letterari era già stato ampiamente affrontato da Roland Barthes in un saggio di fondamentale importanza per la teoria novecentesca. Qui la distinzione fra il testo e l’opera³ si configurava infatti come uno dei nodi centrali del discorso su percezione e feedback, anziché su oggetto estetico e intentio auctoris; un cambio di paradigma (dall’immanenza della lectio, pur con le sue varianti, al sistema volatile dell’esecuzione) successivamente messo a punto dagli studi di narratologia. Nel lector in fabula, che ben presto da Barthes a Fish (via Eco, Iser e un numero imponente di studiosi di varia provenienza e formazione) sempre più apparirà come il co-autore di una testualità fluida e interattiva, convergono esperienze di ricerca di matrice strutturalista e post-strutturalista e, specie in Barthes ed Eco, della semiotica del testo. Nella cui prospettiva, per dirla con Marco De Marinis, la nozione estensiva di

    /testo/ designa ... ogni unità discorsiva, sia essa verbale, non-verbale, mista, che sia il risultato della coesistenza di codici diversi... e possegga i prerequisiti costitutivi di completezza e coerenza. In questa visione della testualità, un’immagine, un gruppo di immagini, è, o può essere, un testo. Una scultura, un film, un brano musicale, o una sequenza di effetti sonori formano anch’essi dei testi, o piuttosto possono essere considerati come tali.

    In questa accezione, va da sé, il testo è già compreso nel gesto; dal movimento compiuto dalla mano nell’atto dello scrivere a quello che, fra cinesica e prossemica, è il tratto distintivo delle arti performative classiche quali il teatro o il balletto, ma anche delle arti plastiche e figurative come la pittura e la scultura. «Chiaramente, dunque» aggiunge De Marinis,

    anche le unità note come performance possono essere considerate come testi, e diventare così oggetto di analisi testuale.

    Tale è per l’appunto l’ambito della ricerca trans-disciplinare che il presente lavoro a più voci si ripropone di affrontare: in modo rapsodico e niente affatto esaustivo, per l’evidente impossibilità di tracciare una mappa che si possa dire pienamente rappresentativa di un territorio immenso e più che mai in espansione, anche grazie al ruolo dei nuovi media, della rete, delle intelligenze artificiali; e attraverso letture critiche di testi ed eventi a vario titolo emblematici, significativi o più semplicemente esemplificativi di una scena dialetticamente a cavallo fra (neo-)avanguardia e (post-)modernità che per mancanza di un termine più appropriato si definirà come contemporanea, poiché compresa fra il secondo dopoguerra e i primi tre lustri del XXI secolo.

    Dalla lettura in pubblico del testo poetico (poetry reading con o senza interazione artistica, con o senza strumentazione elettronica) alla teatralizzazione collettiva della poesia sonora, dalle alchimie verbali e visuali di matrice concretista alle performance digitali, dall’improvvisazione in un concerto dal vivo al cortocircuito innescato nel teatro musicale dall’incontro fra alea cageana e iperdeterminazione kaprowiana, il testo/gesto degli eventi performativi discussi nelle pagine seguenti esiste sempre in relazione dinamica con un ur-testo; nota, spartito, canovaccio, indicazione di scena o testo compiuto in sé e veicolato da altro medium, da intendersi in vario modo quale il prodotto di una operazione compositiva definibile come scrittura e nondimeno aperta alla processualità interpretativa di vari gradi di lettura.⁶ Una scrittura, va da sé, ibrida: verbo-visiva, non di rado antagonista al supporto che la accoglie, quasi sempre a trazione fonosimbolica anziché semantico-sintattica. Una scrittura aperta, in divenire, che accoglie sistemi di notazione non-verbale e che può presentarsi in forma di scaletta o di partitura potenziale. Una scrittura rifratta in uno spettro di modalità produttive che vanno dalla libertà stocastica al vincolo combinatorio e dove l’interazione di pratiche improvvisative, che richiedono forme di fruizione cooperanti e inferenziali, ha luogo tanto al di qua quanto al di là della quarta parete. Una scrittura metamorfica, dunque, che si configura come gestualità in potentia, la cui attualizzazione attraverso il canale corporeo e/o la mediazione macchinica — qui intesa come macchina da scena, ma anche come apparato di produzione, registrazione e riproducibilità tecnica dell’evento — svela l’altro che vive rectoverso nello stesso.

    Questo ur-testo, effimero o durevole, a stampa o calligrafico, a supporto analogico o digitale, è più che un regesto narrativo-descrittivo di azioni, locuzioni, indicazioni di scena. Sia che funga da matrice generativa (lista di istruzioni o, au second degré, codice-macchina ossia linguaggio di programmazione), sia che funzioni come direttiva aperta, dove ampio spazio è lasciato all’indeterminatezza dell’impromptu (didascalie, bozzetti, annotazioni, trame da interpretare liberamente quanto a luogo, durata, modalità dell’esecuzione), il testo che precede il gesto è permeabile alla risposta attiva del pubblico e conserva traccia dell’azione materiale che lo ha prodotto prima di evolvere esso stesso in azione. Un testo performante, dunque, perché per compiersi necessita di una messa in scena; e un testo a sua volta potenzialmente investigabile secondo le teorie e le pratiche di lettura che da tre decenni e mezzo a questa parte hanno fatto il loro ingresso nei dipartimenti universitari col nome di performance studies.

    2. Performance Studies

    I performance studies nascono sull’onda della cosiddetta svolta performativa operata nelle scienze umane nella seconda metà del XX secolo. A partire da nozioni elaborate in ambiti disciplinari diversi e apparentemente irrelati, il performative turn si propone come un orientamento di ordine pragmatico che testimonia il dileguarsi di un pensiero ‘forte’ intorno al soggetto e ai suoi prodotti culturali (e, nello specifico del discorso artistico, intorno ad autore, opera, creazione originale o, se si vuole, intorno a una visione formalista dell’autonomia e dell’eteronomia dell’arte); per usare la formulazione sintetica di Tracy Davis, la svolta performativa sottoscrive l’idea che

    il comportamento individuale derivi da influenze collettive, anche inconsce, e si manifesti sotto forma di comportamento osservabile, palese e quotidiano, individuale e collettivo.

    Se il riconoscimento accademico dei performance studies è relativamente recente, le radici di un approccio controverso e non sempre riconosciuto come autonomo, per non dire legittimo, vanno tuttavia ricercate nei percorsi di revisione critica che, a partire dal secondo dopoguerra, hanno avuto luogo in seno alla sociologia, alla filosofia del linguaggio, all’antropologia e, manco a dirlo, agli studi teatrali e alla teoria della letteratura. È senz’altro possibile individuare palinsesti e antecessori anche più indietro nel tempo. Marvin Carlson ricorda a questo proposito l’idea formulata da Nikolaj Nikolaevič Evreinoff nel Teatro della vita, una raccolta di saggi apparsi in inglese nel 1927 ma composti a partire dal 1914, ossia nel pieno dell’attività dei cubofuturisti russi, secondo la quale «l’arte del teatro sarebbe pre-estetica, non estetica, per la semplice ragione che la trasformazione, in fin dei conti l’essenza di ogni arte teatrale, è più primitiva e più facile da ottenere della formazione, l’essenza delle arti estetiche».⁸ Per altro verso, la dialettica di forma e mutazione attraversa da parte a parte il pensiero sulla retorica moderna di Kenneth Burke. Il quale in A Grammar of Motives (1945) individua nella nozione iperonima di ‘drammatismo’ (dramatism) il luogo in cui converge la pentade categoriale con cui a suo dire è possibile isolare gli elementi che «entrano in gioco quando diciamo che la gente fa qualcosa, e perché lo fa»:

    ‘atto’, ciò che è stato fatto; ‘scena’, quando o dove è stato fatto; ‘agente’, chi lo ha fatto; ‘agenzia’, in che modo l’agente lo ha fatto; e ‘fine’, perché è stato fatto.

    Malgrado il fascino di una formulazione anticipatoria del teatro di Eugenio Barba (Evreinoff) e di un modello ermeneutico determinato a rovesciare i processi di produzione e fruizione del senso (Burke), è solo con le moderne scuole di pragmatica che la dialettica di fattualità e interazione diventa rilevante per la filosofia del linguaggio. A partire dalla sua teoria degli atti linguistici (1955), dove osserva come la maggior parte degli enunciati dell’esperienza quotidiana non sia di tipo constativo (perché validabile in base a un principio di verità/falsità) bensì performativo (perché il soddisfacimento o meno delle ‘condizioni di felicità’ di un atto locutorio dipenderebbe rispettivamente da un’azione o da un atto mancato del locutario), Austin elabora un modello di comunicazione linguistica nel quale la distinzione fra dire e fare tende a obliterarsi. Una prospettiva che si fa ancora più netta e articolata nella interpretazione degli speech acts proposta da Searle, che di Austin fu allievo, per cui «una teoria del linguaggio fa parte di una teoria dell’azione, semplicemente perché parlare è una forma di comportamento governata da una regola».¹⁰

    Se si pone mente al fatto che quattro anni prima dell’uscita di Is there a Text in this Class? Fish pubblicava un lungo e meditato articolo su Austin, Searle e la critica letteraria negli anni Settanta,¹¹ si comprende perché le prospettive aperte dalle investigazioni del filosofo inglese e del suo allievo di maggior talento siano alle origini dello sviluppo della moderna estetica della ricezione e del ruolo attivo del lettore. In questo senso, risulta ancora una volta decisivo il ruolo di Barthes quando propone una rivoluzione copernicana dei ruoli testuali nel saggio giustamente celebre intitolato ‘La mort de l’auteur’ (era il 1968; per inciso, l’anno in cui Richard Kostelanetz creava la categoria superordinata di theatre of mixed means, ovvero di mixed means events, con l’intenzione di dare conto di quei mezzi espressivi ancora troppo recenti per trovare posto nelle catalogazioni della critica d’arte quali gli happening, gli environments, la performance art degli anni Cinquanta e Sessanta):¹²

    un testo è fatto di scritture molteplici, provenienti da culture diverse e che intrattengono reciprocamente rapporti di dialogo, parodia o contestazione; esiste però un luogo in cui tale molteplicità si riunisce, e tale luogo non è l’autore, come sinora è stato affermato, bensì il lettore: il lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura; l’unità di un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione, anche se quest’ultima non può più essere personale: il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia; è soltanto quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito.¹³

    Senza entrare nel merito delle non trascurabili oscillazioni semantiche dei concetti di ‘autore’, ‘lettore’ (e ‘lettore ideale’), ‘opera’, ‘testo’, ‘contesto’, ‘comunità di lettura’, ‘orizzonte di attese’, ‘cooperazione interpretativa’, ‘patto narratologico’, ‘resistenza’ in studiosi di intenti e formazioni diverse quali Eco, Iser, Fetterley, Jauss, Pratt, Riffaterre, Suleiman, è evidente come la rivoluzione gerarchica nelle teorie incentrate su audience, reader-response e Receptionkritik si fondi su un approccio che nella dialettica fra testo, contesto ed extratesto, ‘attuale’ e ‘potenziale’, individua gli estremi di uno spazio discorsivo dove i confini dell’autorialità si fanno incerti e la finitezza dell’opera è posta seriamente in dubbio.

    Pur con l’indiscusso merito di avere incrinato l’ordine di un discorso fondato sulla centralità dell’autore, i limiti delle letture reader-oriented e dell’estetica della ricezione nel fare i conti con la testualità estensiva e plurale della performance stanno in un approccio che continua a guardare al prodotto più che al processo, anche se tale prodotto si attualizza grazie all’azione dinamica della lettura. E benché molto spesso Barthes rinvii il lettore a un’idea di scrittura performativa, «[a]l crocevia di ogni opera» lo studioso francese vede più il teatro di matrice letteraria e brechtiana che, poniamo, lo happening. Per il semiologo francese, osserva acutamente Henry Sayre, la pagina è quasi sempre un teatro dove l’autore in terza persona «domanda all’attore di mostrargli un corpo convinto, piuttosto d’una passione vera» (anche se a un certo punto Barthes lascia intendere che «forse la migliore scena di teatro che abbia visto» altro non fosse che una performance della vita quotidiana).¹⁴

    Quanto alla teoria degli atti linguistici, va osservato come, malgrado insista sull’idea che la logica dell’enunciato dipenda dall’interazione, Austin non si discosti mai veramente dalla visione umanistica dei processi di comunicazione verbale che già fu di William James. Come osserva Walter Cerf in una acuta recensione di How to Do Things with Words, la sua filosofia del linguaggio affonda le radici nell’idea che il linguaggio umano sia lo strumento razionale di una soggettività indivisa al servizio dei processi transattivi che hanno luogo nelle interazioni comunicative ordinarie.¹⁵ Per lo studioso inglese, infatti, l’uso del linguaggio nelle situazioni di finzione sarebbe derivativo, parodistico, non serio; poiché, ad esempio, in teatro non si assiste a un evento della vita quotidiana ma alla sua simulazione, gli atti linguistici che hanno luogo sulla scena sono esclusi dal dominio analitico perché privi di efficacia fattuale.

    È per questa ragione che per una declinazione in senso performativo degli atti linguistici si dovranno attendere i rilievi mossi ad Austin, sulla scorta di quanto aveva già fatto Jacques Derrida in polemica con Searle, da una filosofa del linguaggio di formazione lacananiana quale è Judith Butler.¹⁶ In Gender Troubles (1990) e Bodies that Matter (1993), la studiosa statunitense rimuove il concetto di speech act dalla sfera puramente linguistica per ricollocarlo in quella culturale con l’introduzione dell’idea che sesso e genere (gender) siano il risultato di convenzioni iterate e processuali. Attraversata la soglia sulla quale si era arrestato il moderno Austin, e forte della rilettura critica di categorie elaborate, fra gli altri, da Kristeva, Bourdieu, Gramsci, la postmoderna Butler mette a punto una nozione del performativo cui dà il nome di ‘performatività’ (performativity) attraverso la quale il processo identitario di (auto)rappresentazione del soggetto è letto come uno speech act.

    Per lei genere e sesso, elementi decisivi nel processo di formazione del soggetto, sarebbero ambedue costrutti culturali prodotti dall’«effetto sedimentato di un processo reiterativo o pratica rituale» che, nel tempo, «opera attraverso la reiterazione di norme».¹⁷ Non esistenti in senso ontologico, dunque, ma categorie in costante ri-definizione attraverso forme di messa in scena citazionista, mai uguale a se stessa e in assenza di un originale irrecuperabile. Laddove con singolare movimento sincretico la pragmatica incontra da un lato la coazione a ripetere e l’eterno ritorno, dall’altro l’iterabilità derridiana, nella lettura di Butler

    la performatività va intesa non come un ‘atto’ singolo o deliberato, ma, piuttosto, come la pratica reiterativa e citazionista per mezzo della quale il discorso produce gli effetti che esso nomina.¹⁸

    Per la filosofa statunitense, la pressione esercitata sul soggetto dall’egemonia della norma ideologica che tende a perpetuare se stessa è il vincolo contro il quale si costruisce l’identità e, allo stesso tempo, il suo punto di fuga. In una sorprendente e senz’altro non voluta contiguità con le poetiche generative del testo letterario fondate su contraintes e forme di restrizione estrema come quelle praticate dai sodali dell’Ouvroir de Littérature Potentielle, ciò che permette la possibilità del cambiamento nella categoria fluida di performativity è anche ciò che ne limita l’espressione sotto forma di censura o tabù:

    La dimensione ‘performativa’ del costrutto sta precisamente nella reiterazione forzata delle norme. In questo senso, quindi, non è tanto che esistano vincoli alla performatività; quanto, che i vincoli vanno ripensati come la condizione stessa della performatività. La performatività non è né gioco libero né presentazione teatrale; né può essere semplicemente equiparata alla performance. Inoltre, il vincolo non è necessariamente ciò che vincola la performatività; il vincolo è semmai ciò che incita e sostiene la performatività.

    A questo proposito, a rischio di ripetermi, sostengo che la performatività non possa intendersi al di fuori di un processo di iterabilità: una ripetizione regolare e regolata da norme. Questa ripetizione non viene eseguita da un soggetto; questa ripetizione è ciò che abilita il soggetto e costituisce la condizione temporale del soggetto. Questa ‘iterabilità’ implica che la ‘performance’ non sia un ‘atto’ o un evento singolare, ma una produzione ritualizzata, un rituale ribadito in seguito a e per mezzo di un vincolo, in seguito a e attraverso la forza del divieto e del tabù, con la minaccia che l’ostracismo e perfino la morte ne controllino e impongano la forma di produzione, ma non, insisto, determinandola completamente in anticipo.¹⁹

    I successivi contributi di Butler a una più articolata definizione della performatività — a partire da Excitable Speech (1997), dove la nozione austiniana di ‘forza illocutoria’ è utilizzata per evidenziare il continuum fra parola e azione, con riferimento al linguaggio dell’odio come pratica incitativa dell’aggressione fisica — sono tuttora al centro dell’attuale dibattito nei performance studies contemporanei, dove come è facile immaginare non mancano voci anche autorevoli del dissenso.²⁰ In primo luogo, perché parlare di performance vuol dire parlare di messa a nudo, letterale e figurata, del corpo; vuoi esibito come come icona del sacro (‘ecce homo’), vuoi inteso come costrutto culturale, psicologico, collettivo (‘corpo sociale’), simulacro identitario (‘anima e corpo’) e soglia di alterità politica, di classe, etnica, queer (‘corpo estraneo’), evidenza materiale anatomica (‘corpus delicti’), incarnazione del diritto (‘habeas corpus’), metafora dello strapotere anonimo di politica e finanza (‘corporation’), nonché sineddoche del linguaggio (‘corpora’), della produzione artistica (‘corpus poetico’) e dei suoi media (‘corpo del carattere’) o, va da sé, delle arti performative (‘corpo di ballo’).²¹ In secondo luogo, perché ogni discorso intorno a corpo, identità, interazione ricade inevitabilmente nella sfera dell’etica. Non a caso, uno studioso quale Bryan Reynolds vede proprio nella «pulsione etica»²² l’elemento unificante di un approccio trans-disciplinare che, come si è visto, nell’ultimo mezzo secolo ha visto evolvere il proprio ambito di ricerca originario da branca degli studi estetici e culturali a modello di indagine olistica in continua evoluzione.

    «Come la performance è contingente, contestata, difficile da delimitare», scrivono Henry Bihal e Sara Brady nell’introduzione alla terza edizione del loro classico manuale accademico, «così lo è il suo studio».²³ Sicché, tanto dalla tautologica e autoironica pseudo-definizione circolare elaborata dai due («i performance studies sono ciò che fanno coloro che si occupano di performance studies»),²⁴ quanto dalle categorie di ‘poetica trasversale’ ed ‘esplorazione fuggitiva’ proposte da Reynolds come complementari elementi di una «praxis investigativa in espansione» (poiché analogica e interattiva, dunque in grado di generare una «risposta adattiva in presenza di nuova informazione, di modo che la prospettiva sull’oggetto, o l’oggetto stesso, muti, e di conseguenza l’esplorazione si riconfiguri»),²⁵ emerge con chiarezza il coté empirico e induttivo, a tratti pericolosamente vicina all’eclettismo, dei performance studies nel primo decennio e mezzo del XXI secolo.

    Decisamente empiriche, anche se nate nello specifico della regia teatrale e della messa in scena, erano peraltro le riflessioni pionieristiche sulla performance di Richard Schechner che datano alla seconda metà degli anni Sessanta del secolo precedente, e che sono ben presenti a Judith Butler quando definisce la performatività come reiterazione rituale e priva di origine. È proprio a Schechner, oggi sempre più convinto assertore dell’idea che «il dominio della teoria per il gusto della teoria nell’accademia st[i]a per tramontare»,²⁶ che si deve la prima sistematica delimitazione degli ambiti della performance in un numero imponente di saggi, articoli e monografie dove «la relazione fra lo studio della performance e la pratica della performance è integrale»;²⁷ in particolare, nel volume nato della convergenza di idee derivate non già da pragmatica, post-femminismo, psicoanalisi, ma dall’incontro fra gli studi teatrali e la sociologia, l’antropologia, la psicologia, dal titolo programmaticamente accademico di performance theory.²⁸

    3. Performance Theory

    Direttore dal 1962 della prestigiosa Drama Review, co-fondatore nel 1967 del Performance Group (PG, poi confluito nel Wooster Group di Elisabeth LeCompte e Spalding Gray), attivo sulla scena Off-Off Broadway presso il Performing Garage di SoHo, regista di una rivoluzionaria messa in scena col PG delle Baccanti di Euripide (Dionysus in 69), docente di studi teatrali presso la New York University dove dà vita al pionieristico

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