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L'ascensore
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E-book167 pagine1 ora

L'ascensore

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Info su questo ebook

Nel pomeriggio di una gelida domenica di gennaio del 1970 un brutale delitto scuote un condominio del centro storico di Ferrara mentre il paese si trova ancora sotto choc per la Strage di Piazza Fontana. L’assassino sembra essere svanito nel nulla e, l’unico testimone, la dodicenne Alice, si dimostra confusa e incerta nel riconoscere l’autore dell’efferato delitto. Il commissario Monaldi ben presto scopre che dietro la vita apparentemente tranquilla di un condominio del centro si cela un'inspiegabile omertà. La stessa vittima, uno stimato avvocato in pensione, sembra nascondere molti segreti, così come tutti gli altri condomini. Chi poteva compiere un omicidio così spietato in presenza di una ragazzina? Niente è come sembra, troppi moventi e troppi interessi si intrecciano e Monaldi ben presto si renderà conto che le indagini si stanno allontanando dal vero obiettivo e che la realtà, completamente diversa da ciò che appare, lo costringerà a rivedere il proprio punto di vista. Un dubbio assillante lo martella: perchè Alice si trovava lì?
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2020
ISBN9788831655033
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    Anteprima del libro

    L'ascensore - Alessandro Fogli

    633/1941.

    FER­RA­RA, DO­ME­NI­CA 11 GEN­NA­IO 1970

    Gian­ni ave­va ac­cet­ta­to mal­vo­len­tie­ri l’in­vi­to di Er­ne­sto.

    I due era­no ami­ci fin da ra­gaz­zi­ni, quan­do abi­ta­va­no a Mi­glia­ro, poi ognu­no ave­va se­gui­to la pro­pria stra­da. En­tram­bi si tra­sfe­ri­ro­no a Fer­ra­ra al­la fi­ne de­gli an­ni cin­quan­ta. Gian­ni Mo­rel­li, ti­to­la­re di una au­to­car­roz­ze­ria, ave­va mes­so su fa­mi­glia, men­tre Er­ne­sto Bi­ghi, fi­glio di ge­ni­to­ri ab­bien­ti, non si era mai sen­ti­to pron­to per fa­re il gran­de pas­so. Po­te­va per­met­ter­si di vi­ve­re in mo­do agia­to ge­sten­do le pro­prie­tà im­mo­bi­lia­ri ere­di­ta­te dai ge­ni­to­ri. Sen­za con­di­vi­der­le con nes­su­no.

    La gior­na­ta era gri­gia e fred­da e Gian­ni avreb­be pre­fe­ri­to di gran lun­ga pas­sar­la da­van­ti al­la te­le­vi­sio­ne con la sua fa­mi­glia.

    Non se l’era sen­ti­ta di ri­fiu­ta­re l’in­vi­to an­che per la se­rie­tà del­la mo­ti­va­zio­ne.

    Un lo­ro ami­co d’in­fan­zia, tra­sfe­ri­to­si a To­ri­no per mo­ti­vi di la­vo­ro, ave­va per­so la mo­glie do­po una lun­ga ma­lat­tia e do­ve­va­no or­ga­niz­zar­si per re­car­si al fu­ne­ra­le.

    Era so­lo me­tà po­me­rig­gio, ma era già qua­si buio.

    Ave­va cam­mi­na­to per tut­to il via­le Ca­vour e or­mai era giun­to in lar­go Ca­stel­lo.

    Er­ne­sto abi­ta­va al nu­me­ro quat­tro di cor­so Er­co­le I° d’Este, po­chi me­tri an­co­ra e Gian­ni sa­reb­be ar­ri­va­to a de­sti­na­zio­ne.

    Il mas­sic­cio por­to­ne in le­gno era al­leg­ge­ri­to da una lie­ve strom­ba­tu­ra che gli con­fe­ri­va una so­bria ele­gan­za sol­le­van­do­lo dal pia­no del mar­cia­pie­de.

    Fu­ro­no suf­fi­cien­ti po­chi se­con­di di at­te­sa e dal ci­to­fo­no si udì:

    «Chi è?»

    «So­no Gian­ni.»

    Per­ce­pi­to lo scat­to me­tal­li­co, Gian­ni non esi­tò a en­tra­re spin­gen­do con for­za il pe­san­te por­to­ne.

    Sa­lì tre gra­di­ni pri­ma di ar­ri­va­re al pia­ne­rot­to­lo ove si tro­va­va il va­no dell’ascen­so­re.

    Pre­met­te il ta­sto di chia­ma­ta do­po ave­re ti­ra­to un lun­go so­spi­ro.

    Il ru­mo­re del mo­to­re elet­tri­co, via via cre­scen­te, ne scan­di­va l’av­vi­ci­na­men­to al pia­no ter­ra.

    Gian­ni vi­de scen­de­re dall’al­to la sa­go­ma del­la ca­bi­na con la fes­su­ra tra le due an­te scor­re­vo­li che fa­ce­va fil­tra­re la fio­ca lu­ce in­ter­na.

    Un sor­do clan­go­re ne san­cì l’ar­ri­vo al pian­ter­re­no.

    Gian­ni aprì la por­ta di ac­ces­so al va­no in­ne­scan­do l’aper­tu­ra del­le due an­te.

    L’or­ro­re ina­spet­ta­to del­la sce­na che gli si pre­sen­tò di fron­te lo rag­ge­lò.

    Un uo­mo gia­ce­va in po­si­zio­ne se­mi se­du­ta con la te­sta re­cli­na­ta e gli abi­ti in­zup­pa­ti di san­gue. In pie­di, al suo fian­co, una ra­gaz­zi­na con lo sguar­do at­ter­ri­to era ri­gi­da co­me una sta­tua. Tra di lo­ro, al cen­tro dell’ascen­so­re, un col­tel­lo da cu­ci­na era an­ne­ga­to in un la­go di san­gue.

    A quel pun­to la ra­gaz­zi­na si lan­ciò tra le brac­cia dell’uo­mo che si tro­vò di fron­te.

    «Vo­glio la mam­ma!» ur­lò pian­gen­do a di­rot­to.

    «Dov’è la mam­ma? Do­ve abi­ti?»

    Do­po qual­che sin­gul­to riu­scì a di­re che abi­ta­va al ter­zo pia­no. Gian­ni non esi­tò, pre­se per ma­no la ra­gaz­zi­na e fe­ce­ro tre pia­ni tut­ti d’un fia­to. Bus­sò vio­len­te­men­te al­la por­ta igno­ran­do il cam­pa­nel­lo.

    Aprì una don­na dall’aspet­to tra­san­da­to che in­dos­sa­va un grem­biu­le spor­co e li­so.

    «Chi è lei e co­sa ci fa con mia fi­glia?» fe­ce la don­na con fa­re in­qui­si­to­rio.

    «Chia­mi im­me­dia­ta­men­te la po­li­zia, c’è sta­to un omi­ci­dio!»

    II

    Fran­co Mo­nal­di udì squil­la­re il te­le­fo­no men­tre era in ba­gno.

    Co­me ogni do­me­ni­ca era an­da­to a pran­zo da sua ma­dre. Una vol­ta rien­tra­to a ca­sa si era con­ces­so una lun­ga pas­seg­gia­ta an­che per smal­ti­re l’ab­bon­dan­te pran­zo. Do­po la cam­mi­na­ta una bel­la doc­cia era ciò che ci vo­le­va.

    Chi po­te­va es­se­re a chia­mar­lo nel tar­do po­me­rig­gio di do­me­ni­ca?

    Esclu­se la ma­dre vi­sto che era sta­to da lei po­che ore pri­ma.

    Il fi­ne set­ti­ma­na era or­mai giun­to al ter­mi­ne per­tan­to era dif­fi­ci­le che qual­che ami­co lo aves­se cer­ca­to.

    Una te­le­fo­na­ta di la­vo­ro sem­bra­va l’ipo­te­si più sen­sa­ta, ma an­che la più te­mu­ta.

    Con l'ac­cap­pa­to­io an­co­ra ad­dos­so com­po­se il nu­me­ro in­ter­no del­la que­stu­ra.

    «Pron­to so­no Mo­nal­di mi ave­te cer­ca­to?»

    «Sì com­mis­sa­rio. E’ suc­ces­so qual­co­sa di ter­ri­bi­le pro­prio qui a due pas­si.»

    Il col­le­ga del­la cen­tra­le ri­fe­rì som­ma­ria­men­te il con­te­nu­to del­la te­le­fo­na­ta giun­ta po­chi mi­nu­ti pri­ma.

    «Tra un pa­io di mi­nu­ti sa­rò lì. Al­ler­ta la scien­ti­fi­ca, an­drò sul po­sto as­sie­me a lo­ro, quin­di si fac­cia­no tro­va­re già pron­ti!»

    «Li chia­mo su­bi­to com­mis­sa­rio.»

    La bre­ve de­scri­zio­ne fat­ta dal col­le­ga del­la cen­tra­le lo fe­ce rab­bri­vi­di­re, ma nem­me­no lui sa­reb­be riu­sci­to ad im­ma­gi­na­re, an­che lon­ta­na­men­te, l’or­ro­re di ciò che avreb­be vi­sto di per­so­na.

    I fla­sh del­le mac­chi­ne fo­to­gra­fi­che ab­ba­glia­ro­no a gior­no il pia­ne­rot­to­lo no­no­stan­te fos­se­ro pun­ta­ti ver­so la ca­bi­na dell’ascen­so­re. Mo­nal­di stet­te in di­spar­te fin­ché i col­le­ghi del­la scien­ti­fi­ca non eb­be­ro fi­ni­to. Ter­mi­na­te le fo­to­gra­fie rac­col­se­ro il col­tel­lo in­se­ren­do­lo in un’ap­po­si­ta bu­sta. Pri­ma di fa­re in­ter­ve­ni­re i ne­cro­fo­ri il com­mis­sa­rio vol­le os­ser­va­re da vi­ci­no il ca­da­ve­re. La sua era una po­si­zio­ne in­na­tu­ra­le. Né se­du­to, né co­ri­ca­to nell’an­go­lo di de­stra del va­no, con la te­sta ap­pe­na re­cli­na­ta e gli oc­chi sbar­ra­ti.

    Nel frat­tem­po una col­le­ga po­li­ziot­ta ave­va rag­giun­to il ter­zo pia­no per rac­co­glie­re le pri­me in­for­ma­zio­ni e per cer­ca­re di tran­quil­liz­za­re la ra­gaz­zi­na. Gli al­tri l’avreb­be­ro rag­giun­ta pri­ma pos­si­bi­le.

    Bea­tri­ce Ruz­za era in ser­vi­zio pres­so la squa­dra mo­bi­le di Fer­ra­ra da po­co più di due an­ni. Quan­do era­no coin­vol­ti in ca­si sca­bro­si don­ne o mi­no­ri era sem­pre lei ad es­se­re in pri­ma li­nea. Il suo tat­to e la sua gen­ti­lez­za che de­ri­va­va­no dall’es­se­re ma­dre di fa­mi­glia era­no or­mai con­si­de­ra­ti in­di­spen­sa­bi­li in ca­si co­me que­sto.

    Mo­nal­di pri­ma di fa­re qual­sia­si do­man­da pre­se in di­spar­te la col­le­ga che lo rag­gua­gliò som­ma­ria­men­te sul­le quat­tro per­so­ne pre­sen­ti nell’ap­par­ta­men­to.

    «Lei è la si­gno­ra Car­la Laz­za­ri, ma­dre del­la ra­gaz­zi­na?»

    «Sì so­no la ma­dre di Ali­ce.»

    «Co­me in­tui­rà ab­bia­mo bi­so­gno di fa­re qual­che do­man­da a sua fi­glia ed è in­di­spen­sa­bi­le che sia pre­sen­te un ge­ni­to­re. Sa­rà pre­sen­te an­che la mia col­le­ga che con i mi­no­ri ci sa fa­re più di me.»

    «Ne so­no con­sa­pe­vo­le. L’uni­co ge­ni­to­re so­no io vi­sto che so­no ra­gaz­za ma­dre, ma for­se que­sto lo sa già.»

    «Sì, Bea mi ha ap­pe­na in­for­ma­to.»

    «Ci ac­co­mo­dia­mo in sa­la?» si af­fret­tò a chie­de­re la ma­dre.

    «For­se sa­reb­be me­glio nel­la stan­zet­ta di Ali­ce» in­ter­ven­ne Bea.

    «Si sen­ti­rà più a suo agio» ag­giun­se su­bi­to do­po.

    La stan­zet­ta era pic­co­la e or­di­na­ta. A si­ni­stra del­la por­ta d’in­gres­so c’era il let­to. Al suo fian­co un mi­nu­sco­lo co­mo­di­no ave­va lo spa­zio suf­fi­cien­te per una abat jour e una sve­glia con raf­fi­gu­ra­ti al­cu­ni per­so­nag­gi di Walt Di­sney. A de­stra era pre­sen­te un ar­ma­dio a due an­te con un pa­io di cas­set­to­ni al­la ba­se. Di fron­te c’era una pic­co­la fi­ne­stra che da­va sul cor­ti­le in­ter­no. Sul­le pa­re­ti li­be­re fa­ce­va­no bel­la mo­stra di sé al­cu­ni po­ster con sce­ne di car­to­ni ani­ma­ti e qual­che di­se­gno fat­to dal­la ra­gaz­zi­na.

    «Ali­ce il mio ami­co Fran­co ha bi­so­gno di far­ti qual­che do­man­da, lo sai?» dis­se Bea per in­tro­dur­re il com­mis­sa­rio. La ra­gaz­zi­na an­nuì con un ge­sto del ca­po.

    «Lui è buo­no e ci sa fa­re con i bam­bi­ni.»

    «Non so­no una bam­bi­na, ho già do­di­ci an­ni!» dis­se ri­sen­ti­ta.

    «Hai ra­gio­ne, e poi fai già la se­con­da me­dia!» sot­to­li­neò Bea cor­reg­gen­do il ti­ro.

    «Ciao Ali­ce, so­no Fran­co l’ami­co di Bea» esor­dì Mo­nal­di.

    «Ciao.»

    «Co­me va? Sei un po’ più tran­quil­la ades­so?»

    «In­som­ma...»

    «Dai or­mai tut­to è fi­ni­to.»

    «Ri­cor­di co­sa è suc­ces­so?»

    «Po­co.»

    «Co­no­sce­vi il si­gno­re che era in ascen­so­re con te?»

    «Sì, abi­ta al ter­zo pia­no co­me noi.»

    «C’era­va­te so­lo voi due?»

    «No! C’era un al­tro uo­mo.»

    «E dov’è an­da­to?»

    «E’ usci­to al se­con­do pia­no, poi non so...»

    «E’ sta­to lui a fa­re del ma­le al si­gno­re del ter­zo pia­no?»

    An­nuì so­spi­ran­do.

    «Sei si­cu­ra che fos­se un uo­mo?»

    A quel pun­to Ali­ce ap­par­ve ti­tu­ban­te.

    «Cre­do di sì...»

    «Non lo hai vi­sto in fac­cia?»

    «No.»

    «Co­me era ve­sti­to?»

    Ve­den­do la pic­co­la sfi­ni­ta da tan­te do­man­de in­ter­ven­ne Bea.

    «Sai Fran­co che Ali­ce è mol­to bra­va a di­se­gna­re?»

    «Dav­ve­ro?» dis­se Mo­nal­di sen­za sa­pe­re do­ve vo­les­se ar­ri­va­re la col­le­ga.

    «Sì! E so­no si­cu­ra che se le chie­des­si­mo di far­ci un di­se­gno di un per­so­na con dei ve­sti­ti ugua­li a quel­li del­la per­so­na che c’era den­tro l’ascen­so­re, Ali­ce lo fa­reb­be! Ve­ro Ali­ce?»

    «Sì!» ri­spo­se pron­ta­men­te ab­boz­zan­do per la pri­ma vol­ta un sor­ri­so.

    A quel pun­to Bea pre­se in di­spar­te Mo­nal­di fa­cen­do­gli ca­pi­re che ba­sta­va co­sì. La ra­gaz­zi­na era or­mai trop­po pro­va­ta per con­ti­nua­re.

    Avreb­be­ro avu­to tem­po e mo­do, do­po qual­che gior­no, di por­ger­le al­tre do­man­de, se ne­ces­sa­rio.

    Il com­mis­sa­rio in­for­mò la ma­dre di Ali­ce che avreb­be sen­ti­to an­che lei nei gior­ni a ve­ni­re poi, una vol­ta usci­to dal­la ca­me­ret­ta del­la ra­gaz­zi­na, rag­giun­se Er­ne­sto e Gian­ni che era­no ri­ma­sti mo­men­ta­nea­men­te in di­spar­te.

    «Si­gno­ri do­ve­te se­guir­ci in que­stu­ra, ab­bia­mo bi­so­gno di sen­tir­vi co­me per­so­ne in­for­ma­te sui fat­ti.»

    «Ab­bia­te so­lo la pa­zien­za di at­ten­de­re un po’ per­ché dob­bia­mo fa­re un so­pral­luo­go nell’ap­par­ta­men­to del si­gnor Rus­so» si af­fret­tò a pre­ci­sa­re.

    En­tram­bi an­nui­ro­no ras­se­gna­ti. Non era cer­to la do­me­ni­ca che avreb­be­ro vo­lu­to tra­scor­re­re.

    Nel frat­tem­po an­che al­tri con­do­mi­ni del ter­zo e del quar­to pia­no era­no usci­ti nei ri­spet­ti­vi pia­ne­rot­to­li.

    Mo­nal­di col­se l’oc­ca­sio­ne per far­li iden­ti­fi­ca­re dai col­le­ghi i qua­li li in­for­ma­ro­no che avreb­be avu­to bi­so­gno di sen­tir­li nei gior­ni suc­ces­si­vi.

    L’ap­par­ta­men­to di Car­mi­ne Rus­so era di una ele­gan­za clas­si­ca.

    Un lun­go cor­ri­do­io sem­bra­va fun­ge­re da spi­na dor­sa­le dal­la qua­le si apri­va­no le va­rie stan­ze.

    La pri­ma stan­za, sul­la de­stra, era la sa­la. Il ta­vo­lo ret­tan­go­la­re, po­sto al cen­tro del­la stan­za, si ac­com­pa­gna­va con una ve­tri­net­ta e un se­crè­tai­re. Tut­ti in mo­ga­no, co­sì co­me i pie­di del di­va­no dal tes­su­to a fan­ta­sia con to­na­li­tà sul bei­ge. So­pram­mo­bi­li di pre­gio

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