L'ascensore
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Anteprima del libro
L'ascensore - Alessandro Fogli
633/1941.
FERRARA, DOMENICA 11 GENNAIO 1970
Gianni aveva accettato malvolentieri l’invito di Ernesto.
I due erano amici fin da ragazzini, quando abitavano a Migliaro, poi ognuno aveva seguito la propria strada. Entrambi si trasferirono a Ferrara alla fine degli anni cinquanta. Gianni Morelli, titolare di una autocarrozzeria, aveva messo su famiglia, mentre Ernesto Bighi, figlio di genitori abbienti, non si era mai sentito pronto per fare il grande passo. Poteva permettersi di vivere in modo agiato gestendo le proprietà immobiliari ereditate dai genitori. Senza condividerle con nessuno.
La giornata era grigia e fredda e Gianni avrebbe preferito di gran lunga passarla davanti alla televisione con la sua famiglia.
Non se l’era sentita di rifiutare l’invito anche per la serietà della motivazione.
Un loro amico d’infanzia, trasferitosi a Torino per motivi di lavoro, aveva perso la moglie dopo una lunga malattia e dovevano organizzarsi per recarsi al funerale.
Era solo metà pomeriggio, ma era già quasi buio.
Aveva camminato per tutto il viale Cavour e ormai era giunto in largo Castello.
Ernesto abitava al numero quattro di corso Ercole I° d’Este, pochi metri ancora e Gianni sarebbe arrivato a destinazione.
Il massiccio portone in legno era alleggerito da una lieve strombatura che gli conferiva una sobria eleganza sollevandolo dal piano del marciapiede.
Furono sufficienti pochi secondi di attesa e dal citofono si udì:
«Chi è?»
«Sono Gianni.»
Percepito lo scatto metallico, Gianni non esitò a entrare spingendo con forza il pesante portone.
Salì tre gradini prima di arrivare al pianerottolo ove si trovava il vano dell’ascensore.
Premette il tasto di chiamata dopo avere tirato un lungo sospiro.
Il rumore del motore elettrico, via via crescente, ne scandiva l’avvicinamento al piano terra.
Gianni vide scendere dall’alto la sagoma della cabina con la fessura tra le due ante scorrevoli che faceva filtrare la fioca luce interna.
Un sordo clangore ne sancì l’arrivo al pianterreno.
Gianni aprì la porta di accesso al vano innescando l’apertura delle due ante.
L’orrore inaspettato della scena che gli si presentò di fronte lo raggelò.
Un uomo giaceva in posizione semi seduta con la testa reclinata e gli abiti inzuppati di sangue. In piedi, al suo fianco, una ragazzina con lo sguardo atterrito era rigida come una statua. Tra di loro, al centro dell’ascensore, un coltello da cucina era annegato in un lago di sangue.
A quel punto la ragazzina si lanciò tra le braccia dell’uomo che si trovò di fronte.
«Voglio la mamma!» urlò piangendo a dirotto.
«Dov’è la mamma? Dove abiti?»
Dopo qualche singulto riuscì a dire che abitava al terzo piano. Gianni non esitò, prese per mano la ragazzina e fecero tre piani tutti d’un fiato. Bussò violentemente alla porta ignorando il campanello.
Aprì una donna dall’aspetto trasandato che indossava un grembiule sporco e liso.
«Chi è lei e cosa ci fa con mia figlia?» fece la donna con fare inquisitorio.
«Chiami immediatamente la polizia, c’è stato un omicidio!»
II
Franco Monaldi udì squillare il telefono mentre era in bagno.
Come ogni domenica era andato a pranzo da sua madre. Una volta rientrato a casa si era concesso una lunga passeggiata anche per smaltire l’abbondante pranzo. Dopo la camminata una bella doccia era ciò che ci voleva.
Chi poteva essere a chiamarlo nel tardo pomeriggio di domenica?
Escluse la madre visto che era stato da lei poche ore prima.
Il fine settimana era ormai giunto al termine pertanto era difficile che qualche amico lo avesse cercato.
Una telefonata di lavoro sembrava l’ipotesi più sensata, ma anche la più temuta.
Con l'accappatoio ancora addosso compose il numero interno della questura.
«Pronto sono Monaldi mi avete cercato?»
«Sì commissario. E’ successo qualcosa di terribile proprio qui a due passi.»
Il collega della centrale riferì sommariamente il contenuto della telefonata giunta pochi minuti prima.
«Tra un paio di minuti sarò lì. Allerta la scientifica, andrò sul posto assieme a loro, quindi si facciano trovare già pronti!»
«Li chiamo subito commissario.»
La breve descrizione fatta dal collega della centrale lo fece rabbrividire, ma nemmeno lui sarebbe riuscito ad immaginare, anche lontanamente, l’orrore di ciò che avrebbe visto di persona.
I flash delle macchine fotografiche abbagliarono a giorno il pianerottolo nonostante fossero puntati verso la cabina dell’ascensore. Monaldi stette in disparte finché i colleghi della scientifica non ebbero finito. Terminate le fotografie raccolsero il coltello inserendolo in un’apposita busta. Prima di fare intervenire i necrofori il commissario volle osservare da vicino il cadavere. La sua era una posizione innaturale. Né seduto, né coricato nell’angolo di destra del vano, con la testa appena reclinata e gli occhi sbarrati.
Nel frattempo una collega poliziotta aveva raggiunto il terzo piano per raccogliere le prime informazioni e per cercare di tranquillizzare la ragazzina. Gli altri l’avrebbero raggiunta prima possibile.
Beatrice Ruzza era in servizio presso la squadra mobile di Ferrara da poco più di due anni. Quando erano coinvolti in casi scabrosi donne o minori era sempre lei ad essere in prima linea. Il suo tatto e la sua gentilezza che derivavano dall’essere madre di famiglia erano ormai considerati indispensabili in casi come questo.
Monaldi prima di fare qualsiasi domanda prese in disparte la collega che lo ragguagliò sommariamente sulle quattro persone presenti nell’appartamento.
«Lei è la signora Carla Lazzari, madre della ragazzina?»
«Sì sono la madre di Alice.»
«Come intuirà abbiamo bisogno di fare qualche domanda a sua figlia ed è indispensabile che sia presente un genitore. Sarà presente anche la mia collega che con i minori ci sa fare più di me.»
«Ne sono consapevole. L’unico genitore sono io visto che sono ragazza madre, ma forse questo lo sa già.»
«Sì, Bea mi ha appena informato.»
«Ci accomodiamo in sala?» si affrettò a chiedere la madre.
«Forse sarebbe meglio nella stanzetta di Alice» intervenne Bea.
«Si sentirà più a suo agio» aggiunse subito dopo.
La stanzetta era piccola e ordinata. A sinistra della porta d’ingresso c’era il letto. Al suo fianco un minuscolo comodino aveva lo spazio sufficiente per una abat jour e una sveglia con raffigurati alcuni personaggi di Walt Disney. A destra era presente un armadio a due ante con un paio di cassettoni alla base. Di fronte c’era una piccola finestra che dava sul cortile interno. Sulle pareti libere facevano bella mostra di sé alcuni poster con scene di cartoni animati e qualche disegno fatto dalla ragazzina.
«Alice il mio amico Franco ha bisogno di farti qualche domanda, lo sai?» disse Bea per introdurre il commissario. La ragazzina annuì con un gesto del capo.
«Lui è buono e ci sa fare con i bambini.»
«Non sono una bambina, ho già dodici anni!» disse risentita.
«Hai ragione, e poi fai già la seconda media!» sottolineò Bea correggendo il tiro.
«Ciao Alice, sono Franco l’amico di Bea» esordì Monaldi.
«Ciao.»
«Come va? Sei un po’ più tranquilla adesso?»
«Insomma...»
«Dai ormai tutto è finito.»
«Ricordi cosa è successo?»
«Poco.»
«Conoscevi il signore che era in ascensore con te?»
«Sì, abita al terzo piano come noi.»
«C’eravate solo voi due?»
«No! C’era un altro uomo.»
«E dov’è andato?»
«E’ uscito al secondo piano, poi non so...»
«E’ stato lui a fare del male al signore del terzo piano?»
Annuì sospirando.
«Sei sicura che fosse un uomo?»
A quel punto Alice apparve titubante.
«Credo di sì...»
«Non lo hai visto in faccia?»
«No.»
«Come era vestito?»
Vedendo la piccola sfinita da tante domande intervenne Bea.
«Sai Franco che Alice è molto brava a disegnare?»
«Davvero?» disse Monaldi senza sapere dove volesse arrivare la collega.
«Sì! E sono sicura che se le chiedessimo di farci un disegno di un persona con dei vestiti uguali a quelli della persona che c’era dentro l’ascensore, Alice lo farebbe! Vero Alice?»
«Sì!» rispose prontamente abbozzando per la prima volta un sorriso.
A quel punto Bea prese in disparte Monaldi facendogli capire che bastava così. La ragazzina era ormai troppo provata per continuare.
Avrebbero avuto tempo e modo, dopo qualche giorno, di porgerle altre domande, se necessario.
Il commissario informò la madre di Alice che avrebbe sentito anche lei nei giorni a venire poi, una volta uscito dalla cameretta della ragazzina, raggiunse Ernesto e Gianni che erano rimasti momentaneamente in disparte.
«Signori dovete seguirci in questura, abbiamo bisogno di sentirvi come persone informate sui fatti.»
«Abbiate solo la pazienza di attendere un po’ perché dobbiamo fare un sopralluogo nell’appartamento del signor Russo» si affrettò a precisare.
Entrambi annuirono rassegnati. Non era certo la domenica che avrebbero voluto trascorrere.
Nel frattempo anche altri condomini del terzo e del quarto piano erano usciti nei rispettivi pianerottoli.
Monaldi colse l’occasione per farli identificare dai colleghi i quali li informarono che avrebbe avuto bisogno di sentirli nei giorni successivi.
L’appartamento di Carmine Russo era di una eleganza classica.
Un lungo corridoio sembrava fungere da spina dorsale dalla quale si aprivano le varie stanze.
La prima stanza, sulla destra, era la sala. Il tavolo rettangolare, posto al centro della stanza, si accompagnava con una vetrinetta e un secrètaire. Tutti in mogano, così come i piedi del divano dal tessuto a fantasia con tonalità sul beige. Soprammobili di pregio