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Eudaimonia
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E-book304 pagine3 ore

Eudaimonia

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Info su questo ebook

Dopo la separazione vissuta in “Metamorfosi” i due protagonisti, nell’ultimo capitolo della loro storia, devono sottoporsi ad una nuova prova: sei mesi di lontananza perchè Tristan, l’amore finalmente riconquistato, che poco dopo la riconciliazione volerà in America per un master al prestigioso MIT di Boston. Sarà un periodo difficile per Isolde, non solo a causa della solitudine, che metterà a dura prova ancora una volta la forza di volontà e la determinazione della ragazza. Fortunatamente accanto a lei sono tornate le amiche del cuore e Manfred, il fratello maggiore di Tristan che, ancora una volta, rivestirà un ruolo fondamentale per i due innamorati.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2020
ISBN9788831603171
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    Anteprima del libro

    Eudaimonia - Irene Milani

    633/1941.

    Capitolo 1 Chi ben comincia…

    Lu­ne­dì 10 gen­na­io 2011

    Ha ini­zio di una nuo­va fa­se del­la mia vi­ta. Sei lun­ghis­si­mi me­si lon­ta­na da Tri­stan, lon­ta­na dal­la per­so­na a cui vo­glio più be­ne al mon­do. Un tem­po si­de­ra­le, una di­stan­za si­de­ra­le…

    Sei me­si da im­pie­ga­re al me­glio, per far­mi per­do­na­re da tut­ti quel­li che ho fe­ri­to nel cor­so dell’an­no scor­so.

    Ho fat­to e det­to co­se che mi pia­ce­reb­be po­ter can­cel­la­re, ma so che que­sto è im­pos­si­bi­le! Con­fi­do so­lo nel fat­to che le mie ami­che e quel­li che ho fat­to sof­fri­re, vo­lon­ta­ria­men­te, pos­sa­no di­men­ti­ca­re l’or­ri­bi­le per­so­na che ero di­ven­ta­ta.

    È in­cre­di­bi­le co­me a vol­te la sof­fe­ren­za ge­ne­ri al­tra sof­fe­ren­za. Io sta­vo ma­le e in­ve­ce di cer­ca­re aiu­to e com­pren­sio­ne, mi di­ver­ti­vo a fe­ri­re gli al­tri.

    So di non ave­re nes­su­na giu­sti­fi­ca­zio­ne, nes­su­na scu­sa; a mia di­scol­pa pos­so so­lo di­re di aver ca­pi­to i miei er­ro­ri e di es­se­re di­spo­sta a fa­re di tut­to per ri­me­dia­re.

    For­tu­na­ta­men­te il gros­so, o me­glio la par­te peg­gio­re, l’ho già fat­ta: ho già chie­sto (e ot­te­nu­to) le scu­se.

    Ma ora vo­glio fa­re di più, vo­glio di­mo­stra­re di es­se­re dav­ve­ro cam­bia­ta, di es­se­re tor­na­ta l’Isol­de buo­na e ge­ne­ro­sa che ero pri­ma.

    Pri­ma di per­de­re la mia bam­bi­na, nell’in­ci­den­te che ha ri­schia­to di por­tar­mi via an­che il ra­gaz­zo che ama­vo.

    Pri­ma di tra­sfor­mar­mi in una spe­cie di Ter­mi­na­tor dei sen­ti­men­ti, ar­ma­ta di lan­cia­raz­zi.

    Ora so­no gua­ri­ta. Il mo­stro che era in me è sta­to de­fi­ni­ti­va­men­te an­nien­ta­to: dall’amo­re di Tri­stan, dall’ami­ci­zia di Ol­ga, Ali­ce, Ce­ci­lia e Tho­mas, dal­la com­pren­sio­ne del­la non­na, dal­la com­pli­ci­tà di Stel­la, dal so­ste­gno di Man­fred.

    Tut­te per­so­ne che ave­vo fat­to sof­fri­re, de­li­be­ra­ta­men­te, e che in­ve­ce si so­no di­mo­stra­te tol­le­ran­ti e di­spo­ste al per­do­no.

    So­no in de­bi­to ver­so tut­ti lo­ro e fa­rò in mo­do di sal­dar­lo.

    Que­sto è quel­lo che scris­si, ra­pi­da­men­te sul­la mia agen­da, pri­ma di re­car­mi co­me al so­li­to, al­la sta­zio­ne di La­vis per rag­giun­ge­re l’Uni­ver­si­tà di Bol­za­no, do­ve stu­dia­vo Ar­te e De­si­gn.

    Sa­pe­vo che, pur­trop­po, quel­la mat­ti­na, co­me mol­te di quel­le che sa­reb­be­ro ve­nu­te, non avrei tro­va­to ad aspet­tar­mi Tri­stan, il mio ra­gaz­zo che abi­ta­va a po­che cen­ti­na­ia di me­tri da me.

    Abi­ta­va, il pas­sa­to, o me­glio l’im­per­fet­to, era d’ob­bli­go

    Vi­sto che da qual­che ora il suo do­mi­ci­lio era un lon­ta­no cam­pus ame­ri­ca­no. Ave­va in­fat­ti vin­to una pre­sti­gio­sa bor­sa di stu­dio di sei me­si al Mit, il Mas­sa­chus­set in­sti­tu­te of tec­no­lo­gy di Bo­ston.

    Quan­do ave­va ac­cet­ta­to noi non sta­va­mo più in­sie­me: ci era­va­mo la­scia­ti al­cu­ni me­si pri­ma, a cau­sa di al­cu­ne in­com­pren­sio­ni.

    Da un pic­co­lo li­ti­gio av­ve­nu­to ad ago­sto, per or­go­glio, la co­sa era de­ge­ne­ra­ta e non ci era­va­mo pra­ti­ca­men­te più par­la­ti fi­no al­la vi­gi­lia di Na­ta­le, quan­do io ave­vo sco­per­to del­la sua im­mi­nen­te par­ten­za, gra­zie ad una te­le­fo­na­ta del fra­tel­lo.

    Né io, né tan­to­me­no lui, ave­va­mo smes­so di amar­ci, no­no­stan­te la se­pa­ra­zio­ne.

    Ci vo­le­va­mo trop­po be­ne, ave­va­mo su­pe­ra­to trop­pi osta­co­li per but­tar via tut­to co­sì.

    Se fos­se par­ti­to, le co­se tra noi non avreb­be­ro più po­tu­to es­se­re si­ste­ma­te, quin­di mi ero fion­da­ta a ca­sa sua per chie­der­gli per­do­no, e di co­se da far­mi per­do­na­re ne ave­vo dav­ve­ro tan­te!

    Lui, in­cre­di­bil­men­te, mi ave­va ab­brac­cia­ta… ed era sta­to co­me se non ci fos­si­mo mai la­scia­ti, ma que­sto or­mai era ac­qua pas­sa­ta.

    Dal gior­no di Na­ta­le, per i quin­di­ci gior­ni che ci se­pa­ra­va­no dal­la sua par­ten­za, era­va­mo di­ven­ta­ti pra­ti­ca­men­te in­di­vi­si­bi­li, ri­tor­nan­do al no­stro an­ti­co li­vel­lo di af­fia­ta­men­to.

    Quel­la mat­ti­na, al ri­sve­glio, pro­vai im­me­dia­ta­men­te un sen­so di vuo­to, al so­lo pen­sie­ro che do­ve­va­no pas­sa­re ben 186 gior­ni pri­ma di po­ter ri­ve­de­re Tri­stan. Non ave­vo vo­glia di al­zar­mi e af­fron­ta­re la gior­na­ta, sa­pen­do di non ave­re lui ac­can­to, ma sei me­si a let­to non sa­reb­be­ro sta­ti una buo­na idea. Sei me­si…

    Mi sem­brò un’in­fi­ni­tà: co­me avrei fat­to a re­si­ste­re sen­za una par­te di me, quel­la mi­glio­re? Co­sì de­ci­si di met­te­re per iscrit­to, sul­la mia agen­da, i miei buo­ni pro­po­si­ti.

    Ol­tre a quel­li di far­mi per­do­na­re dai miei ami­ci, quel­lo più im­por­tan­te, era il vo­lon­ta­ria­to. Ave­vo in­fat­ti de­ci­so che, al­me­no per i lun­ghi me­si sen­za Tri­stan, avrei pas­sa­to il mio tem­po li­be­ro fa­cen­do un po’ di vo­lon­ta­ria­to in par­roc­chia.

    Era un mo­do per ri­con­ci­liar­mi con me stes­sa, do­po le or­ri­bi­li co­se che ave­vo fat­to l’au­tun­no pre­ce­den­te.

    Det­ta co­sì può sem­bra­re che mi fos­si tra­sfor­ma­ta in un’as­sas­si­na. No, for­tu­na­ta­men­te non ave­vo com­mes­so nes­sun rea­to, sal­vo di­re e fa­re co­se che sa­pe­vo avreb­be­ro fat­to sof­fri­re gli al­tri co­sì co­me sta­vo fa­cen­do io, per la per­di­ta del­la bam­bi­na e per la mia se­pa­ra­zio­ne da Tri­stan.

    Pri­ma di usci­re guar­dai l’ora, sull’oro­lo­gio che mi ave­va re­ga­la­to lui pri­ma di par­ti­re.

    Era par­ti­co­la­re, in quan­to ave­va due qua­dran­ti: uno ri­por­ta­va l’ora ita­lia­na, l’al­tra quel­la di Bo­ston. Qui era­no le set­te del mat­ti­no, lì mez­za­not­te. Im­pos­si­bi­le quin­di che aves­se già ri­spo­sto al­la mail che gli ave­vo man­da­to il gior­no pri­ma.

    Pro­ba­bil­men­te ar­ri­va­to, esau­sto per il viag­gio, era an­da­to su­bi­to a dor­mi­re, pen­sai. Per scru­po­lo con­trol­lai la mia ca­sel­la di po­sta. In­cre­du­la, con il cuo­re che mi bat­te­va all’im­paz­za­ta, aprii la sua mail.

    Les­si quel­le ri­ghe con le la­cri­me agli oc­chi.

    Quan­to mi man­ca­va? Era par­ti­to da un gior­no e già ero in asti­nen­za.

    Se al­me­no aves­si­mo po­tu­to guar­da­re la stes­sa lu­na, lo stes­so cie­lo, l’avrei sen­ti­to più vi­ci­no. Ma­ga­ri ave­vo vi­sto trop­pi film ame­ri­ca­ni, do­ve gli in­na­mo­ra­ti guar­da­va­no il cie­lo con­tem­po­ra­nea­men­te… ma noi non po­te­va­mo: quan­do era not­te qui, da lui era gior­no e vi­ce­ver­sa. Non po­te­va­mo con­di­vi­de­re nem­me­no quel­lo!

    Co­me avrei re­si­sti­to per ol­tre sei me­si? Non lo sa­pe­vo, in quel mo­men­to du­bi­ta­vo di riu­scir­ci.

    Gli ri­spo­si im­me­dia­ta­men­te, pri­ma di scen­de­re per la co­la­zio­ne.

    In­via­ta la mail, im­pie­gai qual­che mi­nu­to per ri­pren­der­mi dall’emo­zio­ne e per ri­cac­cia­re in­die­tro le la­cri­me che sen­ti­vo agli an­go­li de­gli oc­chi.

    Do­ve­vo es­se­re for­te, mi ri­pe­tei co­me un man­tra. Non vo­le­vo pe­sa­re su­gli al­tri con la mia tri­stez­za, non vo­le­vo sen­tir­mi co­me una pia­ga. Fe­ci un so­spi­ro e sce­si in cu­ci­na, do­ve la non­na mi aspet­ta­va per la co­la­zio­ne.

    Ero sta­ta via un me­se, aven­do de­ci­so di al­lon­ta­nar­mi da Tri­stan e tor­na­re a Bol­za­no da mia ma­dre, ma per la non­na era co­me se fos­si sem­pre sta­ta lì.

    Era il pri­mo gior­no di le­zio­ne del nuo­vo an­no e, per in­co­rag­giar­mi, vi­sta an­che la lon­ta­nan­za del mio fi­dan­za­to, ave­va pre­pa­ra­to la tor­ta al cioc­co­la­to!

    Che mi­to, mia non­na!

    No­no­stan­te aves­se sco­per­to che ama­vo il ni­po­te dell’uo­mo che era re­spon­sa­bi­le del­la mor­te del pa­dre di suo fi­glio, ov­ve­ro mio non­no bio­lo­gi­co, era riu­sci­ta (non sen­za dif­fi­col­tà) ad ac­cet­ta­re la co­sa e qua­si a vo­ler be­ne a Tri­stan.

    Que­sto per­ché vo­le­va be­ne a me e sa­pe­va quan­to io amas­si lui.

    Buon­gior­no. – mi dis­se, scom­pi­glian­do­mi i ca­pel­li col suo so­li­to ge­sto af­fet­tuo­so.

    Ciao non­na… wow, la tor­ta al cioc­co­la­to! Sta­mat­ti­na ne ho pro­prio bi­so­gno!

    Im­ma­gi­na­vo. No­ti­zie da Bo­ston?

    SI!!! Ho ap­pe­na let­to una sua mail. È ar­ri­va­to. Ora man­ca­no so­lo 185 gior­ni.

    "Co­rag­gio. Ve­drai che pas­se­rà in fret­ta.

    Lo spe­ro. Mi man­ca già da mat­ti.

    Ve­drai, lu­glio ar­ri­ve­rà pri­ma che te ne ac­cor­ga. – con­clu­se lei, dol­ce­men­te, se­den­do­si ac­can­to a me, men­tre in­gur­gi­ta­vo un’enor­me fet­ta di dol­ce.

    Pen­sai che il suo, di fi­dan­za­to, da cui aspet­ta­va un fi­glio, un gior­no era usci­to e non era più tor­na­to.

    In­car­ce­ra­to e uc­ci­so dai na­zi­sti, tra i qua­li il non­no di Tri­stan.

    Non do­ve­va es­se­re sta­to fa­ci­le per lei ac­cet­ta­re quel­la per­di­ta.

    Trop­po pre­sa dal­la mia sto­ria d’amo­re, non mi ero mai sof­fer­ma­ta a pen­sa­re sul do­lo­re im­men­so che do­ve­va aver pro­va­to mia non­na. Sfi­do che ini­zial­men­te ave­va rea­gi­to de­ci­sa­men­te ma­le al­la no­ti­zia che la sua ni­po­ti­na era in­na­mo­ra­ta di un di­scen­den­te di uno de­gli as­sas­si­ni!

    Già ave­va sof­fer­to quan­do la fa­mi­glia di Tri­stan era tor­na­ta dal­la Ger­ma­nia, fi­gu­ria­mo­ci ac­cet­ta­re il no­stro le­ga­me.

    Era sta­ta du­ra per tut­ti, ma per for­tu­na, era an­da­to tut­to per il me­glio e le due fa­mi­glie, di­vi­se da odi sto­ri­ci, era­no riu­sci­te a met­te­re da par­te il ran­co­re per il be­ne mio e di Tri­stan.

    Al­le mie spal­le sen­tii dei pas­si, era mio non­no, o me­glio il fra­tel­lo del mio ve­ro non­no.

    Quan­do mia non­na ave­va sa­pu­to di aspet­ta­re un fi­glio, lui ave­va ac­cet­ta­to di spo­sar­la, per evi­ta­re uno scan­da­lo, ma an­che per­ché era in­na­mo­ra­to di lei che, col tem­po, ave­va ri­cam­bia­to i suoi sen­ti­men­ti.

    Sta­va­no in­sie­me da più di ses­sant’an­ni e si vo­le­va­no un be­ne enor­me.

    Ciao pic­co­la – mi dis­se, se­den­do­si, con l’aria an­co­ra un po’ad­dor­men­ta­ta. Di so­li­to si al­za­va più tar­di – ti ac­com­pa­gno a Bol­za­no?

    Non c’è bi­so­gno… un mi­nu­to e so­no pron­ta. – ri­spo­si, fis­san­do­lo stu­pi­ta

    Se pre­fe­ri­sci non pren­de­re il tre­no… – chie­se lui, con evi­den­te ri­fe­ri­men­to all’as­sen­za di Tri­stan.

    Gra­zie per il pen­sie­ro, non­no. Ma de­vo far­ci l’abi­tu­di­ne a non tro­var­lo lì ad aspet­tar­mi…

    Che pen­sie­ro gen­ti­le ave­va­no avu­to, sta­vo per com­muo­ver­mi: la se­con­da vol­ta in me­no di mezz’ora.

    Ma do­ve­vo es­se­re for­te, non far­mi ab­bat­te­re dal­le pri­me dif­fi­col­tà. In fon­do era so­lo il pri­mo gior­no sen­za Tri­stan. So­lo a pen­sar­ci mi pren­de­va il pa­ni­co.

    Fi­nii la co­la­zio­ne e cor­si di so­pra a pren­de­re la bor­sa, per poi fion­dar­mi fuo­ri, nel ge­lo dell’in­ver­no.

    Ar­ri­vai all’uni­ver­si­tà, in­fred­do­li­ta, do­po il so­li­to viag­gio in tre­no pas­sa­to a leg­ge­re, cer­can­do di non pen­sa­re al fat­to che lui non era lì con me; nell’atrio mi at­ten­de­va il pic­chet­to d’ono­re.

    Ali­ce, Ce­ci­lia, Ol­ga e Tho­mas era­no lì ad aspet­tar­mi. Era tan­to tem­po, da quan­do Ol­ga e Tom si era­no la­scia­ti che il no­stro grup­po si era un po’ per­so, per non par­la­re poi di quan­do era fi­ni­ta an­che tra me e Tri­stan: un ve­ro sfa­ce­lo.

    For­tu­na­ta­men­te ero riu­sci­ta a ri­con­qui­sta­re l’af­fet­to e la fi­du­cia di tut­ti i miei ami­ci, che mi ac­col­se­ro sor­ri­den­ti, ab­brac­cian­do­mi. L’in­ten­to era chia­ro, far­mi sen­ti­re me­no so­la.

    Ab­bia­mo pen­sa­to che, sic­co­me pre­ve­ni­re è me­glio che cu­ra­re, pri­ma che ti tra­sfor­mi nuo­va­men­te in una spe­cie di Ter­mi­na­tor, è me­glio che ti te­nia­mo d’oc­chio… – mi spie­gò Ce­ci­lia, con un sor­ri­so ma­li­zio­so sul vi­so.

    Vo­glia­mo con­trol­la­re che tu non di­ven­ti nuo­va­men­te una psi­co­pa­ti­ca co­me nei me­si pas­sa­ti – ag­giun­se Ol­ga, ma­no nel­la ma­no con Tom, fi­nal­men­te an­che lo­ro si era­no ri­tro­va­ti – quin­di ti sta­re­mo vi­ci­ni, al­me­no fi­no a che lui non ri­tor­na…

    Gra­zie ra­gaz­ze e Tom, ov­via­men­te. Non po­trei chie­de­re de­gli ami­ci mi­glio­ri. – ri­spo­si io, com­mos­sa. E tre! Or­mai ave­vo la la­cri­ma ta­sca­bi­le. La mi­ni­ma emo­zio­ne e ri­schia­vo di inon­da­re tut­to.

    No­no­stan­te mi fos­si com­por­ta­ta da schi­fo con lo­ro, so­prat­tut­to con Ol­ga (ave­vo ini­zia­to ad usci­re col suo ra­gaz­zo, an­che se all’epo­ca era il suo ex) era­no riu­sci­ti a per­do­nar­mi.

    L’hai già sen­ti­to? – mi do­man­dò poi Ce­ci­lia, sco­stan­do­si una cioc­ca di ca­pel­li dal vi­so sor­ri­den­te: era de­ci­sa­men­te spet­ti­na­ta per col­pa del pe­san­te cap­pel­lo in­ver­na­le che in­dos­sa­va.

    Io gli ho man­da­to una mail ie­ri e, sta­mat­ti­na, ho tro­va­to la sua ri­spo­sta. È ar­ri­va­to, tut­to be­ne. Gli man­co. – sin­te­tiz­zai, in­ca­pa­ce di ag­giun­ge­re al­tro sen­za ri­schia­re di far­mi ve­ni­re le la­cri­me agli oc­chi un’al­tra vol­ta.

    Co­rag­gio – mi mor­mo­rò Ol­ga all’orec­chio, ab­brac­cian­do­mi nuo­va­men­te – ve­drai che in un at­ti­mo pas­sa­no… scom­met­to che stai con­tan­do i gior­ni, e for­se an­che le ore, co­me tuo so­li­to!

    Ef­fet­ti­va­men­te sì – am­mi­si, con un ve­lo di ma­lin­co­nia nel­la vo­ce – ma più che al­tro sto cer­can­do di te­ner­mi im­pe­gna­ta… Mi man­ca da mo­ri­re, non so co­me fac­cio a re­si­ste­re, sen­za sen­ti­re la sua vo­ce, co­sì ho de­ci­so che vo­glio ini­zia­re a fa­re un po’ di vo­lon­ta­ria­to!

    Se vuoi c’è ca­me­ra mia da si­ste­ma­re – in­ter­ven­ne Tom, con una del­le sue so­li­te bat­tu­te: era sem­pre ca­pa­ce di sdram­ma­tiz­za­re an­che le si­tua­zio­ni più tri­sti: gli vo­le­vo un gran be­ne an­che per que­sto – poi co­no­sco qual­che gio­va­not­to che avreb­be bi­so­gno di un po’ di com­pa­gnia…

    Cre­do sia ora di an­da­re a le­zio­ne – dis­se Ali­ce, pren­den­do sot­to­brac­cio Ce­ci­lia che fre­quen­ta­va la sua stes­sa fa­col­tà, in­ter­rom­pen­do a ma­lin­cuo­re quell’at­ti­mo di se­re­ni­tà – ci ve­dia­mo a pran­zo in men­sa?

    Ok! – ci sa­lu­tam­mo, di­ri­gen­do­ci ognu­no ver­so la pro­pria au­la.

    La pri­ma gior­na­ta di uni­ver­si­tà sen­za Tri­stan, la pri­ma di tan­te pur­trop­po, tra­scor­se sen­za trop­pi pro­ble­mi. Cer­to, sen­ti­vo la sua man­can­za, ma es­sen­do piut­to­sto im­pe­gna­ta, riu­sci­vo an­che a non con­ti­nua­re a pen­sa­re a lui.

    Aven­do per­so pa­rec­chi gior­ni di le­zio­ne pri­ma di Na­ta­le, a cau­sa del­la brut­ta in­fluen­za che ave­vo pre­so, do­vet­ti fa­ti­ca­re pa­rec­chio per ri­met­ter­mi in pa­ri.

    For­tu­na­ta­men­te Ol­ga, seb­be­ne al­lo­ra non ci par­las­si­mo nem­me­no, ave­va pre­so gli ap­pun­ti più ac­cu­ra­ta­men­te del so­li­to e li ave­va già fo­to­co­pia­ti, in­sie­me al ma­te­ria­le che era sta­to di­stri­bui­to dai va­ri do­cen­ti.

    Era un’ami­ca splen­di­da, com­pren­si­va e so­prat­tut­to lun­gi­mi­ran­te!

    Gra­zie, dav­ve­ro – le dis­si al ter­mi­ne dell’ul­ti­ma le­zio­ne, men­tre ri­po­ne­vo il qua­der­no de­gli ap­pun­ti nel­la bor­sa e mi ap­pre­sta­vo a rag­giun­ge­re la sta­zio­ne – sie­te sta­ti tut­ti ec­ce­zio­na­li. Io in­ve­ce…

    Dai, ora ba­sta! – mi in­ter­rup­pe lei, dan­do­mi un leg­ge­ro pu­gno sul­la spal­la – Ci hai chie­sto scu­sa a suf­fi­cien­za! Cer­to, non sei sta­ta un mo­del­lo di cor­ret­tez­za e di bon­tà, ma tu sei sem­pre sta­ta ge­ne­ro­sa e di­spo­ni­bi­le con tut­ti. Una vol­ta che ave­vi bi­so­gno di aiu­to, non sia­mo sta­ti in gra­do di ca­pir­ti. Pen­sa­va­mo che, una vol­ta che il tuo le­ga­me con Tri­stan fos­se sta­to ac­cet­ta­to, i vo­stri pro­ble­mi fos­se­ro fi­ni­ti. Ti ve­de­vo ma­lin­co­ni­ca a vol­te e, ti di­co la ve­ri­tà, pro­prio non ca­pi­vo per­ché. Mi fa­ce­vi in­ner­vo­si­re, pen­sa­vo aves­si tut­to, in­ve­ce…

    Già, la pic­co­la Sis­si – mor­mo­rai io, men­tre la so­li­ta fit­ta al cuo­re mi pren­de­va, co­me ogni vol­ta che pen­sa­vo al­la bim­ba che ave­vo per­so nell’in­ci­den­te e che non sa­pe­vo nem­me­no di aspet­ta­re – avrei do­vu­to par­lar­ne su­bi­to, con Tri­stan e con voi ma non riu­sci­vo, era trop­po!

    Non pen­sar­ci. Im­ma­gi­no sia du­ra, an­co­ra og­gi, da af­fron­ta­re. Ma tu sei for­te: guar­da quan­ti osta­co­li hai su­pe­ra­to, gli ul­ti­mi an­che da so­la. Se qual­che vol­ta ti sen­ti giù, ti pre­go, chia­ma­mi. Per qua­lun­que co­sa. An­che ba­na­le. Non te­ner­ti più tut­to den­tro ok? Non de­vi di­mo­stra­re nien­te. Lui ti man­ca, lo sap­pia­mo, quin­di chia­ma­ci pu­re per sfo­gar­ti.

    Gra­zie. – fu l’uni­ca co­sa che riu­scii a di­re, sen­za scop­pia­re a pian­ge­re.

    Poi ab­brac­ciai Ol­ga: nel frat­tem­po era­va­mo ar­ri­va­te nell’atrio, do­ve le al­tre ci aspet­ta­va­no.

    Ciao, a do­ma­ni! – le sa­lu­tai, av­vian­do­mi ver­so la sta­zio­ne, in­fa­got­tan­do­mi nel giac­co­ne.

    Ah, ti sa­lu­ta lo spe­zia­le – mi gri­dò Tom, ve­den­do il mio vi­so un po’ tri­ste – di­ce che è un po’ che non ti ve­de!

    Mi vol­tai, con un sor­ri­so stam­pa­to sul vol­to, scrol­lan­do il ca­po in se­gno di com­pa­ti­men­to.

    Al­me­no era riu­sci­to a far­mi ri­de­re, co­me al so­li­to.

    Era sta­to lui a far­mi ri­sa­li­re dal ba­ra­tro in cui ero spro­fon­da­ta, l’au­tun­no pre­ce­den­te: gra­zie a pic­co­li sor­ri­si era riu­sci­to a far­mi gua­ri­re, a far­mi tor­na­re l’Isol­de di sem­pre.

    Era la sua ca­rat­te­ri­sti­ca, sdram­ma­tiz­za­va tut­to, fa­cen­do sem­bra­re i pro­ble­mi un po’ più pic­co­li e fa­ci­li da ri­sol­ve­re e in quel mo­men­to ne ave­vo pro­prio bi­so­gno.

    Ar­ri­vai a ca­sa esau­sta. Era da tan­to che non an­da­vo a le­zio­ne par­ten­do da La­vis: l’ul­ti­mo me­se ave­vo vis­su­to (se co­sì si può di­re) a Bol­za­no, da mia ma­dre. Era sta­to il pe­rio­do più brut­to del­la mia vi­ta, che ave­va se­gna­to una net­ta se­pa­ra­zio­ne da tut­to quel­lo che mi era ca­ro: ami­ci, fa­mi­glia, fi­dan­za­to, ma al­me­no mi ri­spar­mia­vo il viag­gio in tre­no!

    Ce­nai, an­che se non ave­vo mol­to ap­pe­ti­to, ma ave­vo pro­mes­so a Tri­stan che avrei ri­pre­so al­me­no un po’ di quei qua­si die­ci chi­li che nel cor­so dell’an­no pre­ce­den­te ave­vo per­so.

    Il col­po di gra­zia me lo ave­va da­to la re­cen­te in­fluen­za, che ave­va por­ta­to il mio pe­so (già scar­so) ai mi­ni­mi sto­ri­ci. Fi­ni­to di man­gia­re, ri­ma­si un po’ coi non­ni in sa­la, men­tre lo­ro be­ve­va­no il caf­fè, poi mi ri­fu­giai nel­la mia stan­zet­ta.

    Ave­vo bi­so­gno di sta­re un po’ da so­la.

    Cer­to, i non­ni e le mie ami­che era­no in­di­spen­sa­bi­li per sop­por­ta­re quel­la si­tua­zio­ne, ma ave­vo an­che la ne­ces­si­tà di iso­lar­mi, di per­der­mi nei miei pen­sie­ri sen­za ri­schia­re di sem­bra­re aso­cia­le.

    La pri­ma co­sa che fe­ci fu ac­cen­de­re il com­pu­ter, l’uni­ca for­ma di con­tat­to con Tri­stan. C’era una sua mail, mi ave­va già ri­spo­sto! Al set­ti­mo cie­lo ini­ziai a leg­ge­re, sen­ten­do­lo più vi­ci­no a me.

    Men­tre leg­ge­vo quel­le po­che ri­ghe, che pe­rò ave­va­no un gran­de si­gni­fi­ca­to, non riu­sci­vo a smet­te­re di pian­ge­re: le co­se che mi scri­ve­va era­no dav­ve­ro bel­le, dol­ci e ro­man­ti­che, ma acui­va­no il mio sen­so di so­li­tu­di­ne.

    Era dav­ve­ro dif­fi­ci­le sop­por­ta­re il di­stac­co, so­prat­tut­to do­po una se­pa­ra­zio­ne di tre me­si du­ran­te i qua­li ci era­va­mo pra­ti­ca­men­te igno­ra­ti. O me­glio: io lo ave­vo evi­ta­to, lo ave­vo fat­to sof­fri­re. Mi ero com­por­ta­ta co­me una bam­bi­na: or­go­glio­sa e ca­pric­cio­sa. Sta­vo ma­le io? Be­nis­si­mo, che gli al­tri pro­vas­se­ro le mie stes­se sof­fe­ren­ze!

    In­ve­ce che cer­ca­re con­for­to ne­gli ami­ci, in Tri­stan, nei non­ni, ave­vo fat­to di tut­to per fe­rir­li; so­prat­tut­to con il mio fi­dan­za­to ero sta­ta dav­ve­ro in­giu­sta.

    Tut­ti lo­ro, ma Tri­stan più di tut­ti, ave­va­no ca­pi­to (o ci ave­va­no pro­va­to) e mi ave­va­no per­do­na­ta.

    Sa­pe­vo di non me­ri­ta­re

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