Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Egemonia Culturale e Populismo Mediale: Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini: Dalla tv pubblicitaria ai social media
Egemonia Culturale e Populismo Mediale: Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini: Dalla tv pubblicitaria ai social media
Egemonia Culturale e Populismo Mediale: Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini: Dalla tv pubblicitaria ai social media
E-book495 pagine6 ore

Egemonia Culturale e Populismo Mediale: Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini: Dalla tv pubblicitaria ai social media

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La tv pubblicitaria dagli anni 80 ha potenziato l’egemonia culturale degli inserzionisti capitalistici e insieme ha trasformato la politica in spettacolo favorendo il successo di leader populisti. I social media hanno proseguito questa tendenza. La tv ha contribuito a formare intere generazioni al talking, all’entertainment e all’esibizione competitiva del corpo e della mente, e il reality è stato uno dei perni del passaggio dall’ambiente tv a quello social. I reality sono stati tra i primi programmi commentati sui social e molti social sono diventati una sorta di reality autogestito. Tv commerciale, rotocalchi e social media però sono stati semplicemente un veicolo per i leader populisti, aiutati da potenti apparati digitali. Nel saggio, media e social media sono presentati beninteso come collegati a tendenze strutturali complesse, e si prendono anche in considerazione i movimenti d’opposizione e di resistenza. Il momento attuale pare caratterizzato dalla carenza di un’egemonia chiara, di un centro.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2020
ISBN9788835390107
Egemonia Culturale e Populismo Mediale: Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini: Dalla tv pubblicitaria ai social media

Correlato a Egemonia Culturale e Populismo Mediale

Ebook correlati

Scienze sociali per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Egemonia Culturale e Populismo Mediale

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Egemonia Culturale e Populismo Mediale - Federico Repetto

    Note

    Introduzione

    L’OGGETTO DI QUESTO LIBRO: L’EGEMONIA DEGLI INSERZIONISTI PUBBLICITARI IN ITALIA NEGLI ANNI 80 E OGGI. COME I MEDIA COMMERCIALI, DALLA TV AI SOCIAL NETWORK, POSSONO INFLUIRE SULLA FORMAZIONE DEL CITTADINO

    1. Il problema di partenza: la tv commerciale dentro il processo educativo

    La televisiùn la g’ha ‘na forsa de leùn... la televisiùn la t’endormenta cume un cuiùn – cantava Jannacci alla fine degli anni settanta, agli albori della cosiddetta *neotelevisione. Nel 1999 Mario Morcellini, sociologo dei media e dell’educazione, invece avrebbe pubblicato, in polemica con vari pedagogisti e psicologi, un volumetto dal titolo provocatorio: La televisione fa bene ai bambini.La questione oggi può parere superata, con il declino della stessa televisione*generalista *broadcast, calata dall’alto sul pubblico: ormai –a causa soprattutto dei canali tematici e di Internet– sono sostanzialmente diminuiti quelli che la imbandiscono sulla propria tavola come piatto unico della loro dieta mediatica. Ma nella nostra cultura popolare la tv resta comunque molto importante.

    Inoltre la pubblicità, che era l’anima e la forza propulsiva delle tv commerciali, e si è prontamente trasferita nei nuovi media, ha preso diverse forme nuove (si pensi alla pubblicità per telefono) e ci avvolge letteralmente perfino sui mezzi di trasporto (certi autobus e treni sono fasciati dalla pubblicità anche all’esterno, finestrini compresi).

    Dunque, per capire meglio la situazione attuale della cultura popolare, è importante cercare prima di comprendere il ruolo della neotelevisione commerciale egemonizzata dalla pubblicità nella formazione dei consumatori e soprattutto dei cittadini alla vigilia della nascita della cosiddetta *Seconda Repubblica.

    Esporrò i risultati delle analisi di diversi scienziati sociali che hanno studiato la neotelevisione italiana al momento della sua origine negli anni ottanta, per mostrare, su questa base, che era possibile comprendere la sua futura importanza per tale formazione. Ma, a parte alcuni casi virtuosi, si può dire che il problema del rapporto neotelevisione-educazione sia stato in gran parte sottovalutato o addirittura rimosso dalle scienze sociali. Certo, le precedenti teorie forti degli effetti dei media si erano dimostrate in gran parte inadeguate; tuttavia la rimozione probabilmente era soprattutto in relazione con l’atteggiamento ottimistico nei confronti dei nuovi sviluppi del capitalismo e del liberalismo che si stava diffondendo.

    Per una visione retrospettiva delle teorie degli effetti dei media , si possono leggere Wolf 1992 e Bentivegna 2003.

    La tv ovviamente non ha nessun effetto ipnotico e non fa cambiare opinione con un lavaggio del cervello. La questione è più complessa. Impiegando un termine tipico della pedagogia, si può dire che negli anni 80 in Italia la tv commerciale alimentata dalla pubblicità(Rai inclusa) sia diventata un curriculum educativo.L’educazione di una grandissima parte dei nuovi cittadini cominciò a passare allora massicciamente attraverso tale curriculum televisivo, visto che le ore medie di televisione per moltissimi bambini e ragazzi erano ormai più o meno equivalenti nella quantità a quelle di scuola.

    Questo non significa però che gli effetti dell’educazione televisiva siano massicci, automatici e inevitabili. Piuttosto il suo progressivo ruolo nella formazione si è venuto affermando proprio mentre quello dei genitori, degli adulti in genere e della scuola pubblica stava declinando per molteplici fattori. Ciò poneva, in ultima analisi, una questione di democrazia.

    In che senso? Certo, l’onere e la responsabilità di formare nuovi cittadini in una democrazia liberale appartiene in prima istanza alle famiglie e alla scuola pubblica, anche se ci si aspetta dalla società civile, luogo privilegiato del libero scambio di opinioni, un contributo importantissimo di conoscenze e di proposte di valori e di stili di vita. Di questo luogo privilegiato fanno parte la conversazione tra minori coetanei (co-educazione tra pari, o peer education) e la conversazione tra i minori e gli adulti in generale, in ambito associativo o in ambito informale; ma ne fa parte anche il mondo dei media commerciali nel suo complesso. E questo è il punto.

    Non si tratta solo della quantità crescente di pubblicità presente nella programmazione della neotelevisione, dentro il cosiddetto *palinsesto: proprio il palinsesto stesso risultava in gran parte condizionato nei suoi programmi dalle esigenze degli inserzionisti (come vedremo nel cap. 3 e nel cap. 4, § 3). Perciò si può dire che da quel momento il mondo dell’imprenditoria abbia acquistato un peso straordinario nella propostadi valori e stili di vita destinata al curriculum televisivo. Un peso sempre più grande in proporzione a quello delle famiglie e della scuola pubblica.

    Invece furono debolmente supportati e poi fallirono completamente i programmi dell’accesso della Rai, che avrebbero dovuto permettere ad associazioni e a minoranze culturali di far sentire la loro voce.

    I programmi dell’accesso - programmi della televisione pubblica aperti alla partecipazione delle forze sociali, previsti dalla riforma della Rai del 1975 - furono trasmessi solo a livello nazionale, anche se in origine erano previsti a livello regionale. Essi avevano il formato tradizionale e poco attraente delle tribune politiche (programmi elettorali ufficiali della Rai) o dei tg di allora. Il sociologo Achille Ardigo, incaricato di dirigere un‘inchiesta su di essi (e sul loro sostanziale fallimento) denuncerà la loro mancata realizzazione in ambito regionale, la burocratizzazione delle procedure per ottenere l’accesso, la presenza sproporzionata in essi di organizzazioni semi-ufficiali che avrebbero avuto altre possibilità di espressione, e infine il formato troppo tradizionale, legato anche alla mancanza di esperienza delle associazioni e alla mancanza di assistenza nel confezionamento delle trasmissioni da parte delle strutture Rai. Cfr. La partecipazione negata(a c. di A. Ardigò, 1987, in particolare pp. 9-15).

    2. Il controllo del palinsesto tv e l’egemonia culturale degli inserzionisti pubblicitari

    Non sottolineo, lo ripeto, questo peso degli inserzionisti per porre un problema di manipolazione: l’educazione è per sua natura un rapporto unilaterale, in cui le vecchie generazioni hanno l’ iniziativae quelle nuove sono gettate in un mondo il cui sensoè stato già elaborato da quelle precedenti – anche se non si può sapere come reagiranno gli educati. Voglio invece in primo luogo sollevare una questione di eguaglianza dei cittadini e di equo accesso alla partecipazione alla vita sociale, richiesto dal comma 2° dell’articolo 3 della nostra Costituzione:

    E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

    Nell’opinione pubblica c’è un’evidente sproporzione tra l’intervento educativo di chi non dispone che della propria voce e della propria cultura e quello di chi dispone del palinsesto televisivo. Più in generale, l’influenza eccessiva di un’élite o di un gruppo sociale contemporaneamente in diverse sfere di beni sociali (in questo caso economia e media), costituisce un pericolo per gli equilibri basilari della giustizia e per l’essenza stessa di una società democratica, come argomentò magistralmente il filosofo americano liberal Michael Walzer in Sfere di giustizia.

    Tra l’altro egli riportava l’esempio della città di Pullman, in Illinois fatta costruire tra il 1880 e il 1882 da George Pullman secondo un unico piano urbanistico, comprendente galleria dei negozi, teatro, chiesa e scuola, per affittarne le case agli operai delle sue grandi officine ferroviarie. Anche se gli operai di Pullman non erano tenuti ad abitare proprio lì, chi ci abitava doveva rispettare le norme imposte dalla proprietà che funzionava come una sorta di potere pubblico. Nel 1898 la Corte Suprema dell’Illinois (peraltro dopo una serie di conflitti sindacali) ordinò alla Pullman Company di rinunciare a tutte le proprietà che non venivano usate per fini produttivi, sostenendo che il possesso di una cittàera incompatibile con la teoria e lo spirito delle nostre istituzioni.

    Il libro di Walzer uscì in inglese nel 1983. Chissà se fu letto da qualcuno dei pretori che, nel 1984, imposero al grande imprenditore edile Berlusconi di interrompere le trasmissioni tv (incostituzionalmente) unificate a livello nazionale? E che dire poi del suo successivo acquisto della Mondadori, la più grande casa editrice nazionale, e dei grandi magazzini Standa? E infine della sua successiva discesa in politica?

    Vedi. M. Walzer , Sfere di giustizia, Feltrinelli, 1987. In questo testo non mancano anche considerazione sul potere culturale unilaterale della pubblicità. Cfr. pp. 111-115 e 128.

    Oltre a questa questione di giustizia e di equilibrio di poteri sociali, è chiaro che in un modo o nell’altro i valori dell’educazione offerta dai palinsesti televisivi assecondano gli interessi economici generalidegli inserzionisti. Vedremo in particolare che dopo un decennio di educazione neotelevisiva tutta una serie di tendenze consumistichesi sono consolidate nella nuova generazione (cfr. cap. 1, § 4).

    Malgrado le analisi degli scienziati sociali di cui ho parlato all’inizio, nel complesso questo crescente peso dei privati nell’educazione pubblica negli anni 80 è stato sottovalutato tanto dalla gran parte dei ricercatori quanto dai politici. Certo, una parte di questi ultimi, cattolici e marxisti in particolare, si sono opposti chiaramente alla commercializzazione spinta della tv, ma spesso con un’ottica troppo condizionata da prospettive a corto termine e dal problema del controllo dei media in funzione del voto.

    Inoltre una parte dell’opinione pubblica era preoccupata, talora fino all’isterismo, a causa di certi contenuti televisivi (in breve: sesso, violenza, immoralità) precocemente offerti ai bambini e ai ragazzi; e quest’ottica particolare finiva per oscurare il problema centrale, quello della tv come grande agenzia educativa dei capitalisti inserzionisti. Persisteva inoltre ancora la paura del mezzoin quanto tale, della sua presunta potenza suggestiva, ipnotica e istupidente (per questo Morcellini reagiva dicendo che la tv fa bene ai bambini).

    Certo, porre la questione dei contenuti televisivi offerti indiscriminatamente dalle tv ai minori era legittimo, anche se ciò poteva essere confuso con un invito a tornare alla vecchia censura clericale che aveva imperversato in Rai e anche al cinema fino a poco prima. Tuttavia, se i parenti hanno il diritto-dovere di occuparsi dell’educazione dei figli minorenni, hanno anche quello di occuparsi dei contenuti di tale educazione veicolati dai media (negli Stati Uniti, portati sempre a proposito e a sproposito come esempio di liberalismo, era stato a questo scopo realizzato un filtro che esclude dai canali disponibili ai bambini i contenuti che i genitori considerano inadatti, e più tardi filtri analoghi sono stati realizzati per Internet).

    D’altra parte è vero anche che i genitori italiani hanno spesso rinunciato, per scelta o per necessità, a questo diritto-dovere per quanto riguarda la tv, o, se anche hanno tentato di esercitarlo, talora non hanno avuto la competenza mediatica per farlo. Ma non si tratta di un problema privato dei genitori. Educare i figli è anche un dovere sociale, e la democrazia può funzionare effettivamente solo quando genitori e scuola pubblica, senza dipendere da altri poteri, sono in grado di garantire una formazione adeguata ai futuri cittadini, che sono il più prezioso dei beni comuni.

    Molto più gravi furono le responsabilità dei diversi partiti politici: quella più ovvia è consistita nel favorire o tollerare l’avvento del duopolio Rai-Mediaset (oltre tutto in spregio alle mitiche leggi della concorrenza), ma fu molto grave anche la totale inerzia –o colpevole ignoranza– rispetto al problema delle conseguenze che l’affermazione del nuovo mezzo avrebbe potuto avere sul sistema scolastico tradizionale. Il linguaggio della cultura orale e scritta, delle favole e della letteratura, rischiava di essere reso vecchio, noioso e addirittura incomprensibile dal nuovo veloce linguaggio televisivo. La scuola avrebbe dovuto premunirsi cercando in qualche modo di renderlo compatibile con il proprio –in particolare attraverso l’introduzione sistematica della media education. Questo avrebbe dovuto richiedere fin dagli anni ottanta un massiccio investimento sia in attrezzature, sia nella formazione degli insegnanti, sia nell’adeguamento dei programmi e dei metodi.

    Sotto questo profilo gli insegnanti – mal pagati, non formati pedagogicamente e mal coordinati, nonché spesso oggetto di critiche pregiudiziali o impietose da parte dell’opinione pubblica – non potevano essere all’altezza di questo complesso compito. Inoltre essi spesso non hanno mostrato, nel momento dell’impatto della neotelevisione, una particolare sensibilità ai nuovi linguaggi, anche a causa di una tradizione culturale centrata sulla scrittura e timorosa dei nuovi strumenti tecnici.

    3. Consumismo, individualismo, competitività, primato del mercato

    In sintesi, il sistema dei media moderni e in particolare quello delle emittenti commerciali - ben più pervasive del cinema, dei fumetti o della RaiTv degli anni cinquanta e sessanta - si poneva ormai, negli anni ottanta, come un importantissimo potere esterno alle due principali agenzie educative (famiglia e scuola), e prendeva ormai parte in modo massiccio al processo formativo. Ed esso aveva come motore essenziale la pubblicità. Il massmediologo Antonio Pilati nel 1987 si compiaceva già del fatto che la programmazione della nuova televisione commerciale, la parte più importante dei prodotti della conoscenza, era soggetta, grazie all’intermediazione della pubblicità, alla guida delle imprese.

    Questo sarebbe il massimo della democrazia se si accetta l’idea che tutto debba essere impresa, e che ogni individuo sia un *imprenditore di se stesso, un’impresa individuale che investe sullo sviluppo del proprio capitale umano (una volta chiamato forza lavoro). La leadership delle imprese sulla tv coinciderebbe con quella degli individui-impresa, o almeno della parte più attiva ed intraprendente di essi. Ma se si considera la grandezza effettiva delle imprese capaci di investire massicciamente in pubblicità televisiva, si troverà che tale leadership in ultima analisi è esercitata soprattutto da un numero limitato di aziende oligopolistiche, o in *posizione dominante sul mercato.

    Per chi considera l’imprenditoria commerciale come l’essenza dell’uomo e dei suoi rapporti sociali l’influenza delle imprese sui media attraverso la pubblicità e il loro conseguente peso nell’educazione è comunque un bene. Questo è il punto di vista del *neo-liberalismo (o neoliberismo), la concezione della società che oggi sembra pervadere gran parte della nostra cultura. In essa si danno per scontati presupposti che non si verificano nella realtà, come il fatto che il compratore-venditore sia perfettamente informato e che la concorrenza sia perfetta. Ma perché ci sia una concorrenza perfetta sarebbe necessario frazionare le aziende che sono in *posizione dominante o quasi dominante sul mercato, e redistribuirne i capitali. E questo vorrebbe dire metter mano alla proprietà privata, un tabù neoliberale.

    Le politiche neoliberali dell’Unione Europea hanno portato ad una raffica di privatizzazioni, e anche alla riprivatizzazione di settori che in precedenza erano stati nazionalizzati (solitamente proprio per evitare posizioni dominanti, oligopolistiche o monopolistiche da parte dei privati) come energia elettrica, telecomunicazioni, trasporti ferroviari, acqua e, come è ben noto, radio e televisione. Il risultato di queste privatizzazioni e riprivatizzazioni è stato spesso una situazione in cui alcune aziende hanno una notevole posizione di vantaggio sulle altre, o una posizione dominante, o formano addirittura un oligopolio.

    A noi interessa il caso della televisione italiana, che in effetti ha fatto da battistrada sulla via dell’americanizzazione ed è stata aperta ai privati molto prima (1976) delle direttive europee. È vero che le piccole emittenti private sono diventate numerosissime, ma è anche vero che il mercato dell’inserzione pubblicitaria nell’età dell’oro della neotelevisione è stato regolato dalle intese tra Fininvest (poi Mediaset) e Rai, le due imprese in posizione dominante sul mercato. Inoltre, se Fininvest ha permesso di far pubblicità a medie imprese che non potevano accedere a Carosello ai tempi del monopolio Rai, è però vero che i suoi interlocutori privilegiati erano grandissime aziende come Barilla o Ferrero, in particolare quando Berlusconi possedeva anche i supermercati Standa e vendeva gli stessi prodotti che pubblicizzava.

    Quanto all’individuo imprenditore (solo) di se stesso (e di nient’altro) è impensabile che partecipi alla leadership collettiva degli imprenditori sui media di cui parla Pilati, all’egemonia culturale pubblicitaria. Alcuni possono solo permettersi di mettere sui muri della loro città un avviso di uomo in affitto, come quello riprodotto in questa foto, scattata a Torino.

    [foto scattata a Torino]

    4. Media, educazione e pubblicità oggi, ai tempi dell’invecchiamento della neotelevisione e della diffusione dei media interattivi

    Torniamo al nostro problema di partenza: la cultura pubblicitaria dei media commerciali e la sua funzione educativa.

    Oggi il sistema dei media si è trasformato: la neotelevisione è diventata vecchia, e la pubblicità va alla caccia dei pubblici di nuovi media. Vedremo che questa conquista, in mancanza di un palinsesto basato su di un orario fisso di fruizione da parte dei diversi pubblici-target, si presenta più difficile (cap. 8-9). Tuttavia la capacità della scuola pubblica di esercitare appieno lasua funzione educativa con generazioni in trasformazione sempre più rapida sembra ancora minore. Essa non ha attrattiva sugli studenti tra l’altro per la sua incapacità di garantire una promozione sociale e un’occupazione lavorativa. Nel frattempo l’apprendimento spontaneo dell’uso dei nuovissimi media (dai videogame allo smartphone) precede quasi sempre l’apprendimento scolastico dell’uso del computer e della Rete. Ma il lato più carente dell’insegnamento è la mancanza di una vera e propria Internet education, che insegni ad usare la Rete come strumento di ricerca criticae a mantenere da essa il dovuto distacco razionale.

    D’altra parte, oggi la cultura consumistica sembra perdere credibilità sempre di più. Le cause sono certo molteplici, ma un peso importante va attribuito, oltre alla crisi economica e ai disagi ecologici, alla diffusione della pay tv e soprattutto di Internet come mezzo interattivo. Il pubblico è in grado di confezionarsi un palinsesto-fai-da-te, fruendo dei media, tv inclusa, ad orari e secondo modalità stabiliti da ciascuno, e questo, come vedremo, mina alla base la tradizionale pubblicità televisiva.

    La crisi della cultura del consumo sembra procedere in parallelo con la ben più evidente crisi della politica, ridotta dal *marketing politico alla dimensione della politica-spettacolo. Mentre si diffondono nuovi stili di consumo più sobri, la partecipazione politica tradizionale è in crisi e l’astensione elettorale aumenta. E non solo da parte dei cittadini politicamente non competenti e mal informati, e di chi è tradizionalmente poco interessato alla politica, ma anche da parte di cittadini competenti e ben informati. La politica-spettacolo continua a imperversare in tv, ma il marketing politico non riesce più a vendere come prima il suo prodotto, il branddei partiti consolidati e dei loro leader.

    Ci sono vari indizi del fatto che le nuove generazioni siano più attente ai nuovi stili di vita -più sobri e meno consumistici- e un po’ meno sensibili al richiamo pubblicitario. È forse il risultato delle dure lezioni della crisi economica, dell’uso prolungato di Internet -interattiva e con un palinsesto fai da te- o anche della peer education(per molti versi stimolata dall’uso di Internet)? O forse anche il risultato delle tendenze della cultura giovanile globale?

    Quali sono dunque le prospettive dell’egemonia della cultura pubblicitaria oggi? Questi saranno i temi degli ultimi capitoli.

    5. Il declino della cultura pubblicitaria televisiva ha generato nuovi tensioni egemoniche

    Come ho accennato, è probabile che la crisi economica sia stata un fattore significativo del graduale declino della cultura consumistica (l’evoluzione della cultura popolare certo non dipende solo dai media). Oggi sono ben noti i danni all’ambiente che il consumismo ha provocato, e le cattive abitudini che ci ha dato (le quali in gran parte permangono anche in un periodo di cambiamento climatico), mentre stanno anche diminuendo le risorse naturali disponibili, aumenta ancora la popolazione globale e continua il processo di industrializzazione di nuove aree del mondo. È dunque importante per i cittadini coscienti e responsabili promuovere un’educazione rispettosa dell’ambiente e limitare le influenze della cultura pubblicitaria.

    È abbastanza evidente che uno dei messaggi dominanti nei palinsesti sia quello consumistico, come richiedono gli interessi più ovvi degli inserzionisti e come mostrano alcuni grandi sondaggi che mostrano la differenza tra le generazioni più o meno investite dal messaggio televisivo (cfr. cap.1 §, 1.4 e cap. 10 § 10.3). Ma è l’unico messaggio importante? Un’analisi dell’offerta dei messaggi complessivi (tg, film, telefilm, talk-show, ecc.) sarebbe un’impresa infinita. Tuttavia ci si deve pur chiedere se i vecchi palinsesti dei media commerciali non siano stati anche il veicolo di quel senso comune neoliberalepervasivo di cui abbiamo parlato. Per esso la vita sociale è essenzialmente un’accanita competizione tra individui-impresa, lo sviluppo del Pil è il vero bene comune, il mercato è il modo migliore per sviluppare la produzione, la diseguaglianza economica è uno stimolo della crescita, e ciascuno per conto proprio è l’artefice della sua fortuna, anche se deve continuamente rimettersi in gioco e correre nuovi rischi.

    Questo, a mio avviso, è il messaggio forte dei media egemoni, destinato ai vincenti, e anche a coloro che pensano di poterlo essere; ma a fianco di esso si è sviluppata una specie di sottocultura per quanti competono in posizione decisamente svantaggiata: la vita è un gioco a premi, o un talent show, in cui conta la fortuna, ma anche l’aspetto fisico, la capacità di seduzione, le conoscenze giuste, la disinvoltura e la spregiudicatezza (estremizzando, è il modello di Fabrizio Corona – finché era baciato dalla fortuna).

    Ma non tutto è televisione. In diverse società occidentali abbiamo visto sorgere, in reazione alla crisi economica, politica e morale della società, grandiosi movimenti di risveglio civico. Il movimento movie on, che ha sostenuto Obama, la rinascita del socialismo dentro il partito democratico americano con Bernie Sanders, la formazione di Siryza in Grecia, la nascita di Podemos in Spagna, il rinnovamento dei laburisti in Inghilterra con Corbyn. E in Italia, i diversi movimenti studenteschi e sociali, culminati nei referendum del 2011, e, alle sue origini, anche il Movimento Cinque Stelle (quale che sia la sua successiva evoluzione).

    Non meno forti sono altri movimenti, che potremmo chiamare di reazione popolare, caratterizzati dalla paura del diverso e dalla chiusura identitaria. La Alt-Right americana e l’inglese Ukip, il Front National in Francia (oggi Rassemblement National), la Lega Nord (oggi Lega con Salvini), ecc. in sostanza reagiscono in modo diverso agli stessi problemi urgenti. Queste forme di populismo di destra infatti sono abbastanza tipiche di chi teme il futuro e si sente minacciato dalla globalizzazione, sia del capitale che del lavoro.

    I social network sono serviti da strumento di comunicazione e da terreno di coltura degli uni e degli altri.

    Nello spazio pubblico-privato dei social ci siamo trovati in questi anni di fronte a tendenze contraddittorie.

    C’è da un lato la tendenza all’individualizzazione e all’individualismo, di matrice consumista pubblicitaria –presente, come vedremo, nelle regole proposte e anche nel modello implicito nei social, basati sull’esibizione di sé e della propria immagine. Questa tendenza corrisponde anche ad un basso interesse per la politica da parte di molti giovani – come si è visto nell’astensionismo nel referendum per la Brexit e nel voto presidenziale Usa. L’universalismo politico e i diritti individuali vengono dati per scontati, fino al punto di non sentire l’urgenza di mobilitarsi per essi.

    Dall’altro c’è la tendenza alla chiusura in comunità(di lingua, di stile di vita, di tradizione o pseudo-tradizione, di religione, ecc.), separate e, in certi casi, contrapposte e fortemente conflittuali (Catalogna vs Castiglia, Vallonia vs paese fiammingo, ecc., tifosi di una squadra contro tifosi della squadra avversa, estremismo di destra vs estremismo di sinistra, ecc.). Paradossalmente i social, i cui proprietari americani appartengono alla sinistra del politically correct, sono usati da moltissimi utenti anche per esprimere idee antiuniversalistiche o apertamente razziste, usando spesso come forma espressiva il linguaggio dell’odio ( hate speech).

    Le due tendenze –per quanto contraddittorie- spesso si sovrappongono nei messaggi, nei discorsi e negli individui. La mancanza di chiare prospettive per uscire dalla crisi, l’esasperazione generalizzata, la confusione e la labilità dei messaggi odierni permettono a imprenditori politici dell’effimero– come i leader populisti – di mescolare l’individualismo anti-istituzionale agli appelli identitari.

    L’espansione di Internet e dei social hanno favorito la fede nella disintermediazione per via digitale, e molti preferiscono far da sé con l’ausilio della Rete in un’infinità di settori (dai viaggi all’investimento finanziario, dalla medicina all’informazione). Ma questo atteggiamento anti-istituzionale e anti-professionale si mescola spesso con forme di populismo che si richiamano alla comunità, e, magari, alla patria. A questo aiuta poi la mancanza di memoria storica e la distruzione delle culture politiche tradizionali: in Italia la dimenticanza del passato fascista e coloniale permette ricostruzioni identitarie di fantasia o di parte (per esempio, si legge la storia delle foibe in Venezia Giulia senza leggere la storia del Regno di Croazia, in mano ai nazisti e ai fascisti - italiani).

    Allo stato puro, nessuna delle diverse tendenze sembra potersi affermare facilmente come egemonia, né il comunitarismo localista, nazionalista o razzista della destra, né il globalismo individualista-universalista veicolato dai media delle multinazionali americane: il primo non sembra poter diventare egemone perché non sembra in grado di coinvolgere abbastanza le giovani generazioni, e il secondo non può diventare *nazional-popolare per la sua matrice astratta ed estranea al nostro passato. Non sembra che sia già il tempo per un’egemonia culturale globale o anche solo occidentale delle majors di Internet.

    Ma è anche abbastanza lontano il momento in cui i ceti subalterni, i lavoratori dipendenti, i lavoratori *intellettuali di base siano in grado di elaborare una contro-egemonia. Tuttavia è compito urgente dei cittadini coscienti e responsabili e delle loro associazioni e organizzazioni non solo combattere le tendenze razziste e antidemocratiche, ma anche limitare le influenze della cultura pubblicitaria e dell’individualismo dei social, e richiedere che la scuola promuova una vera media e Internet education.

    È inutile dire che oggi in Italia questo compito è assai arduo. Ma è collegato con il tentativo di costituire un soggetto politico delle classi subalterne, italiano ma anche transnazionale, che possa opporsi alle forze transnazionali che sono responsabili della crisi globale in corso.

    Questa ricerca è solo un contributo al lavoro preliminare di demistificazione delle illusioni correnti. Essa cercherà di mostrare che il nuovo populismo, connesso alla politica-spettacolo, è, in tutte le sue principali varianti -di Berlusconi, di Renzi, di Salvini, del M5S-, causa di degrado del dibattito democratico, di creazione di contrapposizioni artificiose, nonché di abbassamento del livello del discorso e di demoralizzazione dell’opinione pubblica.

    Ciascuna di queste forze ha proclamato di volta in volta, con diverse sfumature, di star combattendo per risolvere il problema della crisi e contro il potere sovranazionale della finanza globale, del Fmi, della Commissione Europea, della Bce, ecc., e perciò di essere vittima del boicottaggio di tali organismi (cosa che in qualche caso è avvenuta). Tuttavia esse non sono la soluzione, ma parte del problema.

    6. Nel labirinto del presente

    Dopo le elezioni del politiche 2018 e le europpe del 2019, il problema è diventato ancora più grave e più complicato. Non ho osato spingere troppo in là la mia analisi. Ho cercato di mostrare che la cultura pubblicitaria televisiva aveva raggiunto l’egemonia negli anni ottanta-novanta, anche se l’aggressivo populismo berlusconiano in qualche modo provocava costanti reazioni di rigetto; ma che poi nel nuovo secolo l’egemonia della tv è andata via via sfaldandosi, lasciando dietro di sé una tendenza endemica allo scontro politico e sociale sempre più acuto. L’incredibile contrapposizione a tre del 2013, l’impatto dei social e le obiettive difficoltà (per chiunque) di gestire la crisi economica hanno reso sempre più difficile una vera e propria egemonia culturale di una precisa parte. Quello che più mi sembra più grave è che ogni nuovo leader populista che si afferma sembra destinato ad una durata breve, e così gioca la sua carriera politica su parole d’ordine sempre più aggressive e porta il dibattito ad un livello di civiltà e di razionalità sempre più basso. In tal modo il successivo leader vittorioso probabilmente vincerà sulla base di una contrapposizione politica ed emotiva ancora più forte.

    Non proverò a gettar luce sulla situazione del 2018-2019, ma sono convinto che sia indispensabile, oggi, per poter guardare avanti, guardare anche indietro e ripercorrere criticamente la nostra storia. Una delle caratteristiche della comunicazione odierna della tv e dei social è proprio l’appiattimento sul presente e il rifiuto della riflessione storica.

    Per altri miei interventi, si veda il mio profilo in www.academia.edu.

    Sono a disposizione dei miei lettori per chiarimenti e discussioni: f.repetto.info@gmail.com

    NOTA

    Le fonti. Il metodo. Egemonia. Sondaggi. Ricerca qualitativa.

    FONTI. Questo saggio intende mantenere una forma il più possibile chiara e accessibile ai lettori non specialisti. Per le fonti di moltissimi dati, affermazioni e citazioni meno recenti quasi sempre rinvierò tra parentesi quadre alla mia ricerca Cultura pubblicitaria e berlusconismo. Le origini dell’egemonia della tv commerciale e il suo declino all’epoca dei social media, Aracne, Ariccia 2015 (abbreviata in R.2015). I testi utili sono contenuti nel sito contributi-a-didatticaericerca.it. [in allestimento]. Lì si trovano anche aggiornamenti e dati recenti.

    La ricerca ricordata era a sua volta la rielaborazione e l’ampliamento in italiano della mia tesi di dottorato in Sciences de l’Information et de la Communication sostenuta presso l’Università di Grenoble 3, accessibile nel sito http://tel.archives-ouvertes.fr/tel-00690917 , pubblicata nel 2012, e citata d’ora in poi come R.2012.

    METODO. Il libro che state leggendo è essenzialmente una ricerca storica. Essa espone i risultati di analisi compiute da scienziati sociali di diverse discipline dagli anni ottanta ad oggi e i dati di varie indagini sul campo e sondaggi (sul tema specifico di Berlusconi come personaggio pubblico degli anni ottanta non ho trovato studi significativi e per questo ho svolto un’indagine sulla stampa periodica).

    Questo saggio non ha nessuna pretesa di scientificità. La storia non è una scienza nel senso delle scienze empirico-matematiche, e anche le capacità di spiegazione e di previsione delle stesse scienze sociali sono molto più limitate di quanto l’opinione giornalistica potrebbe far credere. Fino ad oggi la sociologia della comunicazione non ha raggiunto un accordo su quali teorie degli effetti dei media possano essere considerate fondate scientificamente. Del resto anche gli effetti dell’educazione in genere (familiare, scolastica, televisiva, tra pari, ecc.) sono ben lungi dal poter essere previsti.

    La storia, senza essere una scienza, espone dei fatti, cerca di individuare delle tendenze, costruisce delle interpretazioni plausibili. In questa ricerca i fatti e i problemi sono selezionati esplicitamente sulla base di determinati valori politici e costituzionali, come la possibilità di partecipazione di tutti alla vita sociale e culturale (art. 3 Cost.), incluso il processo educativo.

    EGEMONIA. È centrale per me il concetto di egemonia culturale.Tale egemonia è un fenomeno culturale che ha, sul lungo periodo, delle ricadute politiche: l’élite (o il gruppo di élite) che in qualche modo la detiene puòriuscire ad ottenere, grazie ad essa, un tacito consensopreliminare a tutta una serie di scelte pratiche.

    Cerco di chiarire come intendo questo concetto:

    1) L’egemonia culturale non è la capacità manipolatoria di determinare meccanicamentenell’opinione pubblica certe opinioni e di dare un senso alla vita sociale. È piuttosto la capacità di controllare l’agenda, cioè i temi, i problemi, le "narrazioni" e spesso anche il linguaggio della comunicazione pubblica. È la capacità di inserirsi in modo propositivo nel processo educativo delle nuove generazioni,in un rapporto circolare: non si tratta solo di inviare messaggi ai giovani, ma anche di ascoltare le loro reazioni, e modificare il proprio messaggio sulla base di tale feedback.

    2) In senso gramsciano, la cultura egemonica sarebbe l’espressione di una classe sociale propriamente detta, come la borghesia capitalistica o il proletariato. In questo testo è considerata invece come l’elaborazione di un’élite o di un gruppo di élite (intellettuali, mediatiche, politiche, economiche). Nel caso della cultura pubblicitaria in Italia (dagli anni ottanta in poi) il cuore di queste élite sono i grandi inserzionisti capitalistici e le grandi tv commerciali. Non si tratta certo di un preciso partito, né tanto meno di un complotto o di un’intesa segreta, ma piuttosto di una tacita intesa, che non ha un particolare bisogno di essere esplicitata, perché avviene sulla base del comune interesse economico e di una visione del mondo approssimativamente condivisa. Chiamerò questa egemonia minimalista egemonia di default (su tacita intesa ed egemonia didefaultcfr. cap. 3.2).

    3) L’egemonia non è proposta qui come un concetto scientifico, ma solo come un quadro concettualeper il lavoro dello storico (e, speriamo, anche di chi fa politica). Usare questo quadro aiuta a formulare delle ipotesi di ricerca. E insieme stabilisce il campo dei significatientro cui si muove il nostro discorso -in particolare i significati che assumono per i cittadini la convivenza e il legame sociale, decisivi per il consenso al potere politico e sociale. Analizzare l’egemonia non consente di fare previsioni scientifiche, ma aiuta a dare un significato e una direzione alla propria azione nella società.

    SONDAGGI E RICERCA QUALITATIVA. Nonostante quanto detto sopra, nel testo cito ampiamente i sondaggi,e molte ricerche basate su di essi. Il loro principale difetto, secondo molti specialisti, è che le risposte sono chiuse e chi risponde rimane ingabbiato nelle alternative fornite dal questionario. Per questo, dove ho potuto, ho citato anche ricerche su base qualitativa (basate sull’osservazione diretta, su interviste aperte, e simili). Va ricordato poi che le migliori indagini quantitative sono fatte con questionari attentamente elaborati attraverso focus group nei quali gli studiosi e un gruppo di persone selezionate tra la popolazione discutono ampiamente sui temi in esame.

    Fatti recenti, come la mancata previsione del voto nel caso della Brexit e dell’elezione di Trump, hanno creato nei non specialisti un allarme eccessivo riguardo alla validità dei sondaggi in assoluto. In realtà le smentite più clamorose sono avvenute quando si doveva prevedereun’azione precisa con una precisa soglia numerica. Trump per esempio ha conquistato il pacchetto dei voti presidenziali del Michigan per soli 12.000 e quello del Wisconsin per soli 27.000, in relazione a diversi milioni di elettori in entrambi i casi. Poiché chi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1